LANCIA La
Lancia è una delle più famose, antiche e prestigiose case
automobilistiche italiane. Nata a Torino nel 1906, nel 1986 la
società fu chiusa per formare insieme ad Alfa Romeo la nuova
entità Alfa-Lancia Industriale S.p.A., che in seguito scomparve
a sua volta per venire assorbita dalla Fiat Auto S.p.A. Nel
2007, in seguito ad una riorganizzazione nel panorama
automobilistico italiano, fu creata la divisione Lancia
Automobiles S.p.A. facente parte della Fiat Group Automobiles
S.p.A.
L'atto
costitutivo della Lancia reca la data del 29 novembre 1906: quel
giorno, in Torino, il regio notaio Ernesto Torretta formalizza
la costituzione di una società in nome collettivo, da parte di
Vincenzo Lancia e Claudio Fogolin: la denominazione dell'azienda
era Lancia & C. Il numero di repertorio dell'atto (su carta da
Bollo da 1 Lira) era il 1304 Il capitale iniziale era di modesta
entità (100.000 Lire) ed i due soci vi avevano partecipato con
un 50% a testa. Vincenzo Lancia era già molto noto nell'ambiente
automobilistico (non solo italiano) in virtù delle prestigiose
affermazioni sportive colte, a partire dal 1900, al volante di
vetture Fiat. Claudio Fogolin era invece, più semplicemente, un
buon amico del Lancia: i due si erano conosciuti alla Fiat, dove
entrambi prestavano la loro opera. Ritenendo - non a torto - di
poter sfruttare il suo nome per ottenere un sicuro successo
commerciale, il Lancia aveva deciso da tempo di passare al ruolo
di costruttore: tuttavia, prudentemente, non aveva affrettato i
tempi, preferendo restare ancora qualche anno in seno alla Fiat
per incrementare la sua popolarità e accumulare i capitali
minimi necessari per avviare la sua impresa. La neonata società
prendeva in affitto una prima officina (un vecchio capannone
occupato sino a qualche mese prima da un'altra fabbrica
automobilistica torinese, la Itala), in via Ormea angolo
via Donizetti.
Vincenzo Lancia
affida al conte Carlo Biscaretti di Ruffia - un appassionato
dell'automobile sin dalla prima ora - l'incarico di studiare un
marchio capace di far riconoscere il nome "Lancia" al primo
colpo d'occhio. Il conte predispose cinque disegni, tra i quali
Vincenzo scelse quello che - includendo nome, bandiera e volante
- meglio avrebbe rappresentato la filosofia Lancia.
Malgrado gli
inevitabili ritardi determinati da un incendio che, nel febbraio
1907, aveva distrutto disegni e modelli di fonderia danneggiando
il macchinario, il primo prodotto (o meglio prototipo) Lancia
usciva nel settembre di quello stesso 1907. Pare che lo
stabilimento di via Ormea avesse però la porta troppo stretta e
che si sia dovuto procedere ad un frettoloso allargamento a
colpi di piccone per consentire alla prima Lancia di poter
effettivamente lasciare l'officina e lanciarsi finalmente lungo
la strada aperta. La produzione vera e propria iniziava comunque
nel 1908, anno in cui questo primo chassis Lancia veniva esposto
all'VIII Salone dell'automobile di Torino (18 gennaio-2
febbraio) con la denominazione di 12 HP: da notare che la
denominazione d'officina era "tipo 51" e che la vettura sarà
ribattezzata Alfa quando, nel 1919, il fratello del costruttore,
Giovanni (studioso di lingue classiche), suggerirà a Vincenzo di
utilizzare le lettere dell'alfabeto greco per contraddistinguere
i diversi modelli, a partire da quello iniziale. Come del resto
si poteva prevedere, la 12 HP era un prodotto abbastanza fuori
degli schemi: aveva uno chassis piuttosto basso e leggero,
munito di trasmissione a cardano (anziché le "solite" catene) e
dotato di un motore a 4 cilindri biblocco di 2545 cc rotante ad
un regime di circa 1800 giri al minuto (un valore decisamente
elevato per l'epoca) capace di spingere la vettura sino a circa
90 chilometri all'ora. La rivista inglese Autocar, dopo aver
effettuato una sorta di “prova su strada” della 12 HP
nell'autunno del 1907, definiva la vettura silenziosa, elastica,
ben progettata e superbamente rifinita.
