È necessario istituire una Commissione che controlli
la quantità di fandonie contenute nei testi scolastici di storia?
Sembrerebbe di sì, a giudicare dalla cultura
"ideologicamente corretta" che dilaga tra i nostri studenti e
dal tono acido di chi si è opposto alla proposta.
È possibile che una mostra fotografica relativa a
fatti avvenuti 140 anni fa metta in pericolo l’unità nazionale?
Sembrerebbe di sì, a giudicare dal chiasso suscitato
dalla mostra sul Risorgimento, presentata la scorsa estate al Meeting di
Rimini, e dalle levate di scudi dei soliti noti
"intellettuali".
È normale, per un Paese democraticamente maturo, che
ogni accenno al passato più o meno recente tocchi un nervo scoperto
dell’intellighenzia locale e scateni reazioni vicine all’isterismo?
Si direbbe di no, e allora, come mai in Italia questo
avviene sempre? Forse perché nella nostra storia ci sono ancora troppi
nodi non sciolti che, sebbene sepolti sotto vari strati di retorica,
continuano ad emergere alla prima occasione, e rivelano tutta la propria
centralità.
Uno di questi nodi, forse il principale, risale al
periodo immediatamente seguente all’unificazione d’Italia ed ha un
nome spaventoso ed oltraggioso insieme: Brigantaggio.
Cosa fu veramente il Brigantaggio e chi furono
i briganti? Delinquenti o resistenti, malfattori o patrioti?
Non è difficile intuire quanto vale la risposta a
questa domanda e perché la questione Brigantaggio sia la prima
da risolvere e la più dolorosa. Non solo in senso cronologico o per le
migliaia di vite distrutte, ma perché l’interpretazione che ne fu
data, e che è stata accettata dalla storiografia successiva, divenne la
matrice dei rapporti tra Nord e Sud che si è perpetuata fino ai nostri
giorni, e soprattutto perché ha radici profonde: se i briganti furono
delinquenti, l’Italia nacque legittimamente, ma se i briganti furono
patrioti e resistenti, allora è tutta un’altra storia.
Un notevole contributo alla ricerca della risposta ci
viene dal volume Brigantaggio legittima difesa del Sud,
edito dall’Editoriale Il Giglio (Napoli 2000, pagg. 206, lire
30.000), che ha il notevole pregio di raccogliere per la prima volta
insieme i nove articoli che la prestigiosa rivista dei Gesuiti, La
Civiltà Cattolica, dedicò, tra il 1861 e il 1870, al cosiddetto Brigantaggio
e alla terribile repressione che lo Stato unitario mise in atto per
annientarlo.
Impreziositi dall’indicazione degli autori (in
originale erano anonimi), gli articoli rappresentano una fonte storica
incontestabile per attendibilità ed autorevolezza e, nel loro insieme,
costituiscono una documentazione imprescindibile per far chiarezza su un
periodo della storia d’Italia che presenta più ombre che luci e sul
quale vige ancora in parte il segreto di Stato.
La rivista cattolica, infatti, nonostante fosse
schierata su posizioni antiunitarie e, anzi, sin dalla nascita nel 1850,
avesse dichiarato apertamente un intento antagonista rispetto alla
imperversante stampa liberale, divenne in breve un punto di riferimento,
per il rigore e la solidità delle trattazioni e per l’indiscutibile
formazione dei collaboratori, anche in quei salotti intellettuali e in
quei caffè che animavano la scena politica e culturale dell’epoca.
I suoi articoli si ripropongono a noi, oggi, come un
osservatorio privilegiato, attento ed obiettivamente critico della
vicenda storica italiana.
Cosa ci dicono del Brigantaggio i padri
Gesuiti della "Civiltà Cattolica"?
«Questo che voi chiamate con nome ingiurioso di
Brigantaggio non è che una vera reazione dell’oppresso contro l’oppressore,
della vittima contro il carnefice, del derubato contro il ladro, in una
parola del diritto contro l’iniquità. L’idea che muove cotesta
reazione è l’idea politica, morale e religiosa della giustizia, della
proprietà, della libertà».
