11-04-10

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LANCIA

La Lancia è una delle più famose, antiche e prestigiose case automobilistiche italiane. Nata a Torino nel 1906, nel 1986 la società fu chiusa per formare insieme ad Alfa Romeo la nuova entità Alfa-Lancia Industriale S.p.A., che in seguito scomparve a sua volta per venire assorbita dalla Fiat Auto S.p.A. Nel 2007, in seguito ad una riorganizzazione nel panorama automobilistico italiano, fu creata la divisione Lancia Automobiles S.p.A. facente parte della Fiat Group Automobiles S.p.A.

L'atto costitutivo della Lancia reca la data del 29 novembre 1906: quel giorno, in Torino, il regio notaio Ernesto Torretta formalizza la costituzione di una società in nome collettivo, da parte di Vincenzo Lancia e Claudio Fogolin: la denominazione dell'azienda era Lancia & C. Il numero di repertorio dell'atto (su carta da Bollo da 1 Lira) era il 1304 Il capitale iniziale era di modesta entità (100.000 Lire) ed i due soci vi avevano partecipato con un 50% a testa. Vincenzo Lancia era già molto noto nell'ambiente automobilistico (non solo italiano) in virtù delle prestigiose affermazioni sportive colte, a partire dal 1900, al volante di vetture Fiat. Claudio Fogolin era invece, più semplicemente, un buon amico del Lancia: i due si erano conosciuti alla Fiat, dove entrambi prestavano la loro opera. Ritenendo - non a torto - di poter sfruttare il suo nome per ottenere un sicuro successo commerciale, il Lancia aveva deciso da tempo di passare al ruolo di costruttore: tuttavia, prudentemente, non aveva affrettato i tempi, preferendo restare ancora qualche anno in seno alla Fiat per incrementare la sua popolarità e accumulare i capitali minimi necessari per avviare la sua impresa. La neonata società prendeva in affitto una prima officina (un vecchio capannone occupato sino a qualche mese prima da un'altra fabbrica automobilistica torinese, la Itala), in via Ormea angolo via Donizetti.

Vincenzo Lancia affida al conte Carlo Biscaretti di Ruffia - un appassionato dell'automobile sin dalla prima ora - l'incarico di studiare un marchio capace di far riconoscere il nome "Lancia" al primo colpo d'occhio. Il conte predispose cinque disegni, tra i quali Vincenzo scelse quello che - includendo nome, bandiera e volante - meglio avrebbe rappresentato la filosofia Lancia.

Malgrado gli inevitabili ritardi determinati da un incendio che, nel febbraio 1907, aveva distrutto disegni e modelli di fonderia danneggiando il macchinario, il primo prodotto (o meglio prototipo) Lancia usciva nel settembre di quello stesso 1907. Pare che lo stabilimento di via Ormea avesse però la porta troppo stretta e che si sia dovuto procedere ad un frettoloso allargamento a colpi di piccone per consentire alla prima Lancia di poter effettivamente lasciare l'officina e lanciarsi finalmente lungo la strada aperta. La produzione vera e propria iniziava comunque nel 1908, anno in cui questo primo chassis Lancia veniva esposto all'VIII Salone dell'automobile di Torino (18 gennaio-2 febbraio) con la denominazione di 12 HP: da notare che la denominazione d'officina era "tipo 51" e che la vettura sarà ribattezzata Alfa quando, nel 1919, il fratello del costruttore, Giovanni (studioso di lingue classiche), suggerirà a Vincenzo di utilizzare le lettere dell'alfabeto greco per contraddistinguere i diversi modelli, a partire da quello iniziale. Come del resto si poteva prevedere, la 12 HP era un prodotto abbastanza fuori degli schemi: aveva uno chassis piuttosto basso e leggero, munito di trasmissione a cardano (anziché le "solite" catene) e dotato di un motore a 4 cilindri biblocco di 2545 cc rotante ad un regime di circa 1800 giri al minuto (un valore decisamente elevato per l'epoca) capace di spingere la vettura sino a circa 90 chilometri all'ora. La rivista inglese Autocar, dopo aver effettuato una sorta di “prova su strada” della 12 HP nell'autunno del 1907, definiva la vettura silenziosa, elastica, ben progettata e superbamente rifinita.

Nell'estate del 1908 alla 12 HP si affiancava la 18/24 HP (tipo 53, successivamente ribattezzata Dialfa), una vettura ancora più ardita della sorella minore, azionata da un motore a 6 cilindri (tre blocchi da 2 cilindri) che le consentiva di raggiungere una velocità massima prossima alle 70 miglia orarie (110 chilometri orari) Malgrado qualche critica venuta soprattutto dagli ambienti tecnici, la 12 HP otteneva un bel successo e, visto che se ne venderanno 108 esemplari (alcuni esportati in Inghilterra e negli Stati Uniti d'America). Come prevedibile, il successo della 18/24 HP è numericamente meno eclatante, giacché se ne produrranno appena 23 unità. Il primo stabilimento Lancia (1906) I locali in cui la Casa aveva iniziato l'attività risultavano subito insufficienti e già nel 1908 veniva preso in affitto un secondo edificio (sempre in corso Dante) da utilizzarsi per le messe a punto ed i collaudi: poco più di due anni dopo, nel gennaio 1911, la sede della Lancia veniva definitivamente trasferita in Via Monginevro (Borgo San Paolo) e l'area occupata dallo stabilimento risultava di quasi 27.000 metri quadrati. Interessante sottolineare il costante ampliamento dell'area occupata dagli stabilimenti, già in questi primi anni di attività: nel 1906, la superficie occupata era di 888 metri quadrati, diventati 976 l'anno successivo e 1.584 nel 1908. Nel 1909-10 la superficie raddoppiava e arrivava a 3.300 m2: nel 1911, tra aree coperte e scoperte, la superficie complessiva pare fosse di circa 60.000 metri quadrati.

Ma intanto la produzione di vetture proseguiva, aggiornandosi anno dopo anno. Dal punto di vista tecnico, una svolta di una certa importanza si aveva nel 1909, quando usciva la 15/20 HP (Tipo 54, poi Beta), caratterizzata dall'adozione del motore monoblocco e da un (voluto) abbassamento del regime di rotazione (limitato a 1500 giri al minuto). Al Tipo 54 faceva seguito, nel 1910, la 20 HP (tipo 55, Gamma), che si differenziava dal modello precedente per un ulteriore incremento della cilindrata, che passava da 3119 a 3456 cc. con il conseguente aumento della potenza (e delle prestazioni velocistiche). Nel nuovo stabilimento di Via Monginevro vedevano la luce, già nel 1911, la 20/30 HP (tipo 56, Delta) affiancata, pare, da un tipo spinto (Didelta, probabilmente tipo 57) costruito in pochissimi esemplari e destinato all'impiego sportivo. Sotto il profilo tecnico, la Delta offriva, oltre ad un incremento di potenza davvero sostanzioso, una interessante innovazione: l'alimentazione mediante pompa (anziché a caduta).

Seguivano poi: una nuova 20/30 HP (tipo 58, Epsilon) prodotta nel 1911/12, molto simile alla Delta, dalla quale differiva per poche modifiche di dettaglio e per le dimensioni del telaio e la 35/50 HP (tipo 60, Eta) prodotta nel triennio 1911/13 che si affiancava alla 20/30 HP e che era caratterizzata da un telaio corto e leggero e che portava con sé, come innovazione, la frizione "a secco" (anziché a bagno d'olio). Malgrado la cilindrata più contenuta (2614 cm3) scarso successo incontrava invece la 12/15HP (tipo 59,Zeta) costruita nel triennio 1912/14: da osservare che la vettura montava un curioso ed inedito sistema di trasmissione (un cambio a due rapporti accoppiato ad un doppio rapporto pignone-corona). Ed eccoci al primo modello Lancia di vero, inconfutabile successo internazionale, la 25/35 HP (tipo 61, Theta) che veniva lanciata nel 1913 e che era destinata a sopravvivere alla Prima guerra mondiale restando in produzione sino al 1918 (per un totale, non da poco per l'epoca, di 1696 unità). Questo apprezzatissimo modello, potente e veloce, passava poi alla storia quale prima autovettura commercializzata con impianto elettrico completo, incorporato e comprensivo di motorino d'avviamento.

Sin dai primi anni di vita, le vetture Lancia si distinguevano nelle competizioni di velocità anche se il patron - malgrado i trascorsi da corridore professionista - non riteneva opportuna una partecipazione diretta alle corse nel timore che l'impegno tecnico ed economico derivante dall'attività agonistica nuocesse alla qualità della produzione di serie. Egli stesso conduceva raramente le sue creature: il 5 aprile 1908 si aggiudicava comunque il primo posto di classe sui 20 chilometri del tratto rettilineo Padova-Bovolenta con una media (nei 10 km del tratto di ritorno) di quasi 89 km all'ora, mentre due anni dopo, l'8 maggio 1910 a Modena, otteneva la miglior prestazione nella propria categoria (vetture con alesaggio da oltre 95 a 100mm) spiccando un ottimo tempo (49” 2/5 sul miglio lanciato, corrispondenti a 117,280 km di media oraria). Nel 1908, suo primo anno di attività sportiva, la Lancia coglieva due significative affermazioni negli Stati Uniti per merito di William Hilliard che si piazzava al terzo posto assoluto a Long Island nella Meadowsbrook Sweepstakes del 10 ottobre e faceva sua, il 25 novembre, la International Light Car Race a Savannah (Georgia). Nel 1909, nella IV edizione della Targa Florio (il 2 maggio), Guido Airoldi chiudeva al 3º posto assoluto mentre una settimana dopo, in una gara sul miglio lanciato indetta a Modena, Gerolamo Radice era primo nella III categoria (12º assoluto) a 90,951 km/h di media; nella stessa occasione si distingueva anche un'altra Lancia, con Armando Bacchi, quarto di categoria e 13º assoluto. Il 5 settembre 1909, nella famosa salita al Mont Véntoux in terra di Francia, Tangazzi si aggiudicava la propria classe (la III) impiegando 20'15” 2/5 per percorrere i 21600 metri di salita, ottenendo quindi la media di km/h 63,978: una prestazione eccezionale, che lo proiettava al quarto posto della classifica assoluta. Tra le affermazioni del 1909, da registrare quelle ottenute in Inghilterra dove il concessionario locale, F.L. Stewart, iscriveva alcune Lancia a diverse gare: una vettura, (probabilmente una 12 HP) vinceva una corsa in salita ad handicap nel Galles, poi, in maggio, all'autodromo di Brooklands, lo stesso Stewart era primo assoluto nella Regent's Cup. Seguivano, in giugno, un secondo posto di Ward nella corsa in salita di Rivington Park ed una vittoria di Stewart nello Scottish AC Trial. Nel 1910 oltre al già citato successo di Modena ottenuto da Vincenzo Lancia, si aveva la decisamente più importante affermazione di Billy Knipper nel Tiedmann Trophy (Savannah, 12 novembre).