Nell'estate del
1908 alla 12 HP si affiancava la 18/24 HP (tipo 53,
successivamente ribattezzata Dialfa), una vettura ancora più
ardita della sorella minore, azionata da un motore a 6 cilindri
(tre blocchi da 2 cilindri) che le consentiva di raggiungere una
velocità massima prossima alle 70 miglia orarie (110 chilometri
orari) Malgrado qualche critica venuta soprattutto dagli
ambienti tecnici, la 12 HP otteneva un bel successo e, visto che
se ne venderanno 108 esemplari (alcuni esportati in Inghilterra
e negli Stati Uniti d'America). Come prevedibile, il successo
della 18/24 HP è numericamente meno eclatante, giacché se ne
produrranno appena 23 unità. Il primo stabilimento Lancia (1906)
I locali in cui la Casa aveva iniziato l'attività risultavano
subito insufficienti e già nel 1908 veniva preso in affitto un
secondo edificio (sempre in corso Dante) da utilizzarsi per le
messe a punto ed i collaudi: poco più di due anni dopo, nel
gennaio 1911, la sede della Lancia veniva definitivamente
trasferita in Via Monginevro (Borgo San Paolo) e l'area occupata
dallo stabilimento risultava di quasi 27.000 metri quadrati.
Interessante sottolineare il costante ampliamento dell'area
occupata dagli stabilimenti, già in questi primi anni di
attività: nel 1906, la superficie occupata era di 888 metri
quadrati, diventati 976 l'anno successivo e 1.584 nel 1908. Nel
1909-10 la superficie raddoppiava e arrivava a 3.300 m2: nel
1911, tra aree coperte e scoperte, la superficie complessiva
pare fosse di circa 60.000 metri quadrati.
Ma intanto la
produzione di vetture proseguiva, aggiornandosi anno dopo anno.
Dal punto di vista tecnico, una svolta di una certa importanza
si aveva nel 1909, quando usciva la 15/20 HP (Tipo 54, poi
Beta), caratterizzata dall'adozione del motore monoblocco e da
un (voluto) abbassamento del regime di rotazione (limitato a
1500 giri al minuto). Al Tipo 54 faceva seguito, nel 1910, la 20
HP (tipo 55, Gamma), che si differenziava dal modello precedente
per un ulteriore incremento della cilindrata, che passava da
3119 a 3456 cc. con il conseguente aumento della potenza (e
delle prestazioni velocistiche). Nel nuovo stabilimento di Via
Monginevro vedevano la luce, già nel 1911, la 20/30 HP (tipo 56,
Delta) affiancata, pare, da un tipo spinto (Didelta,
probabilmente tipo 57) costruito in pochissimi esemplari e
destinato all'impiego sportivo. Sotto il profilo tecnico, la
Delta offriva, oltre ad un incremento di potenza davvero
sostanzioso, una interessante innovazione: l'alimentazione
mediante pompa (anziché a caduta).
Seguivano poi:
una nuova 20/30 HP (tipo 58, Epsilon) prodotta nel 1911/12,
molto simile alla Delta, dalla quale differiva per poche
modifiche di dettaglio e per le dimensioni del telaio e la 35/50
HP (tipo 60, Eta) prodotta nel triennio 1911/13 che si
affiancava alla 20/30 HP e che era caratterizzata da un telaio
corto e leggero e che portava con sé, come innovazione, la
frizione "a secco" (anziché a bagno d'olio). Malgrado la
cilindrata più contenuta (2614 cm3) scarso successo incontrava
invece la 12/15HP (tipo 59,Zeta) costruita nel triennio 1912/14:
da osservare che la vettura montava un curioso ed inedito
sistema di trasmissione (un cambio a due rapporti accoppiato ad
un doppio rapporto pignone-corona). Ed eccoci al primo modello
Lancia di vero, inconfutabile successo internazionale, la 25/35
HP (tipo 61, Theta) che veniva lanciata nel 1913 e che era
destinata a sopravvivere alla Prima guerra mondiale restando in
produzione sino al 1918 (per un totale, non da poco per l'epoca,
di 1696 unità). Questo apprezzatissimo modello, potente e
veloce, passava poi alla storia quale prima autovettura
commercializzata con impianto elettrico completo, incorporato e
comprensivo di motorino d'avviamento.