Non fenomeno delinquenziale, dunque, ma reazione del
popolo contro un’invasione armata che lo spogliava del proprio Paese,
della propria libertà, delle proprie ricchezze, del proprio legittimo
Re.
Il Brigantaggio, infatti, ebbe inizio
letteralmente all’indomani della partenza per l’esilio del Re
Francesco II di Borbone, avvenuta il 13 febbraio 1861; i paesi lucani di
Tricarico, Montescaglioso, Stigliano, Lavello, Grottole, Laurenzana,
Montemurro e Ferrandina si sollevarono il 15 del mese.
In realtà, fino a quel momento, la popolazione non
era stata inerte di fronte all’occupazione piemontese, ma aveva
attivamente fiancheggiato le truppe dell’esercito borbonico. Dopo la
resa di Gaeta, le sollevazioni popolari si moltiplicarono in tutti i
distretti del Regno, in una sorta di reazione a catena, e si andarono
radunando bande armate, formate da contadini, artigiani, ex soldati
borbonici sbandati, piccoli signori locali. La guerra militare si
trasformò in guerra civile, come scriveva padre Carlo Curci in un suo
articolo.
D’altra parte, la collaborazione dei Napoletani con
garibaldini e piemontesi non era mai stata corale e anzi fu
assolutamente inferiore anche alle aspettative degli stessi
"liberatori". Il popolo, per la maggior parte, sin dal primo
momento dell’invasione, fu ostile e prese le armi. Lo confermano anche
le parole, riportate da padre Carlo Piccirillo, di un testimone d’eccezione,
Nino Bixio, braccio destro di Garibaldi e in seguito deputato. In una
seduta parlamentare sulla repressione del brigantaggio siciliano,
Bixio, tra lo sconcerto generale, disse: «La libertà della Sicilia
non è opera della sola Sicilia, è opera dell’Italia. Credete in me,
vi dico la verità. Se le province d’Italia non avessero mandato alla
Sicilia gli elementi che le hanno mandato, la Sicilia non sarebbe libera
e noi non saremmo qui a parlare, saremmo stati strozzati. […] Eravamo
circa quindicimila uomini: sei mila erano Veneti, cinque mila circa
erano Lombardi, mille erano Toscani e tremila circa erano Siciliani. […]
Mi si dirà che discorrendo di questi fatti, vengono fuori cose dolorose
a sapersi. Ma il mondo è com’è, ed importa sempre conoscere il
nostro Paese». Solo tremila siciliani collaborarono con i
garibaldini, su una popolazione di due milioni e mezzo! Questa
dichiarazione di Bixio, che da sola basta a sfatare la leggenda
risorgimentale delle "grida di dolore" giunte fino a Torino,
è registrata negli Atti Ufficiali del Parlamento, e padre Piccirillo ne
dà tutti i riferimenti.
La guerra dei briganti durò più di dieci
anni e vide schierate quasi 500 bande, che riunivano da poche unità
fino a 900 uomini.
La repressione messa in atto dai Piemontesi fu
violentissima sin dall’inizio, ma inefficace. Non bastò la metà dell’intero
esercito italiano (120mila soldati), cioè 52 reggimenti di fanteria, 10
di granatieri, 5 di cavalleria e 19 battaglioni di bersaglieri, per
avere ragione dei briganti; non bastarono neppure 7500
carabinieri e 84mila militi della guardia nazionale.
Il nuovo Regno d’Italia schierò ben 211.500
soldati e inviò i suoi ufficiali di maggior rilievo, come il principe
Savoia Carignano, Cialdini, Pinelli, Negri, eppure per molto tempo non
riuscì a distruggere neppure una banda, nonostante decine di migliaia
di esecuzioni sommarie e una feroce rappresaglia che coinvolse familiari
e compaesani dei combattenti.
Solo nei primi dieci mesi di combattimenti, furono
fucilati 9860 briganti o presunti tali; 6 interi paesi furono
dati alle fiamme (i più conosciuti sono Casalduni e Pontelandolfo);
13.629 persone furono imprigionate, la maggior parte senza processo.