Nel 1911 Mario Cortese otteneva una onorevolissima piazza d'onore nella impegnativa VI edizione della Targa Florio che si disputava, il 14 maggio, su 3 giri del circuito delle Madonie per una distanza totale di quasi 447 chilometri. Ancora nel 1911, Tangazzi si piazzava al 3º posto di classe al Mont Ventoux mentre in ottobre R. Gore Browne otteneva il 2º posto in una gara a Brooklands (Easter Meeting). Altra prestazione degna di rilievo era ottenuta dalla Lancia dell'equipaggio Agostino Garetto-Ernesto Guglielminetti nel massacrante 1º Giro di Sicilia del maggio 1912 (un migliaio di chilometri da percorrersi senza frazionamenti): i due si piazzavano al 2º posto assoluto, mentre una seconda Lancia (Norman Olsen-Travaglia) giungeva in 7ª posizione. Anche la 2ª edizione del Giro di Sicilia del maggio 1913, che si disputava sullo stesso percorso dell'anno precedente (ma in due tappe) vedeva una Lancia in evidenza: era quella del focoso Pietro Bordino, il quale, dopo un avvio decisamente brillante (era terzo assoluto al termine della prima frazione) nel corso della seconda tappa usciva di strada ritrovandosi con la vettura malconcia ed il serbatoio forato; otturato il serbatoio alla meno peggio grazie ad un tappo di sughero avuto da contadini accorsi sul luogo dell'incidente, Bordino riusciva a proseguire ma, inevitabilmente, la sua posizione in classifica crollava paurosamente e finiva col piazzarsi all'ottavo posto.

La Corsa del chilometro lanciato organizzata a Vercelli nel luglio 1913 era l'ultima manifestazione anteguerra che vedeva in gara una Lancia: la vettura otteneva un buon piazzamento (secondo o terzo posto tra le vetture da “turismo”, il dato è incerto) ma misteriosa rimane l'identità del conduttore (talune fonti riportano addirittura il nome di Vincenzo Lancia).

A partire dal 1912 la Casa torinese costruiva (in 91 esemplari, sino al 1916) il suo primo autocarro militare l'1Z, subito utilizzato con piena soddisfazione dall'Esercito Italiano nella guerra in Libia. Allo scoppio della Prima guerra mondiale, la Lancia veniva decretata Stabilimento ausiliare di guerra per cui tutte le energie della fabbrica dovevano essere indirizzate allo sforzo bellico della nazione: si accantonava il progetto di un motore ad 8 cilindri a V appena brevettato e si ridimensionava il programma produttivo della Tipo 61 (25/35 HP-Theta), che però continuava a venir costruita soprattutto per i servizi dei comandi militari. Dovendosi dedicare agli autocarri militari, la Lancia – già fornitrice all'esercito dell'1Z – non aveva difficoltà ad aggiungere due nuovi modelli e, nel 1915, all'1Z affiancava lo Jota e il Diota, con uguale motore a 4 cilindri di 4942 cm3, ma con telaio di passo diverso (mt 3,35 l'1Z, mt 3,60 lo Jota, mt 3,00 il Diota)

Negli anni del primo conflitto mondiale i veicoli Lancia destinati all'impiego militare ottenevano un notevole successo: gli autotelai Jota, Diota e 1Z vengono carrozzati (soprattutto dagli Stabilimenti Farina) come autocarri e per trasporto artiglierie; in collaborazione con l'Ansaldo venivano altresì realizzate alcune autoblinde armate. Conseguentemente anche gli impianti industriali erano stati oggetto di potenziamento: nel 1919 l'area occupata dagli stabilimenti nel Borgo San Paolo raggiungeva circa 60 mila metri quadri. Nell'agosto 1918, intanto, il socio di Vincenzo Lancia - Claudio Fogolin - si ritirava (pare a causa di un dramma familiare) consolidando peraltro un consistente capitale. Vincenzo Lancia era preoccupato: consapevole che si rendeva necessaria la riconversione degli impianti (che dovevano evidentemente tornare a produrre automobili per usi civili) temeva di non poter garantire la piena occupazione agli operai, a meno di non intraprendere la produzione e la vendita di vetture in quantità significativamente maggiori rispetto all'anteguerra.

Il primo modello che andava in quella direzione era la nuova Kappa, lanciata nel 1919; si trattava di una 4 cilindri chiaramente derivata dalla sperimentata 25/35 HP Theta, quindi potente (70 HP) e veloce (125 km/h) ma anche caratterizzata da almeno tre innovazioni degne di menzione: il motore con testata separata (anziché fusa in blocco col corpo cilindri), il comando del cambio con leva posizionata al centro (tra i due sedili anteriori) e l'abbandono delle ruote in legno (erano disponibili, di serie, le ruote a disco in lamiera oppure, a richiesta, a raggi). In quello stesso 1919, ai Saloni di Parigi e di Londra, la Lancia esponeva uno superbo chassis munito di un motore con basamento fuso in blocco unico, a 12 cilindri a V (due bancate, ciascuna di 6 cilindri, con apertura di 20°) di notevole cubatura (due le cilindrate previste, una di 6031,86 cm3 data da un alesaggio di mm 80 ed una corsa di mm 100,ed una di 7841,41 cm3 data da una corsa portata a mm 130) con distribuzione a valvole in testa ed erogante una potenza stimata, per il 7,8 litri, in 150 HP a 2200 giri. Interessante la genesi di questo prodotto Lancia: nel 1914-15, quasi in concomitanza con lo scoppio della prima guerra mondiale, la casa torinese era costretta ad accantonare il progetto per un motore ad 8 cilindri a V che stava elaborando (brevettato comunque nel giugno 1915): l'idea del motore con cilindri a V veniva ripresa nel 1918 e dava origine a due progetti (settembre 1918) relativi ad un 8 cilindri con apertura a V di 45° e ad un 12 cilindri con l'apertura a V di 30°, dal quale derivava, l'anno successivo, l'esemplare di 7,8 litri. Nonostante i lusinghieri commenti della stampa specializzata, la 12 cilindri Lancia non avrà seguito produttivo: motivi fiscali e la consapevolezza di dover fare i conti con un mercato nazionale ancora poco ricettivo per un prodotto dal costo verosimilmente proibitivo, indurranno Vincenzo Lancia a desistere dalla produzione in serie di questo modello (il cui propulsore, peraltro, pareva affetto da seri problemi di carburazione). Il 1919, comunque, non era per la Lancia un anno fortunato: per la prima volta dalla fondazione, la produzione diminuiva rispetto all'anno precedente (il calo era del 20%, da 894 a 717 unità) e, soprattutto, l'esercizio si chiudeva con una perdita sostanziosa (un milione e mezzo di Lire). Il successo della Kappa porterà la Casa torinese a superare per la prima volta, nel 1920, la soglia dei 1.000 autoveicoli costruiti nell'arco di 12 mesi (1.130 esattamente gli esemplari usciti dalla fabbrica) ma i due anni successivi, malgrado l'uscita della Dikappa nel'21 e della Trikappa l'anno dopo, andranno considerati quasi di transizione: sarà poi la rivoluzionaria Lambda, venduta a partire dal 1923, a rilanciare definitivamente la Lancia.

Ma, tornando al 1921: usciva la Dikappa, che altro non era se non la versione sportiva della Kappa, alla quale si affiancava e dalla quale differiva soprattutto per il motore la cui distribuzione era ora del tipo a valvole in testa e consentiva di incrementare la potenza (da 70 a 87 HP) e le prestazioni (da oltre 120 a oltre 125 km/h). La Dikappa aveva vita breve (grosso modo 1 anno) perché nel 1922 Vincenzo Lancia, in attesa di ultimare i collaudi della Lambda, decideva di immettere sul mercato (sempre comunque a fianco della Kappa) la sua prima vettura con disposizione dei cilindri a V: si trattava della Trikappa, che disponeva di un 8 cilindri a V stretto a valvole in testa che, malgrado una leggera diminuzione della cilindrata, portava la potenza a sfiorare i 100 HP e consentiva alla possente vettura di raggiungere e talvolta superare la soglia dei 130 km all'ora. La Trikappa verrà prodotta in due serie successive sino al 1925, per un numero complessivo di unità davvero non disprezzabile di 847: da notare che inizialmente la vettura denunciava qualche problema di frenatura per cui la Casa correva ai ripari e nel 1923 dotava la Trikappa di freni a tamburo anche sulle ruote anteriori; si avrà così un deciso rilancio commerciale del modello. Con la cessazione della produzione della Dikappa, di fatto si chiudeva quello che può considerarsi il primo ciclo di fase tecnica della Lancia anche se il concetto tradizionale del telaio verrà naturalmente mantenuto nella costruzione degli autocarri. Ed eccoci alla Lambda, il primo dei due capolavori di Vincenzo Lancia (il secondo sarà, nel 1936, l'Aprilia): effettivamente le idee messe in atto con questo modello si riveleranno qualcosa di profetico, schiudendo orizzonti impensati. La Lambda nasceva ufficialmente nell'autunno del 1922, quando veniva esposta ai Saloni di Parigi e Londra ma la produzione vera e propria (e le consegne) iniziavano verso la metà del 1923. L'atto di nascita della Lambda risaliva però all'immediato dopoguerra, esattamente al 7 dicembre 1918, giorno in cui Vincenzo Lancia depositava la richiesta per il brevetto (rilasciato poi il 28 marzo 1919, col numero 171922) di un nuovo modello di autovettura: il veicolo rappresentato negli schizzi tecnici aveva la forma di un fuso, radiatore di forma circolare, la sospensione anteriore (semi-indipendente) a balestra trasversale, ma la caratteristica più rivoluzionaria era la soppressione del telaio convenzionale a longheroni sostituito da una membratura portante in lamiera imbutita disposta in maniera tale da far lavorare la scocca della vettura come una trave unica. Il pianale risultava sensibilmente abbassato perché l'albero di trasmissione, abbandonata la classica sistemazione al di sotto del pavimento, era qui posizionato in un tunnel che passava all'interno dell'abitacolo (i passeggeri, dunque, venivano a sedere ai lati dell'albero di trasmissione anziché al di sopra di esso). In pratica, Vincenzo Lancia aveva inventato la scocca portante. Nel 1921, La Lambda prendeva forma: sotto l'occhio vigile del Lancia, i progettisti Rocco e Cantarini realizzavano il motore a 4 cilindri a V stretto rotante al bel regime di 3250 giri, mentre Scacchi (responsabile del reparto esperienze) ne eseguiva la messa a punto. Il 1º settembre 1921 il primo prototipo Lambda era pronto e Vincenzo in prima persona iniziava i collaudi nei dintorni di Torino. Laboriosa si rivelerà in particolare la messa a punto della sospensione anteriore: poiché il sistema scelto - la famosa sospensione a ruote indipendenti - era del tipo “a cannocchiale” (montanti telescopici con molle elicoidali disposte concentricamente ai montanti) non si poterono montare i soliti ammortizzatori a frizione e si dovette studiare l'adozione di un tipo di ammortizzatore idraulico a sua volta concentrico alla molla della sospensione. Grazie alla sospensione a ruote indipendenti ed alla rigidità della scocca, la tenuta di strada della Lambda risulterà di gran lunga superiore a quella delle altre automobili contemporanee, in particolare sui fondi sconnessi (ovvero sulla stragrande maggioranze delle strade dell'epoca) tanto da farne una vettura dalle prestazioni “stradali” notevoli, malgrado una potenza del motore buona ma non eccelsa ed una velocità massima che, nelle prime serie, sarà inferiore ai 115 km/orari (nelle serie successive, salirà poi sino ad oltrepassare la soglia dei 120 all'ora) Parecchie Lambda vennero impiegate nelle competizioni dove, a partire dalla seconda metà degli anni'20, si distinsero nella loro classe di cilindrata (la classe “3 litri” dei gruppi Turismo e Sport): non si possono sottacere le grandi performances delle Lambda alla massacrante Mille Miglia: nelle prime due edizioni della corsa (1927 e 1928) la Lambda rischiò addirittura di ottenere la vittoria assoluta, aggiudicandosi comunque la propria classe ("3litri") e pizzandosi al 4º e 5º posto della graduatoria generale (nel 1927) ed al 3º posto (nel 1928). La Lambda avrà una vita abbastanza longeva dal momento che sarà commercializzata in Italia per oltre 8 anni, dalla metà del 1923 sino all'autunno del 1931 quando, in occasione del Salone di Parigi, la Casa torinese lancerà la più convenzionale ed economica Artena. Il totale di esemplari costruiti in 9 serie successivi risulterà di circa 13.000 (le diverse fonti forniscono dati discordanti ma le differenze sono di poco conto, visto che si va da un minimo di 12999 ad un massimo di 13003 "pezzi"). Venduta ad un prezzo elevato ma non proibitivo (in Italia la torpedo prima serie costava 43.000 lire) la La Lambda ebbe successo anche sui mercati esteri, dove venne venduta con una certa facilità: mancano i dati riguardanti il periodo 1923-25, ma nel quinquennio che va dal 1926 al 1930, le esportazioni assorbirono più del 40% della produzione. Nel corso di questi otto anni, tutta la vettura sarà oggetto di miglioramenti, ma le modifiche più importanti saranno quelle apportate dalla 5ª serie (adozione del cambio a 4 rapporti anziché a 3), dalla 6ª serie (nascita della versione a passo allungato), dalla 7ª serie (aumento della cilindrata da 2121 a 2375 cm3 e della potenza da 49 HP a 59,4 HP) e dell'8ª serie (ulteriore incremento di cilindrata e potenza, portate rispettivamente a 2569 cm3 e 69 HP).

