Iuxta Propria
Principia
Per una lettura ‘interiore’
dell’Antico Regime. Sant’Uffizio compreso.
di Fausto Arici
"è certamente
importante che […] la Chiesa cattolica dichiari chiusa quella fase
storica e si mostri decisa a voltar pagina nei confronti di una lunga
fase della storia in cui l’inquisizione ha rappresentato il suo vero
volto" [Corriere della
sera del 19.01.1998].
Così Adriano Prosperi ha
dichiarato in un’intervista occasionata dall’apertura degli Archivi
del Sant’Uffizio ed è in questo indirizzo di riflessione che a mio
parere si può collocare il volume di Elena Brambilla "Alle
origini del Sant’Uffizio. Penitenza, confessione e giustizia
spirituale dal medio evo al XVI secolo" [Bologna 2000].
L’autrice, storica dell’età
moderna specializzata in istituzioni ecclesiastiche, ha affrontato con
un discreto ancoraggio filologico la nascita e il consolidarsi del Sant’Uffizio
cogliendo l’occasione per tentare di offrire una più ampia lettura,
quasi sistemica, della cosiddetta ‘leggenda dell’Inquisizione’; è
indubbiamente lodevole lo sforzo di ricostruirne le vicende prendendo le
mosse addirittura dall’alto medio evo – scelta forse un poco
inusuale per un modernista -, ma è invece motivo di perplessità il suo
esplicito autocollocarsi fra coloro che vogliono dirsi equidistanti sia
dai ‘revisionisti’ sia dai ‘non revisionisti’, come se la
ricerca storica e propriamente quella d’archivio dovesse
inevitabilmente fare una previa scelta di campo. A mio parere non vi è
il bisogno né di neutralismi né di sdegnate vestali dell’ortodossia
né, tanto meno, di bellicosi esegeti di una sorta di lunga marcia verso
la modernità, attraverso un presunto deserto di valori dell’Antico
Regime, una lunga marcia popolata da coraggiose testimonianze di
eretici, scienziati e filosofi, eroici solo perché più vicini all’età
del Sant’Uffizio; esito, questo, al quale mi pare essere giunta la
Brambilla al di là delle neutrali intenzioni di partenza.
Nonostante lo sforzo di
equidistanza dell’Autrice emerge, comunque, un energico proposito
demolitorio e quasi irridente di quella parte di storiografia che
partendo dalla materialità del documento ha la colpa di sforzarsi di
superare le interpretazioni schematiche sedimentatesi nell’immaginario
collettivo, tentando di proporre una lettura dell’Antico Regime iuxta
propria principia, col riscoprire la ‘razionalità interna’
delle procedure giuridiche, del funzionamento delle istituzioni e delle
forme del vivere nella loro complessità.
Non si tratta, quindi, di
dividere la storiografia tra ‘revisionisti’, ‘non revisionisti’
e rimanenze, ma piuttosto di rendersi conto della crescente debolezza
euristica del paradigma della modernità: non è possibile pensare al
Sant’Uffizio e alla vicenda dell’Inquisizione in termini di maggiore
o minore razionalità e progresso rispetto ad un approdo – quello
della modernità – considerato di per sé un valore assoluto.
Ridurre la storia della
società e della cultura nei paesi cattolici a quella d’un
"grande e magico fratello" che via disciplinamento e processi
piegò e uniformò nel timore o nella simulazione uomini e pensieri fino
al settecentesco diffondersi dei Lumi significa sovrapporre un nostro
criterio interpretativo, segnato dalla memoria dei totalitarismi
novecenteschi, ad una situazione storica d’Antico Regime, nella quale
l’autorità non poteva darsi senza autorevolezza per il fatto stesso
che la sua legittimazione derivava dalla sua capacità di compiere un
bene comune, che doveva per ciò stesso apparire in primo luogo come
persuasivo e convincente a coloro cui veniva proposto. E più
convincente, più capace di dar senso alla vita insomma, anche di quello
proposto dalle altre confessioni concorrenti nel medesimo scopo. Proprio
per questo peraltro, per essere allora la religione inscindibilmente e
normalmente legata alla questione del senso della vita, alla definizione
di un cosmo culturale, lo ‘scontro religioso’ poteva giungere ad
essere ‘processo religioso’, ‘guerra di religione’.
Se il punto principale per l’affermazione
dell’autorità autorevole era la persuasione, occorreva convincere
prima che opprimere. E in effetti se non si comprende che di una
strategia di persuasione e di costruzione di senso siamo in presenza e
che essa fu vincente perché accolta, non si comprende paradossalmente
nemmeno l’importanza della confessione, per fare un esempio su cui
tanto ha insistito la cosiddetta storiografia del disciplinamento. Solo
se davvero e preliminarmente si era convinti di quell’atto come di
sacramento esso poteva condizionare chi vi si accostava. Altrimenti
perché non mentire? Che strumento di disciplina poteva essere la
confessione verso chi non ne riconoscesse già in coscienza il senso
come proposto dalla Chiesa?
E, ancora di più, per
convincere occorreva ragionare, dunque avere delle ragioni. Dunque
produrre una cultura plurale, perché doveva plasmarsi sulla società,
sui suoi diversi ceti e modi di essere e tutti da interpretare e
convincere. Una società, quella di Antico Regime, estremamente
complessa e composita, il cui studio dovrebbe ancora affidarsi a decenni
di ricerca minima, puntuale, circostanziata …abbandonando, per ora, la
pretesa di sintesi globali come pare essere nell’intenzione del nostro
volume.