Sin dai primi
anni di vita, le vetture Lancia si distinguevano nelle
competizioni di velocità anche se il patron - malgrado i
trascorsi da corridore professionista - non riteneva opportuna
una partecipazione diretta alle corse nel timore che l'impegno
tecnico ed economico derivante dall'attività agonistica nuocesse
alla qualità della produzione di serie. Egli stesso conduceva
raramente le sue creature: il 5 aprile 1908 si aggiudicava
comunque il primo posto di classe sui 20 chilometri del tratto
rettilineo Padova-Bovolenta con una media (nei 10 km del tratto
di ritorno) di quasi 89 km all'ora, mentre due anni dopo, l'8
maggio 1910 a Modena, otteneva la miglior prestazione nella
propria categoria (vetture con alesaggio da oltre 95 a 100mm)
spiccando un ottimo tempo (49” 2/5 sul miglio lanciato,
corrispondenti a 117,280 km di media oraria). Nel 1908, suo
primo anno di attività sportiva, la Lancia coglieva due
significative affermazioni negli Stati Uniti per merito di
William Hilliard che si piazzava al terzo posto assoluto a Long
Island nella Meadowsbrook Sweepstakes del 10 ottobre e faceva
sua, il 25 novembre, la International Light Car Race a Savannah
(Georgia). Nel 1909, nella IV edizione della Targa Florio (il 2
maggio), Guido Airoldi chiudeva al 3º posto assoluto mentre una
settimana dopo, in una gara sul miglio lanciato indetta a
Modena, Gerolamo Radice era primo nella III categoria (12º
assoluto) a 90,951 km/h di media; nella stessa occasione si
distingueva anche un'altra Lancia, con Armando Bacchi, quarto di
categoria e 13º assoluto. Il 5 settembre 1909, nella famosa
salita al Mont Véntoux in terra di Francia, Tangazzi si
aggiudicava la propria classe (la III) impiegando 20'15” 2/5 per
percorrere i 21600 metri di salita, ottenendo quindi la media di
km/h 63,978: una prestazione eccezionale, che lo proiettava al
quarto posto della classifica assoluta. Tra le affermazioni del
1909, da registrare quelle ottenute in Inghilterra dove il
concessionario locale, F.L. Stewart, iscriveva alcune Lancia a
diverse gare: una vettura, (probabilmente una 12 HP) vinceva una
corsa in salita ad handicap nel Galles, poi, in maggio,
all'autodromo di Brooklands, lo stesso Stewart era primo
assoluto nella Regent's Cup. Seguivano, in giugno, un secondo
posto di Ward nella corsa in salita di Rivington Park ed una
vittoria di Stewart nello Scottish AC Trial. Nel 1910 oltre al
già citato successo di Modena ottenuto da Vincenzo Lancia, si
aveva la decisamente più importante affermazione di Billy
Knipper nel Tiedmann Trophy (Savannah, 12 novembre).
Nel 1911 Mario
Cortese otteneva una onorevolissima piazza d'onore nella
impegnativa VI edizione della Targa Florio che si disputava, il
14 maggio, su 3 giri del circuito delle Madonie per una distanza
totale di quasi 447 chilometri. Ancora nel 1911, Tangazzi si
piazzava al 3º posto di classe al Mont Ventoux mentre in ottobre
R. Gore Browne otteneva il 2º posto in una gara a Brooklands (Easter
Meeting). Altra prestazione degna di rilievo era ottenuta dalla
Lancia dell'equipaggio Agostino Garetto-Ernesto Guglielminetti
nel massacrante 1º Giro di Sicilia del maggio 1912 (un migliaio
di chilometri da percorrersi senza frazionamenti): i due si
piazzavano al 2º posto assoluto, mentre una seconda Lancia (Norman
Olsen-Travaglia) giungeva in 7ª posizione. Anche la 2ª edizione
del Giro di Sicilia del maggio 1913, che si disputava sullo
stesso percorso dell'anno precedente (ma in due tappe) vedeva
una Lancia in evidenza: era quella del focoso Pietro Bordino, il
quale, dopo un avvio decisamente brillante (era terzo assoluto
al termine della prima frazione) nel corso della seconda tappa
usciva di strada ritrovandosi con la vettura malconcia ed il
serbatoio forato; otturato il serbatoio alla meno peggio grazie
ad un tappo di sughero avuto da contadini accorsi sul luogo
dell'incidente, Bordino riusciva a proseguire ma,
inevitabilmente, la sua posizione in classifica crollava
paurosamente e finiva col piazzarsi all'ottavo posto.
