IDEOLOGIA: MASCHERAMENTO DELLA VERITA’
di Roberto Pompilii
I due precedenti articoli che grazie questo giornale
– indubbiamente un grande segno di autentico "vigore
cattolico" - ho avuto l’occasione di pubblicare contenevano,
almeno nelle mie intenzioni, un certo tema comune che è l’analisi
dell’ideologia, o meglio dell’ideologismo, come alternativa concreta
alla fede religiosa, come opzione esclusiva rispetto all’atto di
credere.
Vi è un autore, un grande pensatore italiano che
più volte ho già citato, al quale vorrei anche in quest’occasione
fare riferimento per approfondire una serie di concetti che ben si
prestano a completare il percorso nei precedenti mesi iniziato e che ho
sempre considerati di cruciale importanza: il filosofo è Luigi Pareyson
e l’oggetto di quanto segue sarà il pensiero ideologico come processo
di manipolazione intellettuale della realtà e come progetto di
strumentalizzazione della verità.
Il punto di partenza di quel che vorrei esprimere
posso ben individuarlo in una illuminante distinzione che Pareyson
delinea in uno dei suoi capolavori, Verità e interpretazione del
1971, tra il pensiero meramente espressivo – di cui è
impregnata ogni ideologia – e il pensiero rivelativo che
contraddistingue il riflettere autenticamente filosofico.
Esprimere il nostro tempo, recidendo volontariamente
il vincolo che lega l’individuo alla verità, significa anzitutto
negare l’eternità e l’assolutezza del vero, rinnegarne la
trascendenza e quindi confonderne e mascherarne la portata ontologica.
Rivelare la verità significa, invece, testimoniare
quella solidarietà originaria di persona e verità. Una
testimonianza questa che ha come soggetto la persona, ma come
protagonista la verità; una testimonianza cioè che si realizza nell’atto
dell’uomo che si fa interpretazione vivente della storia.
La critica all’ideologia impostata da Pareyson
procede definendo sinteticamente le due fondamentali concezioni che sono
alla radice del pensiero meramente esperessivo: "in primo luogo
quella di un’origine per così dire «materiale» delle idee, e in
secondo luogo quella della destinazione politica dell’ideologia".
E’ da qui che il filosofo a cui mi riferisco
incomincia la sua penetrante disamina dei processi di storicizzazione e
tecnicizzazione del pensiero, processi dai quali quest’ultimo ne esce
mutilato ed appiattito, in quanto sostanzialmente privato di ciò che di
più prezioso era portatore: il riflesso dell’eterno, l’inesauribile
energia derivatagli dalla contemplazione del vero.
"L’espressione è talmente strumentale di per
sé, che non si può applicare al rapporto di finito e infinito senza
fare del finito uno strumento dell’infinito: il panteismo, sostituendo
il concetto di rivelazione con quello di espressione, sopprime la
trascendenza dell’assoluto proprio perchè concepisce i finiti come
espressioni, e quindi come strumenti dell’infinito."
La prima grande questione che qui vediamo emergere è
un dilemma, un dilemma non nuovo nella storia della filosofia, ma mai
come ai nostri giorni decisivo per comprendere da dove precisamente
inizi l’opera corruttrice dell’ideologia, un dilemma che così si
potrebbe formulare: la situazione è tutta circoscrivibile all’interno
di un hic et nunc storico-materiale, oppure è possibile uno
sfondamento del dato situativo in virtù del quale la verità divenga
accessibile e la presenza dell’essere riconoscibile? In altre parole:
la situazione è chiusura in una dimensione meramente storica o è
apertura ontologica, collocazione metafisica? Pareyson mette con grande
maestria in evidenza, nell’opera poc’anzi citata, come le prime due
alternative siano accolte dal pensiero espressivo e come le seconde
identifichino invece il pensiero rivelativo.
Ebbene le conseguenze di questa divaricazione non
tardano a farsi sentire: l’ideologia, non riconoscendo nessuna
originaria dipendenza della persona da altro che non sia contingenza e
fatticità, dimostra la sua vera natura di pensiero chiuso nel proprio
tempo. In un pensiero simile l’unico criterio riconosciuto diviene l’efficienza:
la teoria soccombe sotto i colpi di un esigente prassismo e la sola
verità concepibile è quella di un futuro, tutto da realizzarsi, in cui
pensiero e azione finalmente, prima o poi, si dovranno fondere.