Cessata all'inizio del 1925 la produzione della "grossa" Trikappa, ultima superstite delle Lancia del vecchio corso, per quasi cinque anni la gamma di modelli della Casa torinese rimaneva circoscritta alla sola Lambda, un modello che conferiva alla Lancia fama internazionale e successo commerciale ma che non era in grado di soddisfare la clientele più facoltosa – straniera in particolare - che voleva una vettura di maggiore cilindrata e prestigio. Nel 1926 iniziavano gli studi per progettare una nuova 8 cilindri. Il progetto iniziale prevedeva un modello abbastanza simile alla Lambda, con cilindrata attorno ai 3 litri. In quello stesso periodo un americano di nome Folcker, visitando la fabbrica, conosceva il “patron” e non faticava molto a convincerlo ad esaminare concretamente l'opportunità di entrare con un suo prodotto nell'immenso mercato nordamericano. Detto fatto, senza neppure avvertire i propri collaboratori più stretti, Vincenzo Lancia faceva dirottare gli studi verso una macchina più grande e, in considerazione della maggior mole della vettura, prevedeva la necessità di accantonare la struttura portante e tornare ad un telaio di impostazione più classica, mantenendo tuttavia lo schema della sospensione anteriore "a cannocchiale" a ruote indipendenti. Il lancio della Dilambda (questo il nome della nuova creazione) sarà comunque abbastanza travagliato, ritardato dalle vicende “americane” che coinvolgeranno Vincenzo Lancia tra la fine del 1927 ed i primi mesi del 1929. Dopo aver fondato (il 26 settembre 1927) la Lancia Motors of America, il nostro imprenditore torinese si recava a New York nel gennaio del 1929 per presenziare al National Automobil Show dove era esposto un prototipo della nuova ammiraglia Lancia ma riusciva rocambolescamente ad aver salva la pelle solo nascondendosi in albergo e imbarcandosi precipitosamente per l'Italia: pare infatti che il nostro Vincenzo fosse stato oggetto di un raggiro culminato addirittura in un tentativo di omicidio ordito forse dalla malavita locale. Fallita (in tutti i sensi) l'esperienza americana, ecco che il debutto in Europa della versione definitiva della Dilambda si aveva al Salone di Parigi del 1929, come voleva la più classica tradizione Lancia. Si trattava di una grossa unità mossa da un motore ad 8 cilindri a V di 24° di circa 4 litri di cilindrata erogante circa 100 HP a 3800 giri ma assai elastico e quindi in grado di conferire alla vettura una ripresa eccezionale. Malgrado il peso elevato la vettura superava i 120 chilometri all'ora. La Dilambda verrà costruita sino al 1935. In totale se ne produssero 1685 esemplari: non pochi considerando il genere di automobile ed il fatto che l'uscita della nuova ammiraglia venne a cadere quasi in contemporanea con il crollo di Wall Street. La Dilambda ebbe anche a convivere – dal 1932 – con una più piccola sorella ad 8 cilindri, la Astura, che sicuramente le sottrasse una piccola fetta di mercato. Intanto, con l'incremento dei ritmi produttivi, la Lancia ampliava la superficie degli stabilimenti rilevando tra l'altro, nel 1928, un'area contigua allo stabilimento della Chiribiri (che chiudeva ufficialmente i battenti il 3 settembre di quello stesso anno). Si trattava di una espansione progressiva ma se vogliamo disordinata, nel senso che venivano acquisiti di volta in volta terreni e fabbricati sparsi in qua e la per Torino, in aree diverse anche se non troppo lontane dal nucleo centrale di Borgo San Paolo. Nel 1930 la Lancia si trasformava in Società per Azioni, ma il capitale rimaneva comunque nelle mani della famiglia Lancia o di suoi amici più che fidati (i Vaccarossi). In questo periodo – gli anni venti e trenta – la Casa torinese dedicava una parte significativa degli investimenti al potenziamento della rete di vendita. Nel 1921 venivano aperte agenzie a Palermo ed a Napoli, mentre negli anni trenta si inauguravano nuove filiali a Roma, a Padova, a Genova, a Torino. Proseguivano intanto le iniziative Lancia all'estero: dopo la Lancia Motors of America, il 5 settembre 1928 veniva fondata in Inghilterra, sotto la denominazione di Lancia England, una società avente un capitale nominale iniziale di 100.000 sterline (9 milioni di lire dell'epoca): la società, che vivrà vicende alterne, tutte peraltro scarsamente fortunate, finirà per limitarsi a svolgere, sino allo scoppio della seconda guerra mondiale, funzioni esclusivamente commerciali. Più interessante l'attività che verrà svolta dalla Lancia automobiles, costituita a Parigi il 1º ottobre 1931, che farà esordire in territorio francese, rispettivamente nel 1932 e nel 1936, l'Augusta e l'Aprilia. Sotto il profilo economico-finanziario, anche l'operazione-Francia si risolverà alla fine in una perdita, malgrado la produzione di circa 3.000 Belna e 1.600 Ardennes (nomi assegnati all'Augusta ed alla Aprilia per il mercato d'oltralpe) negli anni dal 1934 al 1938. Per effetto dell'avventura coloniale italiana in Africa, a partire dal 1935 venivano create filiali nei territori dell'Africa Orientale Italiana e della Libia, in particolare a Bengasi, Asmara, Addis Abeba, Tripoli e Dessié. Esauritosi il quasi decennale ciclo della Lambda, al Salone dell'automobile di Parigi dell'autunno 1931, la Lancia presentava due nuovi modelli che andavano ad affiancare la grossa Dilambda: si trattava di due sorelle (quasi gemelle), la prima una 4 cilindri di nemmeno 2 litri, la seconda una 8 cilindri di 2,6 litri. I telai delle due nuove Lancia, che si ispiravano nel disegno generale alla Dilambda (motore, avantreno ed altri particolari erano però assolutamente diversi), differivano tra loro soltanto per il motore e per il valore del passo (299cm la piccola Artena, 19cm in più – onde poter ospitare il più ingombrante motore 8 cilindri - la sorella maggiore Astura). Terminato il periodo dell'alfabeto greco, i nomi assegnati a questi nuovi modelli passava alla serie di quelli tratti dall'antica civiltà italica: Artena (nome di una città dei Volsci in provincia di Roma) la più piccola, Astura (nome di uno storico castello ubicato nei pressi di Nettuno, altra località romana) la più grande. La Artena passerà alla storia per la proverbiale robustezza (pare sia stata se non la prima, una delle prime macchine al mondo a poter superare la soglia dei 100.000 chilometri senza necessità di revisioni), mentre la Astura sarà, sino alla seconda metà degli anni trenta, uno dei telai più ambiti dai maestri carrozzieri italiani per la creazione di stupende fuoriserie. Per quanto riguarda specificatamente la Astura, da segnalare parecchi successi in corsa, tra cui la vittoria assoluta al massacrante Giro automobilistico d'Italia del 1934. Da notare che l'Artena, morta nel 1936 dopo tre serie, resuscitava quattro anni dopo, nel 1940, con una quarta serie, destinata soprattutto al governo italiano (nella versione Ministeriale) o all'esercito (versione Militare). Interessanti (ma non eccezionali) i volumi produttivi: includendo gli autotelai si ebbero poco più di 5.500 Artena (5.000 dal 1931 al 1936 e 500 della quarta serie del periodo bellico, dal 1940 al 1942) e meno di 3.000 Astura (dal 1931 al 1939). Nel frattempo alla Casa torinese, dove pure nessuno intendeva dedicarsi alla produzione di massa, prendeva corpo l'idea di cimentarsi nella costruzione di un modello di limitate dimensioni, una sorta di utilitaria (secondo i canoni del tempo) sia pure d'élite. Il 1930 era l'anno in cui l'ufficio tecnico Lancia ne iniziava lo studio: nel giro di due anni la macchina era pronta, già messa a punto, avendo già macinato migliaia di chilometri nelle mani dei collaudatori. Dopo la parentesi delle Dilambda, Artena ed Astura – per le quali era stato preferito il più convenzionale “telaio separato” per questa sua nuova creatura, Vincenzo Lancia decideva di tornare alla soluzione della struttura portante che tanto lustro aveva dato con la Lambda, con la differenza – non da poco – che questa volta la struttura era prevista per la “guida interna” (berlina, in altri termini) e non per la versione “torpedo” com'era accaduto per la Lambda. Preceduta soltanto dall'americana Chrysler, alla Casa torinese restava comunque un primato, quello della prima berlina europea a struttura portante. Quando, nell'autunno del 1932, la stampa forniva le prime notizie su questa nuova Lancia (esposta in anteprima il 5 ottobre al Salone di Parigi) essa era indicata con i nomi di “Vespa” (in Italia) e di “Belna” (in Francia): fermo restando che l'appellativo di “Vespa” era stato affibbiato da un giornalista (ma non corrispondeva ad alcuna denominazione ufficiale) quando la vettura fu presentata (e lanciata) in Italia - al Salone di Milano dell'aprile 1933 - venne chiamata “Augusta” (in verità, un nome piuttosto pomposo ed impegnativo per un modello di ridotte dimensioni). Da osservare che questo ritardo nel lancio sul mercato fu dovuto all'insorgere di problemi legali con una importante fabbrica americana di carrozzerie, la Budd, che deteneva un brevetto per una carrozzeria autoportante molto simile a quella dell'Augusta, brevetto che alla fine risultò depositato dopo che il progetto Augusta già era stato avviato. Ma naturalmente, la nuova Lancia non si distingueva solo per la struttura portante, ma per molte altre sue caratteristiche innovative o poco usuali nella contemporanea produzione europea (il motore con cilindri a V stretto, la sospensione anteriore a ruote indipendenti con molloni elicoidali racchiusi in foderi verticali con ammortizzatori a frizione incorporati, le sospensioni posteriori che non necessitavano di frequenti lubrificazioni, la ruota libera inseribile o disinseribile dal posto di guida, la trasmissione con albero a giunti flessibili in luogo del cardano, i freni idraulici). Una interessante caratteristica innovativa era data dall'originale sistema di incernieramento delle portiere, in posizione opposta l'una all'altra, che consentiva l'abolizione del montante centrale: il sistema era stato studiato per sopperire alle difficoltà di accesso all'abitacolo determinate dalla dimensione longitudinale delle portiere, che era stata volutamente limitata per conferire alla vettura la necessaria massima rigidità torsionale. Per far fronte alle esigenze dei clienti che desideravano una carrozzeria speciale, dal 1934 il modello veniva anche costruito come telaio (un robusto pianale in lamiera stampata). L'Augusta era accolta sui mercati con l'interesse che, ormai da anni, destava ogni nuovo modello Lancia. D'altronde il pubblico sapeva di trovarsi sempre di fronte ad un prodotto innovativo ed elegante ma al contempo robusto ed affidabile: e così sarà anche per l'Augusta, che piaceva immediatamente anche per la sua linea snella e signorile. Della Augusta, tra il 1933 ed il 1936, verranno costruiti in Italia 17.217 esemplari (14.107 berline più 3.110 autotelai a pianale), un numero superiore al “record” produttivo della Lambda (circa 13.000 pezzi), testimone di successo. Aggiungendo ad essi le Augusta costruite in Francia sotto il nome “Belna” (3.000 “, di cui 2.500 berline e 500 telai) il modello, nel suo complesso, supererà addirittura le 20.000 unità.