La Corsa del
chilometro lanciato organizzata a Vercelli nel luglio 1913 era
l'ultima manifestazione anteguerra che vedeva in gara una
Lancia: la vettura otteneva un buon piazzamento (secondo o terzo
posto tra le vetture da “turismo”, il dato è incerto) ma
misteriosa rimane l'identità del conduttore (talune fonti
riportano addirittura il nome di Vincenzo Lancia).
A partire dal
1912 la Casa torinese costruiva (in 91 esemplari, sino al 1916)
il suo primo autocarro militare l'1Z, subito utilizzato con
piena soddisfazione dall'Esercito Italiano nella guerra in
Libia. Allo scoppio della Prima guerra mondiale, la Lancia
veniva decretata Stabilimento ausiliare di guerra per cui tutte
le energie della fabbrica dovevano essere indirizzate allo
sforzo bellico della nazione: si accantonava il progetto di un
motore ad 8 cilindri a V appena brevettato e si ridimensionava
il programma produttivo della Tipo 61 (25/35 HP-Theta), che però
continuava a venir costruita soprattutto per i servizi dei
comandi militari. Dovendosi dedicare agli autocarri militari, la
Lancia – già fornitrice all'esercito dell'1Z – non aveva
difficoltà ad aggiungere due nuovi modelli e, nel 1915, all'1Z
affiancava lo Jota e il Diota, con uguale motore a 4 cilindri di
4942 cm3, ma con telaio di passo diverso (mt 3,35 l'1Z, mt 3,60
lo Jota, mt 3,00 il Diota)
Negli anni del
primo conflitto mondiale i veicoli Lancia destinati all'impiego
militare ottenevano un notevole successo: gli autotelai Jota,
Diota e 1Z vengono carrozzati (soprattutto dagli Stabilimenti
Farina) come autocarri e per trasporto artiglierie; in
collaborazione con l'Ansaldo venivano altresì realizzate alcune
autoblinde armate. Conseguentemente anche gli impianti
industriali erano stati oggetto di potenziamento: nel 1919
l'area occupata dagli stabilimenti nel Borgo San Paolo
raggiungeva circa 60 mila metri quadri. Nell'agosto 1918,
intanto, il socio di Vincenzo Lancia - Claudio Fogolin - si
ritirava (pare a causa di un dramma familiare) consolidando
peraltro un consistente capitale. Vincenzo Lancia era
preoccupato: consapevole che si rendeva necessaria la
riconversione degli impianti (che dovevano evidentemente tornare
a produrre automobili per usi civili) temeva di non poter
garantire la piena occupazione agli operai, a meno di non
intraprendere la produzione e la vendita di vetture in quantità
significativamente maggiori rispetto all'anteguerra.
Il primo modello
che andava in quella direzione era la nuova Kappa, lanciata nel
1919; si trattava di una 4 cilindri chiaramente derivata dalla
sperimentata 25/35 HP Theta, quindi potente (70 HP) e veloce
(125 km/h) ma anche caratterizzata da almeno tre innovazioni
degne di menzione: il motore con testata separata (anziché fusa
in blocco col corpo cilindri), il comando del cambio con leva
posizionata al centro (tra i due sedili anteriori) e l'abbandono
delle ruote in legno (erano disponibili, di serie, le ruote a
disco in lamiera oppure, a richiesta, a raggi). In quello stesso
1919, ai Saloni di Parigi e di Londra, la Lancia esponeva uno
superbo chassis munito di un motore con basamento fuso in blocco
unico, a 12 cilindri a V (due bancate, ciascuna di 6 cilindri,
con apertura di 20°) di notevole cubatura (due le cilindrate
previste, una di 6031,86 cm3 data da un alesaggio di mm 80 ed
una corsa di mm 100,ed una di 7841,41 cm3 data da una corsa
portata a mm 130) con distribuzione a valvole in testa ed
erogante una potenza stimata, per il 7,8 litri, in 150 HP a 2200
giri. Interessante la genesi di questo prodotto Lancia: nel
1914-15, quasi in concomitanza con lo scoppio della prima guerra
mondiale, la casa torinese era costretta ad accantonare il
progetto per un motore ad 8 cilindri a V che stava elaborando
(brevettato comunque nel giugno 1915): l'idea del motore con
cilindri a V veniva ripresa nel 1918 e dava origine a due
progetti (settembre 1918) relativi ad un 8 cilindri con apertura
a V di 45° e ad un 12 cilindri con l'apertura a V di 30°, dal
quale derivava, l'anno successivo, l'esemplare di 7,8 litri.
