Il sole 24 Ore: Lo stato solo
dove non arriva il privato.
Se ne parla molto, ma è realizzata con grande
fatica. In effetti, salvo poche e benemerite eccezioni la storia
dell'umanità si è quasi sempre mossa in direzione opposta. Stiamo
parlando di "sussidiarietà", una parola-chiave non solo del
mercato, ma più in generale di ogni autentica società liberale.
Non stupisca se la sua versione contemporanea vada
ritrovata nell'enciclica Quadragesimo Anno (1931) che ribadisce
l'impegno sociale dei cattolici, ma conferma anche le radici
personalistiche e comunitarie della "dottrina sociale" della
Chiesa.
Vi sono infatti due modi di intendere la "sussidiarietà":
uno riguarda i rapporti tra l'iniziativa personale e i poteri pubblici;
l'altro modo riguarda i rapporti tra i diversi livelli di governo. In
ambedue i casi, il latino è chiaro: sussidiarietà significa essere di
aiuto nel realizzare gli obiettivi di ciascuno, senzamai sostituirsi né
imporre gli obiettivi stessi. «Aiutare in modo suppletivo» significa
anzitutto un grande rispetto per la persona umana, che è insieme
responsabilità e tolleranza nei confronti del prossimo. Qualcosa che
non è stato certo mostrato dai prepotenti che hanno sfilato a Roma,
sabato scorso.
Privato e pubblico. La sussidiarietà viene anzitutto
invocata per difendere la persona e i suoi progetti dalla invadenza dei
pubblici poteri. Questi servono se perseguono il bene comune, e
dovrebbero quindi preliminarmente dimostrare che il loro intervento è
necessario. Per autentici beni pubblici — come la difesa nazionale, la
sicurezza, la giustizia, la salute (?), l'istruzione (???) non è
difficile dimostrare l'utilità di un intervento dei pubblici poteri.
Che può anche arrivare alla produzione di quei beni e servizi da parte
degli stessi pubblici poteri, se non è possibile che si provveda
direttamente da parte degli interessati.
Meno evidente è invece l'utilità di un intervento
dei pubblici poteri nei tanti altri casi in cui ciascuna comunità
potrebbe benissimo occuparsi direttamente dei propri problemi. Pagare le
tasse e attendersi in cambio un'offerta di servizi di qualità migliore:
ciò assume che il settore pubblico non solo funziona bene, ma è sempre
migliore dei contribuenti stessi. Ipotesi eroica, che l'esperienza di
sindaco della mia città certo non mi porta a confermare. È ben
difficile che ogni Paese riesca sempre a esprimere una classe politica
migliore della propria classe dirigente.
Il principio di sussidiarietà ci aiuta a capire
quando e come l'intervento pubblico è utile, perché ci costringe a
darne dimostrazione, evitando di cadere nella trappola ideologica di chi
ritiene che ciò che è di tutti per ciò stesso sia meglio di ciò che
è di ciascuno.
Soprattutto in Italia, ci costringe a dire la
verità: essendo largamente praticato e ambito l'uso privato del bene
pubblico (come ho verificato per i due settori di cui più mi sono
occupato negli ultimi anni: immobili pubblici e servizi pubblici
locali).
Rapporti tra livelli di governo. Altrettanto utile è
la sussidiarietà applicata ai rapporti tra i diversi livelli di
governo.