Malgrado le vendite dell'Augusta marciassero a gonfie vele, Vincenzo Lancia, che ancora non aveva dimenticato i fasti della Lambda, pensava ad una macchina più rivoluzionaria, un prodotto fuori dagli schemi che lasciasse il segno. Nell'aprile del 1934, venne brevettato un originale progetto per una vettura del tutto anticonvenzionale, nella quale il pilota si sarebbe trovato in posizione centrale ed avrebbe avuto due passeggeri al suo fianco, uno per parte, mentre una quarta persona avrebbe trovato alloggio su un piccolo divano posteriore, posto nella coda - molto rastremata - dell'inconsueto veicolo, provvisto di due sole ampie portiere. Ma questo progetto, giudicato troppo ardito, veniva accantonato. Negli ultimi mesi del 1934, Vincenzo convocava lo staff direttivo (gli ingegneri Manlio Gracco e Giuseppe Baggi, rispettivamente direttore generale e direttore tecnico, i tecnici signori Alghisi, Falchetto, Sola e Verga, il collaudatore Gismondi) e, di fatto, dava il via allo studio di una vettura aerodinamica (un aspetto in quegli anni poco considerato), dalla cilindrata un poco superiore ai 1200 cm3 dell'Augusta, relativamente leggera (sotto alla tonnellata nella versione berlina 5 posti) e capace di fornire prestazioni superiori con potenza e consumi relativamente modesti. Nell'inverno 1934-1935 la squadra dell'ufficio tecnico disegnava il motore, per il quale veniva mantenuto il classico schema dei cilindri a V stretto, che si distingueva per la forma sferica delle camere di scoppio, ottenuta grazie ad un sistema di distribuzione particolare (che sarà brevettato). Al banco, il motore (con monoblocco in alluminio e canne dei cilindri riportate, in ghisa) erogava la bella potenza di 48 cavalli a 4300 giri al minuto (non male per un 1352 cmc). Ricerche effettuate in collaborazione con il Politecnico di Torino portavano a concludere che la forma della coda rivestiva una particolare importanza aerodinamica: il disegno della carrozzeria, quindi, seguiva alla lettera queste indicazioni al punto che, quando Vincenzo vedeva il “mascherone” in legno della vettura, trovava esagerato il raggio di raccordo tra tetto e fiancata, e lo faceva subito ridurre. In effetti, questa prima versione di carrozzeria aveva una coda lunghissima, efficace dal punto di vista aerodinamico ma decisamente antiestetica. Sicuro che stabilità ed aderenza avrebbero tratto vantaggio dalla adozione di sospensioni a quattro ruote indipendenti, Vincenzo faceva mettere allo studio una sospensione posteriore adatta allo scopo. Il retrotreno progettato per la Aprilia – questo il nome di quella che sarà l'ultima creatura di monsù Lancia – risultava piuttosto complesso e richiedeva una messa a punto laboriosa. Le prove su strada dell'Aprilia si protrassero sino al giugno del 1936, ma, contrariamente a quella che era una sua abitudine, Vincenzo non vi partecipò mai in prima persona. Finalmente, all'inizio dell'estate del 1936, dovendo effettuare un viaggio a Bologna, compiva la sua prima esperienza con un prototipo Aprilia: lasciata la guida al fido Gismondi, Vincenzo gli sedette accanto e se ne rimase silenzioso, salvo per osservare che la velocità della vettura (130 all'ora) gli pareva eccessiva. Al ritorno, però, Vincenzo non resistette alla tentazione e, approfittando di una sosta a Voghera, si fece cedere il volante, guidando veloce sino a Torino. In vista della città, finalmente, si lasciò andare con una breve frase che però la diceva lunga “che macchina magnifica!”. I tre che erano in macchina con lui (i tecnici-collaudatori Verga e Tacchini, oltre al Gismondi), rimasti in ansia per l'apparente freddezza del “capo”, poterono ora tirare un sospiro di sollievo! Alla vettura venivano apportate alcune leggere modifiche, tra cui la riduzione della velocità massima a 125 km orari. Come ormai consolidata consuetudine, oltre alla berlina (tipo 238), anche questo prodotto Lancia veniva offerto nella versione “autotelaio” (tipo 239), destinato alle fuoriserie, cioè sostanzialmente a tutti coloro che intendevano farsi costruire una carrozzeria quasi “su misura” rivolgendosi ai più celebrati carrozzieri. Questo autotelaio aveva le medesime caratteristiche della berlina (incluse le sospensioni a ruote indipendenti sulle quattro ruote) ma la misura del suo passo era di 10 cm superiore (cm 285 invece di 275). Ma Vincenzo Lancia non avrà più il tempo per vedere uscire dalla catena di montaggio il primo esemplare. All'alba del 15 febbraio 1937, non ancora 56.enne, moriva improvvisamente per un infarto. Quando apparvero le prime Aprilia, i tecnici si mostrarono scettici. Anche il pubblico normale appariva un po' sconcertato dalla linea difficile da digerire. Ma in breve, gli uni dovettero ricredersi, gli altri cominciarono ad abituarsi e ad apprezzarla. E l'Aprilia non tardò a farsi valere sulle strade, anche in corsa (dove non ebbe rivali nella classe 1500 cm3). Il modello (la cui cilindrata, nel 1939 venne portata a 1486 cm3 ) sopravvisse alla seconda guerra mondiale e venne costruito sino alla fine del 1949 per un totale di 27.836 pezzi (20.082 berline e 7.554 telai): poi, nel 1950, all'Aprilia seguì un altro modello mitico, la Aurelia. Come accaduto per l'Augusta, costruita anche in Francia e colà commercializzata come “Belna”, anche per l'Aprilia si tentò la carta del montaggio oltralpe. Forse sottovalutando la feroce concorrenza della Citroën Traction Avant (tecnicamente avanzata quanto l'Aprilia se non di più, ed offerta ad un prezzo molto inferiore grazie ai più elevati volumi produttivi), l'Ardennes (questo il nome assegnatole per la commercializzazione) non riscosse il successo sperato tanto che nel biennio 1937/38 se ne produssero soltanto poche centinaia, per cui, stante anche la guerra mondiale incombente, l'avventura Lancia in quel di Bonneuil (alla periferia di Parigi) ebbe così il suo epilogo. Il giorno 22 ottobre 1949, dentro al baule dell'ultima Aprilia uscita dalla linea di montaggio, venne trovato un biglietto dai contenuti quasi commoventi. Questo il testo: “Cara Aprilia, nel prendere commiato ti porgo un reverente saluto. Il tuo nome glorioso ha saputo imporsi nelle più grandi metropoli, merito di un Grande pioniere scomparso ma sempre vivo il suo nome in noi. Gli artefici di questo grande complesso augurano e aspettano che la sorella che sta per sorgere dia altra tanta gloria e maggior comprensione per il bene di tutti”. Il 1939 volgeva al termine tra i primi bagliori della guerra, quando la Casa torinese lanciava sul mercato un nuovo prodotto rivoluzionario, alla cui realizzazione aveva probabilmente contribuito il famoso progettista Vittorio Jano, passato dall'Alfa Romeo alla Lancia nel febbraio 1938. Alla vettura veniva dato il nome "Ardea", corrispondente a quello di una antichissima città laziale (geograficamente un po' a sud di Pomezia), fondata forse dal figlio di Ulisse e di Circe, che fu capitale dei Rutuli all'epoca dello sbarco di Enea. La Lancia Ardea era una piccola vettura, dalle brillanti prestazioni, che si presentava con una carrozzeria berlina a quattro porte che altro non era se non la copia, in scala leggermente ridotta, della gloriosa Aprilia. Di quest'ultima, infatti, ripeteva la sezione longitudinale, con solo qualche lieve variazione (passo inferiore, cofano più corto, coda meno rastremata). La struttura della vettura era, naturalmente, del tipo “portante”. L'Ardea disponeva di un motore a 4 cilindri a V stretto (20º) di 903 cm3 (alesaggio mm 65 e corsa mm 68) che erogava una potenza massima di 28-29 HP al bel regime (per l'epoca) di 4600 giri al minuto. Il sistema di distribuzione era a valvole in testa azionate da un albero superiore, mosso a sua volta da una catena. Tecnicamente, si apprezzavano i corti bilancieri obliqui (tutti indipendenti e simmetrici, facilmente smontabili ed intercambiabili) e la catena di comando (doppia fila di rulli e tenditore automatico). Una caratteristica interessante era data dall'albero di trasmissione con giunti snodati ed elastici ad incastri cilindrici (all'interno di boccole in gomma). La sospensione anteriore era quella a ruote indipendenti del tipo classico Lancia (cannocchiali verticali contenenti molloni elicoidali ed ammortizzatori idraulici concentrici), mentre il retrotreno era del normale ponte rigido con due balestre longitudinali (montate su boccole del tipo detto “Silentbloc”) ed ammortizzatori del tipo a leva. Molto compatta e piuttosto leggera (750 Kg) la vettura, grazie anche alla linea aerodinamica della carrozzeria, raggiungeva i 108 km orari ed aveva tra i suoi pregi – apprezzabile in quegli anni di crisi - un consumo assai ridotto (poco più di 7 litri ogni 100 chilometri, ad una andatura di circa 75 km orari). L'Ardea veniva inizialmente costruita, in quella che sarà poi definita come “prima serie”, in tre versioni, la tipo 250, cioè la normale berlina di serie, il telaio tipo 350 (di cui nulla si sa ma che molto probabilmente era lo chassis destinato ai carrozzieri, che peraltro realizzarono pochissime Ardea fuori serie) ed il tipo 450, per servizio pubblico (taxi) definito anche “tipo Roma”, munito di carrozzeria più ampia (passo e lunghezza si incrementavano rispettivamente da cm 241 a cm 295 e da cm 361,5 a cm 446,5). L'Ardea verrà costruita in quattro serie sino al 1952: le differenze tra una serie e l'altra saranno tutto sommato modeste, fatta eccezione per la adozione del cambio a 5 marce (con la quinta marcia surmoltiplicata) adottato nel dopoguerra (terza serie). Oltre alla berlina ed al taxi, nel dopoguerra iniziava anche la produzione delle versioni derivate, il furgoncino ed il camioncino. Complessivamente le Ardea prodotte sono state 31.961, e precisamente 22.730 berlina, 511 taxi, 7.519 furgoncini e 1.201 camioncini