Nonostante i lusinghieri commenti della stampa specializzata, la
12 cilindri Lancia non avrà seguito produttivo: motivi fiscali e
la consapevolezza di dover fare i conti con un mercato nazionale
ancora poco ricettivo per un prodotto dal costo verosimilmente
proibitivo, indurranno Vincenzo Lancia a desistere dalla
produzione in serie di questo modello (il cui propulsore,
peraltro, pareva affetto da seri problemi di carburazione). Il
1919, comunque, non era per la Lancia un anno fortunato: per la
prima volta dalla fondazione, la produzione diminuiva rispetto
all'anno precedente (il calo era del 20%, da 894 a 717 unità) e,
soprattutto, l'esercizio si chiudeva con una perdita sostanziosa
(un milione e mezzo di Lire). Il successo della Kappa porterà la
Casa torinese a superare per la prima volta, nel 1920, la soglia
dei 1.000 autoveicoli costruiti nell'arco di 12 mesi (1.130
esattamente gli esemplari usciti dalla fabbrica) ma i due anni
successivi, malgrado l'uscita della Dikappa nel'21 e della
Trikappa l'anno dopo, andranno considerati quasi di transizione:
sarà poi la rivoluzionaria Lambda, venduta a partire dal 1923, a
rilanciare definitivamente la Lancia.
Ma, tornando al
1921: usciva la Dikappa, che altro non era se non la versione
sportiva della Kappa, alla quale si affiancava e dalla quale
differiva soprattutto per il motore la cui distribuzione era ora
del tipo a valvole in testa e consentiva di incrementare la
potenza (da 70 a 87 HP) e le prestazioni (da oltre 120 a oltre
125 km/h). La Dikappa aveva vita breve (grosso modo 1 anno)
perché nel 1922 Vincenzo Lancia, in attesa di ultimare i
collaudi della Lambda, decideva di immettere sul mercato (sempre
comunque a fianco della Kappa) la sua prima vettura con
disposizione dei cilindri a V: si trattava della Trikappa, che
disponeva di un 8 cilindri a V stretto a valvole in testa che,
malgrado una leggera diminuzione della cilindrata, portava la
potenza a sfiorare i 100 HP e consentiva alla possente vettura
di raggiungere e talvolta superare la soglia dei 130 km all'ora.
La Trikappa verrà prodotta in due serie successive sino al 1925,
per un numero complessivo di unità davvero non disprezzabile di
847: da notare che inizialmente la vettura denunciava qualche
problema di frenatura per cui la Casa correva ai ripari e nel
1923 dotava la Trikappa di freni a tamburo anche sulle ruote
anteriori; si avrà così un deciso rilancio commerciale del
modello. Con la cessazione della produzione della Dikappa, di
fatto si chiudeva quello che può considerarsi il primo ciclo di
fase tecnica della Lancia anche se il concetto tradizionale del
telaio verrà naturalmente mantenuto nella costruzione degli
autocarri. Ed eccoci alla Lambda, il primo dei due capolavori di
Vincenzo Lancia (il secondo sarà, nel 1936, l'Aprilia):
effettivamente le idee messe in atto con questo modello si
riveleranno qualcosa di profetico, schiudendo orizzonti
impensati. La Lambda nasceva ufficialmente nell'autunno del
1922, quando veniva esposta ai Saloni di Parigi e Londra ma la
produzione vera e propria (e le consegne) iniziavano verso la
metà del 1923. L'atto di nascita della Lambda risaliva però
all'immediato dopoguerra, esattamente al 7 dicembre 1918, giorno
in cui Vincenzo Lancia depositava la richiesta per il brevetto
(rilasciato poi il 28 marzo 1919, col numero 171922) di un nuovo
modello di autovettura: il veicolo rappresentato negli schizzi
tecnici aveva la forma di un fuso, radiatore di forma circolare,
la sospensione anteriore (semi-indipendente) a balestra
trasversale, ma la caratteristica più rivoluzionaria era la
soppressione del telaio convenzionale a longheroni sostituito da
una membratura portante in lamiera imbutita disposta in maniera