Quel che è importante sottolineare è che Pareyson
non si scaglia contro questo storicismo radicale, solo apparentemente
tanto concreto, contrapponendo un irenistico o puristico distacco del
filosofo dalla realtà; ci ricorda infatti che "come la storicità
del pensiero ideologico non si combatte con l’errore simmetrico, di
eliminare ogni elemento storico dal pensiero filosofico, così la sua
pragmaticità non si confuta con la rivalutazione della pura teoria,
ignara d’ogni elemento pratico". Quel che primariamente gli
interessa esplicitare è come qui, contrapposti, non ci siano soltanto
due divergenti punti di vista sull’uomo o sulla storia: scegliere tra
pensiero rivelativo e pensiero espressivo significa scegliere per o
contro l’essere e quindi per o contro l’uomo, per o contro la
verità della storia.
L’obiettivo di Pareyson è smascherare la falsa
coscienza del pensiero ideologico, dimostrando come questo
liberamente - e quindi responsabilmente - negando l’ulteriorità e l’inesauribilità
significativa di ogni affermazione, privi il discorso di quella
dimensione ontologica che gli è propria, con l’unico scopo di
subordinarlo ad una onnipotente quanto dispotica praxis.
Su questo importante passaggio è possibile insistere
riferendoci ad un altro pensatore che, come Pareyson, ha approfondito
con estrema lucidità la distinzione tra pensiero espressivo e pensiero
rivelativo, Augusto Del Noce.
In una ricostruzione delle opere di quest’ultimo,
il giovane filosofo Massimo Tringali evidenzia come attraverso i suoi
studi del marxismo Del Noce individui nella soppressione proprio dell’idea
di partecipazione il passaggio decisivo che ha condotto il
pensiero ideologico ad esiti ateistici.
"Con la caduta dell’idea di partecipazione il
pensiero perde ogni carattere rivelativo per diventare attività
trasformatrice del reale".
Del Noce, che fu profondissimo conoscitore del
pensiero di Marx e una sorta di esegeta delle sue opere, individua nella
sua II Tesi su Feuerbach una importante dichiarazione di
anti-platonismo che è anche un autentico postulato del materialismo
storico. Questa infatti recita così: "La questione se al pensiero
umano appartenga una verità oggettiva non è una questione teorica, ma
pratica. E’ nell’attività pratica che l’uomo deve dimostrare la
verità, cioè la realtà e il potere, il carattere terreno del suo
pensiero. La disputa sulla realtà o non-realtà di un pensiero che si
isoli dalla pratica è una questione puramente scolastica."
Il mito di una verità che si possa tutta dimostrare
e quindi costringere nell’attività pratica: ecco ciò che, per Del
Noce come per Pareyson, costituisce il peccato originale del pensiero
ideologico, ecco ciò contro cui il loro acume di storici della
filosofia si è decisamente e strenuamente scontrato.
Per Del Noce a precedere tutte le rivoluzioni
politiche e sociali che il marxismo ha saputo in-formare di sé, vi è
questa fondamentale rivoluzione filosofica, che ha visto l’imporsi di
un pensiero che celebra il primato dell’azione ai danni di una
tradizione speculativa il cui cuore era la contemplazione dell’essere.
Tornando a Pareyson e alle pagine centrali di Verità
e interpretazione e proseguendo il discorso circa il rapporto che
lega uomo, realtà e verità, è interessante osservare come il nostro
autore prenda posizione nei confronti di un concetto molto importante,
ma anche molto ideologizzato, ovvero il concetto di alienazione.
"Ha fatto bene Marx a denunciare la
mistificazione ideologica, e a ricondurla all’alienazione, e a
concepire l’alienazione come separazione del pensiero dalla realtà;
ma l’alienazione vera e propria è l’oblio dell’essere e la
perdita della verità, cioè è appunto ciò che distingue il pensiero
espressivo o ideologico dal pensiero rivelativo o filosofico. La vera
alienazione è la separazione dell’uomo dall’essere e la scissione
del nesso originario di persona e verità, la chiusura ontologica e l’abbandono
dell’interpretazione […].
Oblio, perdita di un riferimento
oggettivo, separazione, scissione di un vincolo che sta
all’origine, nel senso che è costitutivo e strutturante: sono queste
le operazioni che la libertà dell’uomo può compiere e che possono
determinare in lui quel livello di ottenebramento per cui egli giunga a
concepire il reale solo nei termini di manipolabilità, esaltando tutto
ciò che è misurabile e censurando tutto quel che è irriducibile ad
azione e sfugge agli schemi.
Alienante non è quindi distrarsi o perdersi in questioni
puramente scolastiche, come diceva Marx, indagando l’origine della
verità e riconoscendola nella sua trascendenza; alienante è bensì
presumere di poter fare a meno di qualsiasi dipendenza, pretendere di
potersi sostituire all’Essere creatore e fingere di poter comunque
disporre della verità, anche a costo di fabbricarsela.