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Nel 1958, quando
in Italia furono chiuse le case di tolleranza, vi lavoravano 2700
prostitute. Si credeva allora che il meretricio fosse la naturale valvola
di sfogo in una società dove i costumi "repressivi" rendevano
difficili contatti intimi con donne, diciamo così, "oneste";
per una buona parte dei maschi italiani era normale frequentare i
bordelli. Oggi, la "libertà sessuale" divenuta fatto compiuto,
la facilità di incontri con colleghe e compagne assicurata e perfino
socialmente approvata, il numero delle prostitute è sceso? Al contrario.
E' almeno decuplicato, secondo la stima più prudente, quella del Rapporto
Censis, che le valuta in 28 mila (di cui il 10% minorenni). Ma già
l'Ufficio Europeo per l'Immigrazione dà per l'Italia il numero di 25 mila
donne straniere, e precisa che esse costituiscono solo il 60% delle
prostitute: dunque 35-40 mila donne «in vendita». E la Commissione
Affari Sociali della Camera (1999) parla di 50-70 mila donne. Sarà da
ingenui. Ma non si sfugge all'impressione che quest'enorme accresciuta
fame di sesso a pagamento - il più degradante - in una società dai
costumi "liberati" riveli una sinistra malattia della virilità,
un pauroso scadimento della sessualità, oltreché della moralità
maschile. Il giro d'affari del business si calcola in 30 mila miliardi
annui: dunque ogni maschio italiano (e nella media contiamo tutti, dai
lattanti agli ospiti delle case di riposo) spende oltre un milione l'anno
in sesso mercenario. E oltre il 55% dei clienti sono sposati. Che cosa
cercano nelle prostitute questi mariti, che non trovano nella moglie,
nell'amica, nella compagna consenziente di un'ora? A quali falle intime, e
intime paure compensano, pagando il sesso che oggi è fin troppo facile
avere gratis? E' una patologia. Poco descritta, anzi occultata. Al punto
che, per provare a chiarirla, dobbiamo ricorrere a un'indagine condotta
dall'Università di Atene sulla prostituzione in Grecia. Anche là, dal
'91 ad oggi, il numero delle prostitute è cresciuto a dismisura. Anche in
Grecia il 60% di loro sono straniere, non "libere" meretrici, ma
vittime di tratta e schiavitù. E l'enorme aumento
dell'"offerta" ha fatto calare i prezzi del 25%. Nonostante ciò,
il reddito della prostituzione è cresciuto del 70%, perché il numero dei
clienti è aumentato del 60%. Ogni economista vede qui un'anomalia delle
leggi di mercato. C'è solo un altro mercato, dove l'aumento dell'offerta
provoca l'aumento del consumo e dei consumatori, ed è anche quello
patologico: il mercato della droga. Anche per gli stupefacenti un clima
sociale poco permissivo, per il semplice fatto di rendere più difficile
l'approvvigionamento, tende a limitare il numero dei consumatori e la
quantità del consumo, mentre al contrario la depenalizzazione, la più
facile (e meno censurata) disponibilità, aumenta le occasioni e quindi il
numero dei consumatori di droghe. Proprio questa analogia col mercato
della droga ci suggerisce che combattere il mercato del sesso incontrerà
una difficoltà in più. Bisognerà affrontare gli argomenti degli
"anti-proibizionisti", di quelli che pensano che il
laissez-faire sia, anche in questo caso, la migliore cura. E che
accuseranno di moralismo, oltreché di oscurantismo clericale, ogni serio
tentativo di repressione del fenomeno, ogni penalizzazione di questo
"mercato". Eppure il nome di questo mercato non è più, ormai,
prostituzione. E' schiavitù. Quando il 60-80% delle prostitute sono
straniere clandestine, ciò significa che sono state deportate da noi da
bande criminali, segregate e costrette a vendersi con la minaccia, la
violenza e non di rado la morte. Non si tratta di deplorare un certo uso
del sesso; si tratta di opporsi al commercio di carne umana. Data la rete
globale, le potenti organizzazioni criminali implicate, le complicità e
corruzioni (anche tra i funzionari pubblici nelle dogane e nelle
ambasciate) che sostengono questo mercato di essere umani, la battaglia si
presenta già abbastanza difficile per sè. Si vorrebbe (con poca
speranza) che non sia resa più difficile da diatribe ideologico-radicali
sul "diritto a prostituirsi". In Olanda, dove sono state
riammesse la case chiuse su base privatistica, proprio in nome di un
"diritto all'autodeterminazione" di donne e transessuali, le
prostitute sono all'80% straniere e al 70% clandestine: le vittime più
certe di sfruttamenti feroci, inammissibili in Europa. Altro che
autodeterminazione. Il contrario del "corpo è mio e lo gestisco
io". E' urgente prendere atto della patologia d'inciviltà che questo
fenomeno rivela. Qui, si aprono al volontariato cattolico nuove forme di
apostolato. Per esempio, un apostolato dell'informazione alle ragazze
ignare dei Paesi dell'Est, che credono di venire in Italia per un lavoro
onesto, o magari anche per prostituirsi, ma a cui nessuno dice che il loro
destino è di finire schiave, terrorizzate, derubate, affamate e anche
uccise. Un apostolato ancora più arduo, tutto da immaginare, dovrebbe
riguardare i clienti, che quando vanno con una nigeriana o un'albanese,
non è la scappatella che si concedono, ma la partecipazione al crimine di
tratta degli schiavi. La vergogna sociale dovrebbe bollare simili
"consumatori"; la civiltà, prima che la carità e la morale,
esige che su costoro si eserciti una corale riprovazione, e persino
l'emarginazione sociale. O accettiamo fratelli, mariti, fidanzati che sono
anche fruitori di schiave? (c) L'Avvenire |
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