Negli ultimi otto anni, abbiamo praticato un gioco
politico divertente: quello dell'elezione diretta dei vertici del potere
pubblico. Dai sindaci ai presidenti di Provincia e ora di Regione. In
futuro, potrebbe essere la volta del capo del Governo. In ciascun caso,
si è esaltato l'accresciuto ruolo di quel livello di governo, senza
nulla innovare nei rapporti con gli altri. Siamo così alla paralisi:
l'aumentata "autonomia" di ciascun livello di governo senza un
preciso ordine di sussidiarietà, significa che abbiamo assieme il
massimo del centralismo (alla fine, quel poco che si decide è Roma a
deciderlo) con il massimo del federalismo (cioè di concorrenza tra
territori). Un modello di sussidiarietà dovrebbe invece servire a
valorizzare il meglio di ciascuna comunità, essendo chiaro che i
livelli di governo "maggiori" aiutano quelli
"minori" a conseguire gli obiettivi che si sono dati. Questa
cultura fatica a esprimersi nel nostro Paese, dove sembra vigere il
principio opposto. Basta vedere in che termini si sia svolto il recente
dibattito su federalismo e devoluzione — tra Governo e presidenti
delle Regioni. Due livelli di governo che intanto dovrebbero essere
utili in quanto aiutano Comuni e Province a meglio servire i loro
cittadini. Oppure, c'è qualcuno che può davvero sostenere che dovremmo
aumentare le competenze delle Regioni, perché sono il livello di
governo che meglio ha operato negli ultimi trent'anni?
Le riforme avviate, e il dibattito in corso, seguono
il vecchio cliché di tipo statalista, secondo il quale la sovranità
lascia i cittadini — quando essi votano — per andare il più
possibile lontano da loro, cioè al livello dello Stato. E da lì
«ritorna verso i cittadini», attraverso un successivo processo a
cascata: dallo Stato alle Regioni, alle Province, ai Comuni. Se il
principio di sussidiarietà fosse rispettato, il modus operandi politico
sarebbe esattamente il contrario, ciascun livello di governo essendo di
aiuto a quello "minore", per la realizzazione dei suoi
obiettivi.
Possiamo prevedere che qualcosa del genere sia presto
attuato nel nostro Paese?
Da un lato, stiamo ancora sommando e moltiplicando
gli interventi e il coinvolgimento di tutti i livelli di governo —
dalla Unione europea ai consigli di quartiere — nelle materie più
disparate. Per questo aspetto, un riordino funzionale sembra tardare, e
non è neppure all'ordine del giorno. Ogni trasferimento di
responsabilità e di compiti finora realizzato, non è mai stato
completo, mai totale. Residuano sempre competenze e poteri, che fanno
aumentare l'interdipendenza: «Tutti dicono la loro, nessuno ne
risponde». Ma questo è esattamente il contrario della sussidiarietà.
Per questo aspetto, non c'è dunque da essere ottimisti.
Per quanto riguarda i rapporti tra persone e poteri
pubblici, qualche passo avanti è stato invece realizzato, soprattutto
con il processo di liberalizzazione cui porta la necessità di
integrazione europea. Non c'è dubbio che ciascuno di noi è oggi più
"libero" di quanto non fosse dieci o vent'anni fa, in
particolare per quanto riguarda le possibilità di impiego della propria
ricchezza. Il potere pubblico è arretrato di alcuni passi, lasciandoci
più liberi. A volte, anche liberi di sbagliare. Ma questa è la prima
regola di un codice di libertà cui la "sussidiarietà" serve:
chi ti aiuta a far meglio, non deve anche volerti impedire ogni sbaglio!
Questo dovere spetterebbe solo a chi è infallibile, ma di questi non se
ne vede tanti tra i pubblici poteri.
La liberalizzazione da tempo avviata per il
patrimonio dei cittadini, sta per estendersi ai principali servizi
pubblici, dove di nuovo ciò che più conta sono le liberalizzazioni,
cioè l'arretramento dei pubblici poteri a soli compiti di regolazione.
Come prevede il disegno di legge Ac 7042 (già approvato dal Senato
quando era Ddl 4014) dei servizi pubblici gli enti locali si occuperanno
solo se già non funziona bene l'iniziativa privata. E anche
l'intervento dovuto non si estenderà all'offerta diretta, ma di norma
si limiterà alla definizione delle regole. Il primo — e spesso
l'unico — "aiuto" che dovremmo aspettarci dai pubblici
poteri è infatti quello di definire le migliori regole.
Giacomo Vaciago
(c) Il Sole 24 Ore