Come si potevano giustificare di fronte all’opinione
pubblica italiana un simile schieramento di forze, tante atrocità e
risultati tanto scarsi? Soprattutto, come si poteva giustificare l’accanita
resistenza dei Meridionali contro i sedicenti "liberatori"?
Quale spiegazione si poteva dare del fatto che le fila dei briganti
continuassero ad ingrossarsi man mano che la piemontesizzazione
procedeva? In Piemonte qualche dubbio cominciava a serpeggiare anche tra
i liberali e i fautori del nuovo regno d’Italia; persino Massimo d’Azeglio
scriveva: "[…] ci vogliono, e pare che non bastino, 60
battaglioni per tenere il Regno, ed è notorio che, briganti o non
briganti, non tutti ne vogliono sapere. Mi diranno: e il suffragio
universale? Io non so niente di suffragio, ma so che di qua dal Tronto
non ci vogliono 60 battaglioni, e di là sì. Dunque dev’esser corso
qualche errore".
Così, nel 1863, fu istituita una Commissione
Parlamentare d’inchiesta, presieduta dal deputato Giuseppe Massari,
che, dopo lunghi sopralluoghi ed altrettanto lunghe riflessioni,
elaborò una Relazione, nella quale venivano indicate le
"vere" cause del brigantaggio: la miseria delle
popolazioni, dovuta ovviamente all’oppressione borbonica; la
particolare asprezza orografica di alcune regioni e la mancanza di senso
morale, tipica delle genti meridionali, testimoniata dal fatto che
essere brigante era quasi una tradizione locale (sic!).
Il Parlamento preferì discutere la relazione in una
seduta segreta. Forse perché neppure lo stesso Massari avrebbe avuto il
coraggio di sostenere simili stupidaggini e menzogne di fronte alla
stampa nazionale e soprattutto internazionale.
La "Civiltà Cattolica" operò una serrata
e acuta critica alle vergognose tesi del Massari, rilevandone falsità e
contraddizioni. «I Briganti nel Napoletano non comparvero per lo
addietro che in due epoche soltanto, nel 1796 cioè e nel 1806, vale a
dire sempre e solo allorché lo spodestamento del loro Re legittimo,
consigliò i più risoluti dei suoi sudditi ad opporsi colle armi in
mano ai nuovi oppressori del loro Re – scrisse padre Carlo
Piccirillo – Erano legittimisti che sorgevano a difendere una
nobile causa, col pericolo della loro vita. Ritornarono i Borbone sul
loro soglio e vi sedettero tranquillamente fino al 1860 e in tutto
questo tempo non vi fu pure un solo caso di brigantaggio. […] Succede
un nuovo assalimento di armi forestiere: ed ecco nuovamente in campo i
briganti combattere ad oltranza gli oppressori del loro Principe
sventurato. Tre volte dunque esulano detronizzati i Borbone dal loro
regno e tre volte il brigantaggio leva il suo capo arditamente a loro
sostegno». La ricostruzione storica del gesuita è impeccabile e la
definizione di legittimisti restituisce dignità ai popolani briganti
e ai nobili stranieri, come José Borjes, Rafael Tristany, Emile de
Christen e tanti altri, che combatterono con loro e che furono chiamati
"avventurieri".
L’articolo di padre Piccirillo continua con la
confutazione, punto per punto, della Relazione: se la popolazione era
povera perché affamata dai Borbone, come mai non si sollevò contro di
essi e si sollevava allora contro i "liberatori"? Le cupe
boscaglie e gli aspri monti, causa, secondo il Massari, dello spuntare
di funghi e briganti, non esistevano già al tempo dei Borbone? La
povertà c’era, sì, ma meno che nel passato e non più che altrove:
dunque, come mai essa aveva dato tragici effetti solo all’arrivo dei
Piemontesi? Quanto poi alle altre cause, cioè lo scioglimento dell’esercito
borbonico e la leva obbligatoria, indicate dal relatore come secondarie,
non testimoniavano con forza che, piuttosto che soldati dei Savoia, i
Meridionali preferivano essere Briganti e combattere per il
proprio Re?