tale da far lavorare la scocca della vettura come una trave
unica. Il pianale risultava sensibilmente abbassato perché
l'albero di trasmissione, abbandonata la classica sistemazione
al di sotto del pavimento, era qui posizionato in un tunnel che
passava all'interno dell'abitacolo (i passeggeri, dunque,
venivano a sedere ai lati dell'albero di trasmissione anziché al
di sopra di esso). In pratica, Vincenzo Lancia aveva inventato
la scocca portante. Nel 1921, La Lambda prendeva forma: sotto
l'occhio vigile del Lancia, i progettisti Rocco e Cantarini
realizzavano il motore a 4 cilindri a V stretto rotante al bel
regime di 3250 giri, mentre Scacchi (responsabile del reparto
esperienze) ne eseguiva la messa a punto. Il 1º settembre 1921
il primo prototipo Lambda era pronto e Vincenzo in prima persona
iniziava i collaudi nei dintorni di Torino. Laboriosa si
rivelerà in particolare la messa a punto della sospensione
anteriore: poiché il sistema scelto - la famosa sospensione a
ruote indipendenti - era del tipo “a cannocchiale” (montanti
telescopici con molle elicoidali disposte concentricamente ai
montanti) non si poterono montare i soliti ammortizzatori a
frizione e si dovette studiare l'adozione di un tipo di
ammortizzatore idraulico a sua volta concentrico alla molla
della sospensione. Grazie alla sospensione a ruote indipendenti
ed alla rigidità della scocca, la tenuta di strada della Lambda
risulterà di gran lunga superiore a quella delle altre
automobili contemporanee, in particolare sui fondi sconnessi
(ovvero sulla stragrande maggioranze delle strade dell'epoca)
tanto da farne una vettura dalle prestazioni “stradali”
notevoli, malgrado una potenza del motore buona ma non eccelsa
ed una velocità massima che, nelle prime serie, sarà inferiore
ai 115 km/orari (nelle serie successive, salirà poi sino ad
oltrepassare la soglia dei 120 all'ora) Parecchie Lambda vennero
impiegate nelle competizioni dove, a partire dalla seconda metà
degli anni'20, si distinsero nella loro classe di cilindrata (la
classe “3 litri” dei gruppi Turismo e Sport): non si possono
sottacere le grandi performances delle Lambda alla massacrante
Mille Miglia: nelle prime due edizioni della corsa (1927 e 1928)
la Lambda rischiò addirittura di ottenere la vittoria assoluta,
aggiudicandosi comunque la propria classe ("3litri") e
pizzandosi al 4º e 5º posto della graduatoria generale (nel
1927) ed al 3º posto (nel 1928). La Lambda avrà una vita
abbastanza longeva dal momento che sarà commercializzata in
Italia per oltre 8 anni, dalla metà del 1923 sino all'autunno
del 1931 quando, in occasione del Salone di Parigi, la Casa
torinese lancerà la più convenzionale ed economica Artena. Il
totale di esemplari costruiti in 9 serie successivi risulterà di
circa 13.000 (le diverse fonti forniscono dati discordanti ma le
differenze sono di poco conto, visto che si va da un minimo di
12999 ad un massimo di 13003 "pezzi"). Venduta ad un prezzo
elevato ma non proibitivo (in Italia la torpedo prima serie
costava 43.000 lire) la La Lambda ebbe successo anche sui
mercati esteri, dove venne venduta con una certa facilità:
mancano i dati riguardanti il periodo 1923-25, ma nel
quinquennio che va dal 1926 al 1930, le esportazioni assorbirono
più del 40% della produzione. Nel corso di questi otto anni,
tutta la vettura sarà oggetto di miglioramenti, ma le modifiche
più importanti saranno quelle apportate dalla 5ª serie (adozione
del cambio a 4 rapporti anziché a 3), dalla 6ª serie (nascita
della versione a passo allungato), dalla 7ª serie (aumento della
cilindrata da 2121 a 2375 cm3 e della potenza da 49 HP a 59,4 HP)
e dell'8ª serie (ulteriore incremento di cilindrata e potenza,
portate rispettivamente a 2569 cm3 e 69 HP).