Mentre stava lavorando attorno al progetto dell'Aprilia, Vincenzo Lancia decideva di aderire ad una iniziativa governativa tesa a promuovere la creazione di un centro industriale in quel di Bolzano. Nel marzo del 1935 l'ufficio tecnico del comune di Bolzano trasmetteva alla direzione Lancia la planimetria della zona, per la scelta del lotto di terreno da acquistare per la costruzione dello stabilimento, sei mesi dopo iniziavano i lavori di costruzione dei primi quattro capannoni, nell'aprile 1937 venivano assunti i primi impiegati (che saranno “istruiti” a Torino). Il mese di giugno 1937 segnava dunque la nascita ufficiale dello stabilimento, che debuttava con l'entrata in funzione del reparto fonderia. Prima dello scoppio della guerra cominciavano i lavori di costruzione del reparto meccanica, e così lo stabilimento di Bolzano diventava un complemento insostituibile delle officine di Torino. Lo scoppio della guerra aumentava ulteriormente l'importanza di questo stabilimento decentrato. Nell'autunno del 1942 gli stabilimenti di Torino venivano gravemente danneggiati da un furioso bombardamento, e si iniziava un massiccio trasferimento di interi reparti da Torino a Bolzano. Ma in breve i bombardamenti cominciavano a colpire anche Bolzano, e gli anni 1943 e 1944, saranno costellati da arresti, bombardamenti, lutti. La ripresa, faticosa, lenta ma costante, inizierà il 3 maggio 1945. Subito iniziava la ricostruzione degli impianti e le lavorazioni che erano di pertinenza degli stabilimenti di Torino, tornavano alla loro sede naturale, ad eccezione del settore dei veicoli industriali, che rimaneva in via definitiva a Bolzano.

Alla fine della Prima guerra mondiale, il passaggio dalle attività belliche a quelle di pace, si rivelava decisamente difficile, specialmente nel settore dei veicoli industriali. Del resto, il mercato non era particolarmente attivo, dal momento che lo sviluppo dei trasporti su strada era ancora di lì da venire e che i residuati di guerra che l'esercito stava cedendo ai civili poteva benissimo sopperire a queste marginali necessità. Nonostante queste difficoltà, nel 1921 uscivano i modelli Trijota e Tetrajota, costruiti esclusivamente come autotelaio da fornire ai carrozzieri per realizzare autocarri o torpedoni. Questi autotelai montavano il vecchio collaudato motore a 4 cilindri in linea da 4,9 litri di cilindrata, con passo di cm 335 e cm 385 rispettivamente. Il Trijota veniviva carrozzato ad autocarro, mentre il Tetrajota serviva da base per la realizzazione, soprattutto, di torpedoni. Entrambi i modelli (prodotti complessivamente in 673 esemplari) riscuotevano un buon successo anche all'estero. Mentre il Tetrajota continuava ad essere prodotto fino al 1928, nel 1922 il Trijota terminava la sua esistenza, durata lo spazio di poco più di un anno. Nel 1924, alla Lancia veniva impostato un nuovo autocarro, il Pentajota, che, azionato dal solito motore da 4,9 litri da 70 hp sufficiente a fargli raggiungere i 55-60 chilometri all'ora, utilizzava cambio e ponte del Tetrajota: grazie all'aumento del passo (portato a cm 431) il nuovo autocarro adottava un cassone da cm 370 x 210, che conferiva al Pentajota la qualifica di gigante della strada. Interessante, su questo modello, l'adozione dei freni sulle ruote anteriori: il pedale comandava funi metalliche che agivano simultaneamente al freno sulla trasmissione (la frenatura sulle ruote posteriori avveniva invece unicamente per mezzo della leva azionata manualmente). Il Pentajota era costruito dal 1924 al 1929 in più di 2000 esemplari. Intanto veniva messo in cantiere un nuovo telaio per autobus urbano, l'Eptajota, caratterizzato dalla adozione di un telaio con longheroni di foggia tale da consentire di abbassare il pavimento, così come richiesto in particolare dal Comune di Milano, per il quale in effetti l'Eptajota era destinato. Comodo e di grande portata, l'Eptajota (quasi 2.000 esemplari, dal 1927 al 1934) mostrava il suo limite nella scarsa potenza dell'ormai obsoleto motore, che non gli consentiva di raggiungere quelle velocità d'esercizio che ormai si rendevano necessarie. La prolissa serie “Jota” si esauriva con l'autocarro Eptajota, che, sempre utilizzando il motore da 4,9 litri ed i gruppi meccanici del Pentajota, veniva costruito con un passo di ben cm 472, che permetteva di aumentare la lunghezza del cassone sino a cm 455. Dopo l'esperienza poco felice dell'autobus Esajota (soli 13 esemplari, tutti costruiti nel 1926), nel 1927 alla Lancia si decideva di progettare un autotelaio del tutto nuovo, moderno, adatto ad essere carrozzato nel tipo autobus urbano ed extraurbano, l'Omicron, munito di un nuovo motore a 6 cilindri in linea di ben 7069 cm3 (alesaggio mm 100, corsa mm 150) erogante – grazie anche alla adozione delle valvole in testa comandate da due alberi di distribuzione – quasi 92 HP a 1600 giri. Interessante la collocazione del gruppo centrale del ponte: esso era sistemato lateralmente per poter abbassare il più possibile l'altezza da terra del corridoio centrale del veicolo. L'Omicron sarà costruito nella versione a passo corto (cm 512,5) e a passo lungo (cm 592). Ottimo l'impianto frenante, costituito da freni meccanici sulle 4 ruote (a pedale) ed un freno a mano agente su apposite ganasce al ponte posteriore (affiancate a quelle azionate dal pedale, ma da esse indipendenti): Nel 1929, dopo i primi duecento esemplari, l'impianto veniva completato con un servofreno a depressione (tipo Dewandre) per ridurre lo sforzo da esercitare sul pedale. Malgrado un consumo decisamente elevato, l'Omicron riscuoteva un buon successo (601 esemplari dal 1927 al 1936), soprattutto grazie alla meritata fama di veicolo indistruttibile (si parlò di esemplari che raggiunsero e superarono il traguardo dei 2 milioni di chilometri). Le qualità dell'Omicron conquistarono anche i mercati esteri, ed alcuni esemplari, attrezzati come vagoni-letto, vennero utilizzati per un servizio di linea attraverso il Sahara, tra l'Algeria ed il Sudan francese. Soprattutto per porre rimedio al problema dell'elevatezza dei consumi, venne studiato un motore a ciclo Diesel a cinque cilindri di 6871 cm3 e 93 HP di potenza, sostituibile a richiesta sulle unità azionate dal motore a benzina. All'inizio degli anni'30, Vincenzo Lancia acquistava la licenza di fabbricazione del motore Diesel fabbricato in Germania dalla Junkers, che pareva uno dei più riusciti. Si trattava di un bicilindrico a due tempi, con due pistoni contrapposti per cilindro, aventi la corsa di due diverse misure (mm 150 l'uno, mm 100 l'altro) e quindi con cilindrata di 3181 cm3 e potenza di 64 HP a 1500 giri. Del motore Junkers esisteva anche una seconda versione, a tre cilindri, di 4.771 cm3 e 95 HP. L'autocarro equipaggiato dal motore a due cilindri si chiamava “Ro” e fu prodotto dal 1932 al 1938 in quattro versioni, di cui due militari. Nel 1935 venne realizzato uno speciale “Ro” militare con motore classico (4 cilindri, 4 tempi) da 5126 cm3 e 65 HP, che ebbe modo di distinguersi durante l'impiego in Etiopia. Ancora nel 1935, al “Ro” si affiancava il “Ro-Ro” su cui veniva montato il 3 cilindri Junkers da 4771 cm3. Chiudeva la lista dei veicoli industriali pre-bellici, il “3 Ro” (nato nel 1938 e costruito fino al 1947 in quasi 12.700 esemplari, tra veicoli militari e veicoli per uso civile) che veniva equipaggiato col motore a 5 cilindri da 6871 cm3 e 93 HP di potenza, lo stesso già adottato da alcuni degli ultimi Omicron, che riusciva a spingere gli autocarri fino a farli sfiorare, a vuoto, gli 80 chilometri all'ora.