Le tesi insulse e vergognosamente addomesticate della
Relazione Massari ebbero come risultato la promulgazione della Legge
Pica, che imponeva lo stato d’assedio e la corte marziale a tutte le
regioni del Sud e la repressione militare del Brigantaggio, già
di fatto praticata sin dall’inizio. Chiunque fosse anche solo
sospettato di essere un brigante poteva essere passato per le
armi senza processo; chiunque aiutasse o non denunciasse un brigante,
comprese madri, mogli e figlie, era passibile dell’ergastolo; chiunque
circolasse senza lasciapassare incorreva nell’arresto; le famiglie di
presunti briganti erano condannate al domicilio coatto: questi i
provvedimenti presi. Nei primi due mesi di applicazione della Legge Pica
si ebbero 1.035 esecuzioni e 6.564 arresti; ragazzine di appena dieci
anni, colpevoli di essere figlie di briganti, furono condannate a
vent’anni di carcere e furono separate dalle madri, anch’esse
imprigionate; intere famiglie furono smembrate e deportate. «La
Legge Pica, unico frutto della Commissione d’Inchiesta sul
Brigantaggio, ha potuto riempire le carceri e le isole di sospetti, ha
potuto costernare terre e province intere con inaudite vessazioni d’ogni
sorta, ma non ha potuto distruggere una sola delle bande armate, anzi al
contrario le ha fatte più numerose, più ardite e, ciò che è per
tutti ugualmente deplorabile, più crudeli» scrisse padre
Piccirillo nel suo articolo.
Gli anni tra il 1861 e il 1870 furono un lungo
periodo di disumana violenza, durante il quale si seminarono disprezzo e
odio; gli stessi soldati piemontesi ne furono travolti: ai 23mila uccisi
in combattimento, bisogna aggiungere alcune centinaia di suicidi e poco
meno di un migliaio di disertori, molti dei quali passarono dalla parte
dei briganti.
Sul fronte borbonico, invece, si contarono non meno
di 250mila morti, tra combattenti, fucilati e prigionieri, e circa
500mila condannati; anche i deportati non furono certamente pochi, se
entro il 1865 se ne contavano già 12mila. Finanche la storiografia
corrente ha riconosciuto che la repressione contro il Brigantaggio
ha fatto più vittime di tutte le altre guerre risorgimentali messe
insieme. «Qual nome meriti una setta scellerata che, a nome della
fratellanza nazionale, sguinzaglia ed aizza una parte della nazione a
sterminio dell’altra, perché il sangue dei manigoldi e delle vittime
sia titolo e strumento del suo dominio?» chiedeva nel suo articolo
padre Carlo Curci, e noi con lui.
Verso la fine del tremendo decennio, il Brigantaggio,
decimato e incattivito, andò perdendo la spinta ideale che lo aveva
animato e le bande rimaste si diedero, allora sì, ad atti di malavita,
istigate anche dalla condizione di estrema povertà nella quale le
regioni meridionali erano cadute e dalla nascita del latifondo, che
toglieva ai contadini ogni possibilità di una sopravvivenza dignitosa.
Solo da quel momento in poi, la repressione piemontese prese il
sopravvento: il Brigantaggio fu debellato definitivamente e i
Meridionali andarono a cercare una nuova vita nelle Americhe, avviando
un fenomeno del tutto sconosciuto fino nel Regno delle Due Sicilie. Nel
1861, infatti, si contavano soltanto 220mila italiani residenti all’estero;
nel 1914 erano 6 milioni. È inquietante, se si pensa che la popolazione
dell’ex Regno napoletano era composta da 8 milioni di persone.
L’esercito sardo aveva avuto la propria vittoria,
ma non così il regno d’Italia: i briganti non erano distrutti,
avevano trovato un’altra forma di resistenza, l’emigrazione.