Acqua chi beve?
di Clara Matteis
Claramatteis@inwind.it
Tra le voci, i suoni, i colori di una Napoli ormai consegnata alla
storia e conservata nei ricordi, non poteva mancare una delle figure
più care non solo ai napoletani, ma a tutti i disegnatori e viaggiatori
stranieri, che nell’ottocento facevano a gara tra loro nel riuscire a
cogliere con maggiore dovizia di particolari, gli " Acquaioli
" partenopei.
In realtà oltre il folclore che Napoli donava volontariamente e
involontariamente, quella dell’acqua era un vera e propria fonte di
commercio, una fonte a dire il vero secolare;
già gli antichi Romani in realtà avevano scoperto l’esistenza di
vene di particolari acque minerali, e subito si erano preoccupati di
trasformare molte grotte del Chiatamone in lussuose terme.
Un commercio che si è tramandato per generazioni tra i "
luciani ", giungendo dall’ottocento, fino ai giorni nostri;
risale, infatti, all’agosto del 1973 la decisione dell’autorità
sanitaria di vietare la vendita di queste acque minerali, nutrendo forti
dubbi sulla tenuta igienica delle "mummare", cioè le anfore
di creta nelle quali veniva raccolta l’acqua (che, per la sua
composizione chimica, non poteva essere imbottigliata) dalla fonte e
venduta a privati, o alle cosiddette "banche dell’acqua",
cioè i chioschi degli acquafrescai.
Da sempre queste acque sono state considerate una specie d’appannaggio
della gente di Santa Lucia, e nel tempo l’acquaiolo diventò, nell’iconografia
popolare, il simbolo più autentico del luciano, e per estensione del
venditore ambulante.
Già, però, nel 1731 , allo scopo di evitare ingiuste speculazioni,
durante il governo del viceré Luigi Tommaso Raimondo conte d’Arrach,
fu emanata un’ordinanza il cui testo venne inciso sul marmo e murato
in via del Chiatamone, nel quale si precisava la possibilità da parte
di tutti di poter godere i benefici delle apprezzate acque« senza
dispendio alcuno», e l’impossibilità, senza espressa licenza del
tribunale, di potersi intromettere nella distribuzione delle stesse.
Ai primi dell’ottocento la fonte era stata resa comodamente
accessibile tramite una gradinata, dato che era situata al di sotto
della strada; e lì si affollavano i venditori: dettaglianti e
grossisti; in particolare il commercio al minuto veniva esercitato per
lo più da donne, giovani e anziane, le quali ponevano una sorta d’ipoteca
sui passanti, nel senso che chi avesse acquistato una sola volta da una
di loro era vincolato a lei , come cliente, a vita.
Non mancavano i forestieri curiosi, i quali scendevano fin nei locali
delle fonte e qui dovevano fare a gomitate con decine di assetati.
Nel 1890, in via Chiatamone si aprirà addirittura uno stabilimento
termale, per bagni terapeutici.
Ma com’era questa tanto rinomata acqua minerale?
Definita dai napoletani indifferentemente « sulfurea » o «ferrata»,
in realtà si può suddividerla in quattro tipologie, oltre le già
citate ci sono la nuova sulfurea e l’acidula;
Di gradevole sapore, leggermente frizzanti, in alcuni casi emananti
un odore che ricorda quello dell’uovo.
Ma la particolarità risiedeva nelle rassicuranti credenze popolari,
che le ritenevano atte alla cura dei mali più disparati; molto spesso,
infatti, veniva utilizzata, addirittura, per fare i bagni ai bambini
gracili, nella speranza che potessero così rafforzarsi.
Ma, se la sete o la curiosità vi stanno solleticando l’idea di
saggiarla, non vi resta che recarvi in via parco del castello, nei
pressi del Maschio Angioino, lì troverete una fonte riaperta dal Comune
di Napoli.
E allora, acqua chi beve?