Alla scomparsa di Vincenzo, l'azienda passava nelle mani della moglie, Adele Miglietti, che assumeva la carica di Presidente, mentre la direzione generale passava momentaneamente nelle mani dell'ing. Manlio Gracco de Lay (già ai vertici dello staff dell'ufficio tecnico) coadiuvato dai più valenti collaboratori del patron scomparso (Ernesto Zorzoli per quello finanziario ed Oscar Ravà per il commerciale). Nel febbraio del'38 il Ravà lasciava l'azienda (costrettovi, pare, per via della sua appartenenza alla razza ebraica....) ed arrivava, esule dall'Alfa Romeo, il celebre progettista Vittorio Jano. Intanto la signora Adele, resasi conto di quanto l'azienda soffrisse per la mancanza di un vero “capo”, contattava Ugo Gobbato (di Volpago del Montello TV), amministratore delegato all'Alfa Romeo) e Gaudenzio Bono (alto dirigente alla Fiat), ma non riusciva a convincerli a lasciare le rispettive aziende. E così gli anni quaranta trascorsero con vorticosi mutamenti e continui cambi di ruolo ai vertici. Nel 1944 la carica di direttore generale venne affidata ad Arturo Lancia (un cugino di Vincenzo) che però morirà di lì a poco. Finalmente, nel 1947, ormai ventitreenne entrava alla Lancia il figlio di Vincenzo, l'ingegner Gianni, che presto prenderà le redini della Lancia e che sarà l'artefice dell'ingresso “alla grande” della Casa nell'agone sportivo (e persino nella Formula Uno). Tutto questo però avverrà nel secondo dopoguerra. Alla ripresa dell'attività produttiva, la Lancia si ritrova con due modelli di automobile da commercializzare: la piccola Ardea e la sorella maggiore Aprilia. La prima, pur contando già circa 6-7 anni di età (è stata lanciata alla fine del 1939), è di progettazione relativamente recente e quindi pare non si pongano, al momento, problemi di imminente pensionamento; l'Aprilia invece è nata qualche anno prima e in seno all'azienda si comincia seriamente a pensare al modello destinato a sostituirla, che sarà l'Aurelia.

Durante la guerra, Gianni Lancia comincia ad occuparsi dei progetti futuri della Casa che reca il suo nome. Convinto che la trazione anteriore non fosse l'ideale, forse (si dice) a causa di esperienze negative vissute al volante di una Traction Citroen, pensa di esplorare quella posteriore (o più correttamente centrale-posteriore): dopo qualche progetto datato 1944, nel 1948 viene realizzato un prototipo, denominato A10, munito di un motore ad 8 cilindri a V di 90º di circa 2 litri di cilindrata.

l progetto iniziale (febbraio 1945) prevede l'installazione del motore su una carrozzeria berlina a 4 porte ma il prototipo effettivamente costruito, con telaio tubolare, viene munito di carrozzeria coupé (realizzata dalla carrozzeria Ghia). Caratteristica singolare di questo coupé è anche costituita dall'abitacolo, che contempla tre posti anteriori (con il guidatore in posizione centrale). Negli stessi anni del conflitto, i progettisti di Casa Lancia non stanno inattivi e, tra gli altri, vengono portati avanti studi ed esperimenti per la realizzazione di un propulsore a 6 cilindri disposti – come di consueto per la casa torinese - a “V” . Nel 1947 un motore (tipo 538) a 6 cilindri a V (45º) di 1569 cm3 viene installato su una Aprilia per i collaudi su strada. Nel 1948, Gianni Lancia, ormai direttore generale, rompe gli indugi: da una parte accantona l'idea di proseguire sulla strada del prototipo A10 a motore centrale-posteriore (perché ritenuto troppo costoso da costruire), dall'altra è convinto che il semplice “aggiornamento” dell'Aprilia non sia sufficiente al rilancio aziendale, per cui decide il varo di un modello completamente nuovo che rientri però nello schema Lancia classico. Nel frattempo la direzione tecnica è nelle mani di Jano, che, assieme a De Virgilio, costruisce un secondo propulsore sperimentale, sempre di 1569 cm3 ma con apertura di 50° (sarà il B10 primo tipo). Il motore definitivo viene realizzato nel 1949. L'angolo di apertura della “V” viene aumentato a 60° (un valore che garantisce un'ottima equilibrature del 6 cilindri) la cilindrata viene portata a cmc 1754,90, la potenza erogata è di 56 CV a 4.000 giri/minuto.

Nel biennio 1948-1949, naturalmente, vengono definite e studiate anche le altre componenti la nuova vettura, che assumerà l'armonioso nome di “Aurelia” (corrispondente a quello della più importante strada italiana) e che sarà caratterizzata dalla scocca portante, dalle sospensioni a 4 ruote indipendenti, dalla sistemazione al retrotreno del gruppo frizione-cambio-differenziale e, non ultimo, da una carrozzeria avente una linea assai sobria ed elegante, derivata da quella di una Aprilia carrozzata da Pininfarina nel periodo 1946-1948 ma ulteriormente ammodernata ed addolcita. La Aurelia viene presentata al pubblico al Salone dell'automobile di Torino che si apre il 4 maggio 1950: oltre alla berlina di serie (tipo B10) viene esposto l'autotelaio a pianale per i carrozzieri (tipo B50) e la versione Cabriolet dovuta a Pininfarina (realizzata appunto sulla base dell'autotelaio B50).

Il 1951 è l'anno di nascita di un modello glorioso, destinato a passare alla storia come uno dei più significativi realizzati dalla casa torinese: stiamo parlando della Aurelia B20, una elegante coupé attribuita a Pininfarina che si distinguerà anche per la bontà delle prestazioni. La quasi leggendaria B20, nata con motore da due litri, diventa ancora più attraente a partire dal 1953, quando la cilindrata del motore viene portata a 2 litri e mezzo e le prestazioni aumentano ancora (la velocità massima, ad esempio, passa da 162 a 185 km all'ora). È proprio grazie a questo modello che Gianni Lancia può soddisfare uno dei suoi desideri, quello cioè di vedere le sue macchine impegnate nel mondo delle corse. L'attività agonistico-sportiva, iniziata sotto forma di semplice “assistenza” ai Clienti delle B20 desiderosi di misurarsi in corsa, si trasforma presto in partecipazione “ufficiale” alle gare più importanti. Nel biennio 1951-1952 le B20 da 2 litri di cilindrata colgono affermazioni di rilevanza internazionale (tra cui, nel 1951, un 2º posto assoluto alla Mille Miglia e la vittoria di classe alla 24 ore di Le Mans e, l'anno successivo, la vittoria assoluta al Rallye del Sestriere ed alla dura Targa Florio nonché un primo posto di classe a Le Mans). Dal canto suo, a partire dal 1953 la B20 con motore da 2,5 litri ottiene successi a ripetizione, specialmente in ambito nazionale: tra le vittorie internazionali più clamorose va citata quella al Rallye di Montecarlo 1954.

La produzione di serie dell'Aurelia prosegue: nel 1954 esce la berlina seconda serie con motore di 2,3 litri di cilindrata, una vettura che perde il piglio sportivo delle berline due litri prima serie B21 e B22, ma che si fa notare per l'accuratezza delle finiture e per la confortevolezza al punto da essere considerata, in quegli anni, la "ammiraglia" italiana. Anche la B20 coupé da 2 litri e mezzo subisce modifiche che la rendono meno "corsaiola". Nel 1955 esce l'ultima versione Aurelia, lo spider B24 di Pininfarina, una delle macchine più belle nella storia dell'automobile: nata con l'intento (poi non realizzato) di sfondare il mercato Stati Uniti, la B24 viene ricordata come "tipo America" e nel 1956 - quando esce la seconda serie meno spartana - assume la definizione di "convertibile". La produzione della berlina seconda serie dura appena due anni (1954 e 1955) poi si arresta per far posto alla monumentale Flaminia (che viene immessa in commercio nella primavera del 1957) mentre coupé B20 e convertibile B24 rimangono a listino fino al 1959.

Dopo aver lanciato il modello Aurelia in sostituzione dell'Aprilia, l'ufficio progettazione dell'azienda torinese mette allo studio il modello destinato a rimpiazzare l'Ardea, che ormai comincia a sentire il peso degli anni. Sin dal progetto iniziale, la nuova vettura viene concepita con una linea molto somigliante a quella della sorella maggiore Aurelia, così come già era accaduto fra i modelli Ardea ed Aprilia, di cui la prima altro non era se non la riproduzione in scala ridotta della seconda. In sede sperimentale, il motore conserva la cilindrata, inferiore al litro, dell'Ardea, ma con una struttura diversa, con due alberi a camme nel basamento e testa in alluminio con sedi valvole riportate. Attraverso fasi intermedie si giunge, all'inizio del 1953, ai 1090 cc della cilindrata definitiva. La nuova vettura, battezzata Appia, viene presentata al Salone dell'automobile di Torino nel mese di aprile 1953: sua più diretta concorrente è la nuova Fiat 1100 modello 103, immessa sul mercato appena qualche settimana prima. La differenza di prezzo tra le due vetture è però quasi abissale (975.000 Lire la Fiat - addirittura 945.000 Lire nella versione "economica" - contro 1.331.500 Lire della neonata piccola Lancia). Un po' sorprendentemente - e malgrado la moda del tempo - non risulta che alcun carrozziere utilizzi gli organi meccanici di questa prima Appia per realizzare edizioni cosiddette "fuoriserie", ma la ragione è da ricercare nel fatto che la casa madre non mette in vendita il pianale privo di carrozzeria.

