di
Luigino Rosati
"Si
deve entrare in campo con l'idea di vincere, ma vincere senza crescere
significa non diventare mai un campione" J. McEnroe.
Il mondo si accorse di lui
quando, appena diciottenne, partendo dalle qualificazioni raggiunse le
semifinali a Wimbledon, il torneo più prestigioso del mondo, e si arrese
soltanto a Jimmy Connors. Era l'epoca in cui si stava affermando il tennis
giocato prevalentemente da fondo campo interpretato dai ritmi indiavolati
di giocatori come J. Connors o dagli specialisti del "lift" come
Borg, un vero e proprio maestro o Vilas. McEnroe arrivò come una mina
vagante e fece tremare il sistema, un po' troppo intorpidito.
Vederlo giocare quando attaccava era come rivedere "Mezzogiorno di
fuoco": lui si avvicinava fisicamente all'avversario e sembrava
chiedergli "Vediamo che sai fare, io sono qui". E' come quando i
pugili si provocano prima di affrontarsi nel corpo a corpo. Quando giocava
McEnroe, soprannominato "The Genius", era sempre un grande
evento, già dalla battuta con la quale imprimeva rotazioni "maligne
e velenose" si capiva che la sua grande forza era la straordinaria
sensibilità nel "sentire la pallina", il suo talento gli
permetteva di controllarla con incordature tese solo a 17-18 Kg, che erano
pochi per una racchetta come la sua, ma il suo segreto era nell'anticipo
con cui colpiva la palla, lui "rubava" il gioco all'avversario,
il tempo per giocare. Ma l'aspetto del suo gioco che più affascinava era
il suo temutissimo gioco di volo, ho visto altri grandi giocatori sotto
rete, tipo S. Edberg, con uno stile quasi perfetto, da manuale, oppure B.
Becker, più potente, ma meno bello stilisticamente. Lui era diverso: ad
una precisione chirurgica nei colpi di approccio associava una varietà di
colpi di volo da lasciare senza fiato. Colpi che c'erano nell'istante in
cui li eseguiva e poi sparivano per sempre, rimanevano immortalati nelle
telecamere, ma per lo spettatore esistevano nel momento in cui venivano
eseguiti con somma maestria e poi volavano via e uno era lì a pensare
quanto era fortunato a viverla quella cosa lì anche se solo davanti ad un
piccolo televisore, troppo piccolo per contenere tutta quella magia.
Quando inventava un colpo particolare, durante una partita, avevo paura
che se andasse, come per dire che aveva raggiunto la perfezione, che non
c'era più niente da cercare e lasciasse il campo.
Qualche mese fa ho visto la finale di Wimbledon del 1980, tra Borg e
McEnroe e mentre la vedevo mi sono perso in quel tennis, così antico e
così tecnico, sono stato in apnea e speravo che non finisse più, tante
le emozioni. Due campioni a confronto, due stili, due modi opposti di
vivere il tennis, ma un denominatore comune, lo spettacolo. Veder giocare
Mac era veramente come vedere un artista: lui riusciva nel suo piccolo,
con una racchetta ed una pallina a fare dei colpi meravigliosi e
imprevedibili tutto condito dalla straordinaria eleganza dei suoi gesti.
Non si può raccontare Mac, lo si doveva solo veder giocare.
Capitava di veder Borg rispondere con delle palle velocissime e lui
mettere la racchetta in modo tale da spegnere quell'impeto e far roteare
la pallina, con un tocco da maestro a pochi metri dalla rete, come se
l'avesse domata, accarezzata e fare punto così, con la gente in silenzio
per un attimo, quasi incredula e poi riversante applausi scroscianti.
Sapeva eseguire pallonetti, smorzate e smash di qualità sopraffina, era
un genio del tocco e dell'anticipo, era l'unico che nei grandi tornei
giocava anche il doppio e dichiarava che lo faceva perché lo divertiva.
Aveva una grandissima grinta e determinazione che lo portavano spesso ad
avere sul campo comportamenti non proprio "oxfordiani" con i
giudici e gli avversari. In fondo, però, anche questo faceva parte di
quello show così particolare di cui, dopo il suo abbandono, sentiamo la
mancanza. Coltiviamo però la speranza che ci sia qualcuno in grado di
raccoglierne l'eredità, facendoci vivere emozioni simili e divertendoci
ancora.