Di Stefano Santasilia
27 Gennaio: si rinnova il ricordo della Sho’ah. Il
simbolo, quasi la maschera dietro la quale si nascondono tutte le
atrocità presenti e future, è sicuramente "Auschwitz".
Un nome, un luogo geografico, chilometri quadrati di
terra, eppure allo stesso tempo un insieme di barbarie, ma sarebbe
meglio dire "un buco nero", come lo ha chiamato anche Primo
Levi, un illustre testimone di quello che ha potuto significare per l’uomo
tale evento. La nostra riflessione, però, non vuole soffermarsi sull’evento
in sé, ma sulle sue conseguenze, in particolare su quelle morali,
scendendo ancora di più nello specifico, sulle implicazioni morali che
ineludibilmente si presentano alla cristianità, implicazioni che nessun
uomo che si professa cristiano può cercare di aggirare senza perdere
allo stesso tempo la sua stessa fede, anche se inconsapevolmente.
Il male realizzatosi in quell’evento storico che
prima abbiamo anche definito "buco nero" in cui Primo Levi
vede sprofondare l’essenza dell’uomo stesso, rappresenta un eccesso
di barbarie. Eppure definirla barbarie continua a classificare il male
della Sho’ah nell’ambito dell’umano, possiamo anche pensarla così
eppure mi piace tentare di sfondare questa concezione legandomi ad un’affermazione
di Elie Wiesel che in un suo libro ("Le signe d’Exode")
scrive che la Sho’ah si mostra non come l’assenza di Dio, ma come la
sua estrema presenza nell’impossibilità di trovare risposte,
portandoci in una dimensione affine al misticismo quando tenta di
inabissarsi nel mistero di Dio. Certo le esperienze sono differenti
nella loro modalità di svolgimento e nell’oggetto che esse hanno,
eppure le accomuna il trionfo del non-sapere, cioè dell’avere una
conoscenza del fenomeno che non è conoscenza scientifica, analitica che
permette anche una sorta di dimostrazione, ma conoscenza particolare,
fondantesi sul pathos tragico che nel testimone genera l’evento
stesso. La presenza di Dio nell’evento è appunto il suo trascendere l’evento
implicando l’impossibilità della risposta chiara ed evidente che di
una volta per tutte ragione di quel che è accaduto. Perché tutto
questo tocca in maniera particolare il cristianesimo?
Come sappiamo il cristianesimo è caratterizzato dal
tema della "redenzione". Ora, perché la morte del Cristo,
figlio di Dio, sulla croce? Perché l’umanità sia redenta. Redenzione
da cosa? Dal peccato, dalla morte, spesso diciamo che con il sacrificio
di Cristo e la sua resurrezione, la morte è stata sconfitta. Una
domanda permane: e la sofferenza? Agostino di Ippona affermava che il
male non è che mancanza di bene e in quanto il bene è realtà, il male
sarebbe "nulla". Eppure mai come oggi, dopo duemila anni di
cristianesimo, sembra che il male sia qualcosa in più del nulla, la Sho’ah
sembra mostrarsi come qualcosa di assolutamente reale anche se
problematico, d’altronde anche il buco nero rimane un argomento
problematico per gli astronomi, ma i suoi effetti sono ben visibili.
Perché ancora ci perseguita la sofferenza? Questa domanda dovrebbe
farci cambiare rotta…spesso navighiamo come coloro che hanno in mano
la salvezza, che possono rendere conto di tutto in nome della nostra
fede…eppure è proprio la fede il dramma fondamentale dell’uomo.
Fede che giustifica tutto o fede che conosce l’attesa? Sembra di dire
la stessa cosa ma la fede che conosce l’attesa sa che la redenzione
non è ancora completamente avvenuta, sa che l’uomo attende ancora la
venuta del Cristo, stavolta nella gloria, che verrà a portare la vera
pace. È solo nella theologia crucis che l’evento Sho’ah può
trovare un suo spazio, nella visione del Cristo servo sofferente, del
Cristo che mostra all’uomo la sua morte di croce, che però risorge
senza farsi notare, lasciando agli uomini solo l’annuncio della sua
venuta. Chi dei suoi discepoli lo ha visto mentre tornava al Padre?
Nessuno, ma alcuni lo hanno visto morire. La fede che conosce l’attesa
porta impressa dentro le parole dell’apostolo Paolo quando afferma che
tutta la creazione ancora geme e attende con noi la redenzione, ma
soprattutto sa che massima virtù è la carità, che nulla è la fede
senza di essa, sa che non può dare ragione di tutto perché ancora
aspetta la venuta della verità, sa che fede è appunto credere senza
potere avere conoscenza perfetta di quello in cui si crede.