È della stessa Lancia, invece, l'iniziativa di produrre, a partire dal '54, le versioni commerciali: il furgoncino, il camioncino e la autolettiga. Il successo di questa prima serie dell'Appia - costruita in appena 20.025 unità (berlina) - non si può definire eccezionale: la Fiat 1100-103 si dimostra davvero una concorrente troppo forte e in più i clienti lamentano imperfezioni nelle rifiniture ed anche qualche pecca nell'affidabilità, difetti difficilmente perdonabili ad una Lancia, proverbiale per l'elevata qualità dei suoi prodotti. Poi - e siamo al 1955 - sul mercato si affaccia la versione berlina della Alfa Romeo Giulietta, e in casa Lancia (che è in piena crisi anche dirigenziale) ci si rende conto che è necessario correre ai ripari e migliorare il prodotto, rendendolo più appetibile. Un po' a sorpresa, nel marzo del '56 la Lancia espone al Salone dell'automobile di Ginevra la seconda serie dell'Appia. Voluta dal Prof. Antonio Fessia (entrato alla Lancia da poco), la nuova serie appare rinnovata nella carrozzeria (linea allungata, bagagliaio più pronunciato e capiente, pinne posteriori arrotondate) e un po' in tutti gli organi meccanici (sterzo, freni, cambio ma anche motore, la cui potenza massima sale da 38 a 43,5 CV fornendo prestazioni decisamente migliori (la velocità massima passa da 120 a 128 km orari, ma anche accelerazione e ripresa risentono in positivo delle modifiche). Sul fronte della affidabilità la casa fa tesoro delle esperienze dei primi tre anni e recupera il terreno perduto. La seconda serie dell'Appia è davvero una macchina riuscita, elegante e raffinata. Quanto alla robustezza, basta ricordare la prova di resistenza effettuata dalla nota rivista "Quattroruote" nel 1957 (oltre 160.000 chilometri percorsi senza che la vettura accusasse avarie). La "seconda serie" Appia viene commercializzata sino al febbraio del 1959, poi cede il passo alla "terza serie".

Nel 1956, subito dopo il lancio della seconda serie, tredici pianali vengono messi a disposizione dei carrozzieri italiani: mentre alcuni modellano delle normali "fuoriserie", altri realizzano versioni che, pochi mesi dopo, entrano a far parte del listino ufficiale Lancia e prodotte in serie, sia pur limitata. Questi pianali montano quasi subito un motore potenziato (53 CV in luogo di 43,5): è il caso della coupé di Pininfarina e della cabriolet ("convertibile" nella definizione ufficiale) di Vignale (commercializzate dal maggio 1957) ma anche della più sportiva berlinetta dovuta allo specialista milanese Zagato che, dopo un certo numero di unità destinate soprattutto ai clienti sportivi desiderosi di cimentarsi nelle competizioni, alla fine del 1958 partorisce la bella GTE (Gran Turismo Esportazione), la cui profilata carrozzeria si distingue anche per la carenatura dei fari. Nel marzo del 1959, sempre in occasione del Salone di Ginevra, viene lanciata una nuova "serie" di Appia, la terza, che si differenzia dalla precedente soprattutto per la carrozzeria ed in particolare per il nuovo frontale che, abbandonata la classica mascherina a scudetto che ha caratterizzato per anni la produzione Lancia, assume una forma trapezoidale simile a quella della sontuosa Flaminia, l'ammiraglia della casa torinese, lanciata nel '57. Naturalmente anche la parte meccanica viene aggiornata, la potenza arriva a 48 CV e, pochi mesi dopo l'uscita, viene adottato il doppio circuito frenante (un notevole passo avanti per quanto concerne la sicurezza attiva). La carrozzeria però non convince tutti per la sua disarmonia, dovuta alla coabitazione tra linee arrotondate e linee più tese e squadrate. In concomitanza con il lancio della terza serie (marzo 1959) le derivate subiscono solo piccoli aggiornamenti. L'abitabilità dello spider di Vignale, intanto, passa da due a quattro posti e di conseguenza la vettura venne definita con il più appropriato termine "convertibile". La schiera delle versioni speciali si arricchisce con la "Lusso" (una quattroposti due porte molto ben rifinita dovuta ancora a Vignale uscita alla fine del 1958 ma in pratica venduta per un solo anno, il 1960) e con la Giardinetta (la "station wagon" dell'epoca) dovuta a Viotti (uno specialista del settore), esposta come novità al Salone dell'automobile di Torino nell'autunno 1959 e messa in commercio dal febbraio del 1960. L'ultima novità Appia è merito di Zagato che, nel 1961, lancia la versione "Sport" a passo accorciato, più rastremata, più maneggevole e più leggera. Nel 1961 la domanda di Appia inizia ad affievolirsi, nel 1962 il calo delle vendite si accentua: d'altro canto gli anni cominciano a farsi sentire e la concorrenza - che ora proviene anche dall'estero in virtù della graduale liberalizzazione dei mercati - è agguerrita. L'erede dell'Appia è però alle porte: nel mese di aprile 1963 esce infatti la "Fulvia", una "tutto avanti" destinata a far strada, soprattutto nella leggiadra versione "coupé". L'ultima Appia lascia la fabbrica il 27 aprile 1963: è la 103.161ª (98.000 berlina e 5.161 derivate). In realtà il totale di "Appia" costruite, includendo anche i 3.863 veicoli commerciali, è di 107.024 unità, il modello Lancia finora prodotto nel maggior numero di esemplari e l'unico a superare la soglia dei 100.000 pezzi. Benché gli acquirenti dell'Appia fossero tendenzialmente orientati più al comfort ed al lusso piuttosto che alle prestazioni velocistiche, non sono mancate presenze di vetture Appia nelle competizioni. Sarebbe infatti ingeneroso non ricordare i successi ottenuti in corsa - per quasi un decennio - dalle Appia carrozzate ed elaborate da Zagato. Nella sua classe (1150 cc della categoria Gran Turismo) l'Appia Zagato fa la parte del leone, consentendo ai suoi piloti (tra i quali va citato Cesare Fiorio) di conquistare ben 9 Campionati italiani, tra il 1959 e il 1965. Il propulsore "Appia" verrà anche utilizzato da alcuni piccoli costruttori-artigiani italiani per le monoposto di Formula Junior: quella costruita da Angelo Dagrada ottiene - con Giancarlo Baghetti - i risultati migliori (4º posto nella graduatoria del Campionato 1960).

Non pago dei pur eccellenti risultati ottenuti con le B20, Gianni Lancia, contando anche sull'esperienza e sulla capacità del suo più celebre progettista, Vittorio Jano, intende fare un salto di qualità e partecipare con una “vera” macchina da competizione alle gare di maggior rilevanza, anche per misurarsi nel Campionato Internazionale Vetture Sport che viene varato nel 1953. Viene così messa in cantiere la berlinetta D20 da 3 litri, che esordisce proprio nel 1953 alla Mille Miglia (dove ottiene uno splendido terzo posto) e che si aggiudica, nello stesso anno, la Targa Florio.

Appare subito evidente che la D20 non può che rappresentare una sorta di trampolino di lancio sperimentale, trattandosi di un modello con potenza non sufficiente a contrastare le marche più blasonate (Ferrari in primis) e già nella primavera del 1953, Gianni Lancia ritiene imprescindibile far trasformare la sua “arma” da coupé in spider, per risparmiare in peso ed incrementare le doti di agilità. L'esordio delle prime due D23 (modello che in definitiva altro non è se non una D20 privata del padiglione) avviene a Monza il 29 giugno 1953, due giorni appena dopo la loro targatura, ma ottengono soltanto due piazze d'onore nelle due “manches” in cui si articola la gara monzese. Ma la D23 non porta a casa risultati di rilievo, anche perché è ben presto posta in pensione, soppiantata dalla nuova più moderna D24.

La D24, universalmente giudicata come una tra le più belle vetture da corsa del periodo (e di sempre), si presenta con una livrea di tutto rispetto, una linea slanciata ed armoniosa che migliora l'estetica già apprezzabile della D23 e che naturalmente è sempre dovuta alla matita del “maestro” tra i carrozzieri dell'epoca, Pininfarina. La D24, che raggiungerà fama internazionale dopo la strepitosa vittoria alla Carrera Panamericana nel novembre 1953 (che le meriterà la denominazione di Lancia D24 Carrera), calcherà la scena fino al termine della stagione 1954 ottenendo parecchie affermazioni di prestigio (Mille Miglia, Targa Florio, Giro di Sicilia, ecc) e verrà anche equipaggiata – nelle ultime uscite – dal motore da 3,7 litri costruito per la macchina destinata a sostituire la D24, ovvero la D25. Tra la fine del 1953 ed i primi mesi del 1954 la Lancia, constatato che la potenza delle D24 da 3,3 litri è insufficiente a fronteggiare la concorrenza, mette allo studio un motore di maggior cilindrata (3,7 litri) - denominato D25 - che, montato su una D24, debutta senza troppa fortuna il 27 giugno 1954 al Gran Premio di Oporto.

Questo progetto non procede con le necessarie rapidità e determinazione in quanto il secondo semestre del 1954 è caratterizzato da una buona dose di incertezza circa la futura attività sportiva della casa torinese, che alla fine decide di abbandonare il settore delle macchine sport. Nel frattempo, però, si sta attuando il progetto per realizzare il bolide (denominato D50) destinato a correre nella massima formula, la Formula Uno. La monoposto D50 di Formula Uno del 1954 ora conservata al Museo dell'Automobile di Torino Vittorio Jano, termina la progettazione esecutiva nel settembre 1953. Il problema piloti è presto risolto, dal momento che Gianni Lancia riesce a convincere della bontà del progetto due nomi altisonanti: Alberto Ascari e Luigi Villoresi. La monoposto della casa torinese fa la sua prima uscita il 20 febbraio 1954: la caratteristica più saliente del nuovo bolide risiede nella sistemazione dei serbatoi del carburante, collocati, uno per lato, a sbalzo del corpo della vettura, tra le ruote anteriori e quelle posteriori. Il motore, ad alimentazione atmosferica, è un 8 cilindri a V di 90° da 2,5 litri di cilindrata, limite fissato dal regolamento della Formula Uno in vigore dal 1º gennaio 1954. Le sospensioni sono a ruote indipendenti all'avantreno, a ponte De Dion al retrotreno. Il gruppo frizione/cambio/differenziale è al retrotreno. Il cambio, disposto trasversalmente, è a 5 rapporti. La gestazione della D50 è però lunga e travagliata. La prima “uscita” reca la data del 20 febbraio 1954 ma il debutto, inizialmente previsto per il 20 giugno (Gran Premio di Francia), viene via via rimandato ed avverrà con quattro mesi di ritardo, il 24 ottobre, a Barcellona (Gran Premio di Spagna). Dopo il GP di Spagna dell'ottobre 1954, nel 1955 le D50 disputano, con alterna fortuna, altri 5 Gran Premi (Argentina, Torino, Pau, Napoli, Monaco) poi, dopo la morte del pilota di punta Ascari la Lancia annuncia la sospensione dell'attività agonistica, evento che avviene pressoché in contemporanea con l'abdicazione di Gianni Lancia. Il 26 luglio, in virtù di un accordo a tre (Lancia, Fiat e Ferrari), sei monoposto D50 complete (più due scocche, parti di ricambio ed altro materiale) vengono cedute gratuitamente alla Ferrari. L'anno successivo - 1956 - le D50, che ormai vengono identificate come Ferrari-Lancia, subiscono modifiche non solo marginali e si aggiudicano il Campionato Mondiale di Formula Uno 1956, grazie anche all'apporto del super-campione del momento, l'argentino Juan Manuel Fangio.

Sotto il profilo aziendale, il 1954 è per la Lancia, un anno difficile: le vendite dell'Aurelia (malgrado il lancio della seconda serie berlina) procedono a rilento, mentre quelle della più recente Appia non raggiungono i numeri sperati, segno evidente che i successi delle D23 e D24 in campo internazionale non hanno aiutato ad incrementare i volumi di vendita delle vetture di serie, e Gianni Lancia, già alle prese con le problematiche legate alla D50 di Formula Uno, comincia a pensare seriamente all'ipotesi di cedere le proprie azioni. Il 22 maggio 1955, a Montecarlo, Ascari finisce in mare con al sua D50, poi, appena 4 giorni dopo, il fatale incidente. Eugenio Castellotti (impegnato con la Lancia soltanto per la Formula Uno) sta provando una Ferrari sport da 3 litri, del tipo 750S. Lo raggiunge Alberto Ascari, invitato telefonicamente dallo stesso Eugenio ad assistere a questi test. Con Alberto è anche l'amico e “collega” di sempre Luigi Villoresi. Inaspettatamente, Ascari (che è partito da casa per un semplice incontro tra amici, come conferma il fatto che addirittura indossa la cravatta) chiede di poter effettuare un paio di giri. Nessuno ha il coraggio di negare ad Ascari questo “capriccio” - benché la macchina appartenga ad una scuderia avversaria - e lo stesso Castellotti cede momentaneamente il suo casco al bi-campione del mondo. Ascari sale in macchina, compie un primo giro d'assaggio, poi si lancia in velocità. Alla curva del vialone, apparentemente senza una ragione precisa, sbanda e vola fuori dalla pista. La macchina finisce la sua corsa, a ruote all'aria, tra il verde e gli alberi del parco. Ascari è proiettato fuori dalla vettura e muore praticamente sul colpo. La verità su questo tragico incidente non si saprà mai, anche se l'ipotesi più accreditata parla di due operai che hanno attraversato imprudentemente la pista qualche attimo prima del sopraggiungere di Alberto che avrebbe frenato e sterzato violentemente per non investirli innescando la paurosa e fatale sbandata. L'annuncio che segue alla morte di Ascari, pur scarno, anticipa "tutto" ciò che sta accadendo in casa Lancia. "La scuderia Lancia, in seguito alla morte del suo capitano, Alberto Ascari, ha deciso di sospendere la sua attività agonistica. Il pilota Eugenio Castellotti ha richiesto di poter partecipare, a titolo personale, al Gran Premio del Belgio a Spa, e l'ing. Gianni Lancia, prima di imbarcarsi per l'America, gli ha concesso vettura ed assistenza". Vengono dunque annunciate: la morte del pilota di punta (Ascari), la sospensione dell'attività agonistica, l'autorizzazione a Castellotti e la partenza per il Sud America dell'ing. Gianni Lancia, un viaggio che sancisce la conclusione dell'avventura dell'ingegnere in seno alla casa che reca il suo nome. In quegli stessi giorni, infatti, la famiglia lombarda Pesenti (proprietaria anche dell'Italcementi) sta trattando per rilevare la maggioranza azionaria Lancia e pare pretenda dalla Signora Adele Lancia, che al momento mantiene la Presidenza, l'allontanamento del figlio Gianni. Il passaggio dell'intera proprietà al gruppo Pesenti si completerà nel 1958, ma nel frattempo la famiglia Lancia è di fatto estromessa da qualsiasi posizione di potere. Pur non essendo quasi mai riuscita ad accumulare utili in quel periodo, Lancia poté sfornare molte automobili eleganti e tecnicamente raffinate, riconoscendo il merito di "mecenatismo industriale" alla proprietà Pesenti.

Anche nel secondo dopoguerra la gamma di veicoli costruiti e venduti dalla Lancia comprenderà - fino al termine degli anni'60 e cioè fino al momento dell'assorbimento della Casa da parte della Fiat - oltre alle autovetture, anche veicoli industriali (autocarri ed autobus), apprezzati per le caratteristiche tecniche ma anche per un'estetica davvero accattivante. In particolare tra la fine degli anni'50 ed i primi anni'60 Lancia sviluppa e rinnova la produzione di camion, compresi modelli stradali medi e pesanti come gli Esatau e gli Esagamma, concorrenti lussuosi dei vari Fiat e OM.

Aurelia ed Appia furono rimpiazzate nel decennio successivo dalla Flaminia e Fulvia, anch'esse con una storia gloriosa: una Flaminia fuoriserie nera è ancora oggi la vettura da parata della presidenza della Repubblica, mentre la Fulvia ebbe una bellissima variante coupé portata sul gradino più alto del podio in molti rally memorabili. Alla fine del 1960 nasce invece la Flavia, creata dal prof. Antonio Fessia, la prima vettura italiana di serie a trazione anteriore.

Nel 1969, la famiglia Pesenti cedette la marca a prezzo simbolico al gigante torinese, che in quello stesso anno comprò anche Autobianchi e Ferrari. I primi modelli nati sotto l'egida Fiat furono la Beta-Trevi (berlina, coupé, decappottabile e fast-back HPE) e la Gamma come ammiraglia di lusso. In essi scompare parte dell'originalità Lancia, ma le sinergie industriali permisero un migliore controllo dei costi. L'immagine della marca continuò ad essere legata alle corse, come ben testimonia la Lancia Stratos, una straordinaria macchina da rally a motore 6 cilindri Ferrari-Dino, campione del mondo 1977 e oggetto di culto per gli appassionati. Ma il vero jolly commerciale fu trovato tre anni più tardi: la compatta Delta, disegnata da Giugiaro su base meccanica Fiat Ritmo (ma ampiamente rimaneggiata dalla allora ancora esistente Lancia spa con il suo staff tecnico indipendente) e presentata nel 1979, fu la prima auto ad avere a quei tempi la convergenza regolabile su tutte e quattro le ruote, infatti adottava anche per il retrotreno un sistema di sospensioni progettato dall'Ing. Camuffo, notevole evoluzione del McPherson. Essa fu un successo clamoroso, rimasto in produzione per quattordici anni, con versioni sportive a trasmissione integrale che fecero incetta di titoli mondiali rally: sei consecutivi dal 1987 al 1992. La Prisma (poi sostituita dalla Dedra) che affianca la Delta come auto di classe media, la Thema (poi sostituita dalla K) come ammiraglia dal grande successo e la Y10 che venne venduta in Francia, Italia e Germania con il marchio Autobianchi furono gli altri modelli coevi. Gli anni ottanta sono l'apogeo commerciale della marca, che entrò nei primi quindici costruttori in Europa, allorché l'intero gruppo Fiat occupava il primo posto davanti a Volkswagen.

a Lancia ha molto sofferto della grave situazione finanziaria che ha attraversato il Gruppo Fiat dal 2000 al 2004 e a tutt'oggi è nel gruppo il marchio con la gamma più ristretta, anche se con buoni risultati commerciali e in piena fase "programma di rilancio". La Lancia Delta La Lancia Phedra La gamma Lancia è formata per gran parte da modelli costruiti su base in comune con le altre vetture del Gruppo Fiat, ridisegnati e rivisitati e con opportune modifiche anche tecniche al fine di creare prodotti più lussuosi rispetto a quelli base dai quali derivano. L'ammiraglia della Lancia, la Thesis, invece aveva un telaio tecnico specifico: si trattava di un'auto con grandi ambizioni stilistiche, finiture di qualità e molte innovazioni tecnologiche non prive di difetti di gioventù, che però non ha trovato grande accoglienza da parte del pubblico ed è stata ritirata dal catalogo nell'estate del 2009. L'azienda trae profitto dalle più piccole Ypsilon (venduta in Italia in più di 300 mila unità dal suo lancio nel 2003) e dalla monovolume compatta Musa (derivata dalla Fiat Idea e diventata la più venduta in Italia nel suo segmento)[1]). La gamma è completata dalla grande monovolume Phedra modello gemello della Fiat Ulysse. Modello sicuramente determinante per la casa, che ha fatto molto discutere e ha portato molto interesse attorno a se durante il suo lancio è stata sicuramente la terza generazione della Lancia Delta, vettura dal design molto ricercato e "personale" di forte impatto stilistico che sarà la capostitipe dei futuri modelli Lancia. Anche alcuni motori utilizzati sono in comune con quelli delle altre vetture del gruppo Fiat: i 1.2, 1.4 16v e 1.3 multijet, da 65 a 105cv, per le utilitarie, i 2.0 turbo, 3.2 v6 2.0 multijet, 2.4 jtd, da 185 e 2.2 multijet da 170cv (Phedra my'08), per le auto del segmento più alto. Il 1.9 MJT Twinturbo da 190 CV e il potentissimo 1.8 Di-Turbojet da 200 CV debuttano proprio con la nuova Lancia Delta. Per la mostra del cinema di Venezia del 2009, di cui Lancia è uno dei principali sponsor, la casa apre un orizzonte, quello della nautica, che non aveva mai esplorato. Presenta infatti un motoscafo da 1120 cavalli costruito con un'azienda del campo nautico e utilizzato per il trasporto delle star per i canali della città sull'acqua. È dotato di numerosi comfort quali angolo cottura, televisore e, ovviamente, un confortevole salotto[2]. Nel futuro della casa si prospetta un consistente allargamento della gamma grazie alle sinergie con il Gruppo (e soprattutto il marchio) Chrysler. Tra il 2011 e il 2012, infatti, saranno disponibili una nuova berlina di segmento D, declinata anche in versione Cabrio, una grande berlina di segmento E, erede della Thesis, un probabile crossover/SUV, la nuova Ypsilon con carrozzeria a 5 porte nonché l'erede della Phedra, su base Chrysler Voyager.

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