Cessata
all'inizio del 1925 la produzione della "grossa" Trikappa,
ultima superstite delle Lancia del vecchio corso, per quasi
cinque anni la gamma di modelli della Casa torinese rimaneva
circoscritta alla sola Lambda, un modello che conferiva alla
Lancia fama internazionale e successo commerciale ma che non era
in grado di soddisfare la clientele più facoltosa – straniera in
particolare - che voleva una vettura di maggiore cilindrata e
prestigio. Nel 1926 iniziavano gli studi per progettare una
nuova 8 cilindri. Il progetto iniziale prevedeva un modello
abbastanza simile alla Lambda, con cilindrata attorno ai 3
litri. In quello stesso periodo un americano di nome Folcker,
visitando la fabbrica, conosceva il “patron” e non faticava
molto a convincerlo ad esaminare concretamente l'opportunità di
entrare con un suo prodotto nell'immenso mercato nordamericano.
Detto fatto, senza neppure avvertire i propri collaboratori più
stretti, Vincenzo Lancia faceva dirottare gli studi verso una
macchina più grande e, in considerazione della maggior mole
della vettura, prevedeva la necessità di accantonare la
struttura portante e tornare ad un telaio di impostazione più
classica, mantenendo tuttavia lo schema della sospensione
anteriore "a cannocchiale" a ruote indipendenti. Il lancio della
Dilambda (questo il nome della nuova creazione) sarà comunque
abbastanza travagliato, ritardato dalle vicende “americane” che
coinvolgeranno Vincenzo Lancia tra la fine del 1927 ed i primi
mesi del 1929. Dopo aver fondato (il 26 settembre 1927) la
Lancia Motors of America, il nostro imprenditore torinese si
recava a New York nel gennaio del 1929 per presenziare al
National Automobil Show dove era esposto un prototipo della
nuova ammiraglia Lancia ma riusciva rocambolescamente ad aver
salva la pelle solo nascondendosi in albergo e imbarcandosi
precipitosamente per l'Italia: pare infatti che il nostro
Vincenzo fosse stato oggetto di un raggiro culminato addirittura
in un tentativo di omicidio ordito forse dalla malavita locale.
Fallita (in tutti i sensi) l'esperienza americana, ecco che il
debutto in Europa della versione definitiva della Dilambda si
aveva al Salone di Parigi del 1929, come voleva la più classica
tradizione Lancia. Si trattava di una grossa unità mossa da un
motore ad 8 cilindri a V di 24° di circa 4 litri di cilindrata
erogante circa 100 HP a 3800 giri ma assai elastico e quindi in
grado di conferire alla vettura una ripresa eccezionale.
Malgrado il peso elevato la vettura superava i 120 chilometri
all'ora. La Dilambda verrà costruita sino al 1935. In totale se
ne produssero 1685 esemplari: non pochi considerando il genere
di automobile ed il fatto che l'uscita della nuova ammiraglia
venne a cadere quasi in contemporanea con il crollo di Wall
Street. La Dilambda ebbe anche a convivere – dal 1932 – con una
più piccola sorella ad 8 cilindri, la Astura, che sicuramente le
sottrasse una piccola fetta di mercato. Intanto, con
l'incremento dei ritmi produttivi, la Lancia ampliava la
superficie degli stabilimenti rilevando tra l'altro, nel 1928,
un'area contigua allo stabilimento della Chiribiri (che chiudeva
ufficialmente i battenti il 3 settembre di quello stesso anno).
Si trattava di una espansione progressiva ma se vogliamo
disordinata, nel senso che venivano acquisiti di volta in volta
terreni e fabbricati sparsi in qua e la per Torino, in aree
diverse anche se non troppo lontane dal nucleo centrale di Borgo
San Paolo. Nel 1930 la Lancia si trasformava in Società per
Azioni, ma il capitale rimaneva comunque nelle mani della
famiglia Lancia o di suoi amici più che fidati (i Vaccarossi).
In questo periodo – gli anni venti e trenta – la Casa torinese
dedicava una parte significativa degli investimenti al
potenziamento della rete di vendita. Nel 1921 venivano aperte
agenzie a Palermo ed a Napoli, mentre negli anni trenta si
inauguravano nuove filiali a Roma, a Padova, a Genova, a Torino.
Proseguivano intanto le iniziative Lancia all'estero: dopo la
Lancia Motors of America, il 5 settembre 1928 veniva fondata in
Inghilterra, sotto la denominazione di Lancia England, una
società avente un capitale nominale iniziale di 100.000 sterline
(9 milioni di lire dell'epoca): la società, che vivrà vicende
alterne, tutte peraltro scarsamente fortunate, finirà per
limitarsi a svolgere, sino allo scoppio della seconda guerra
mondiale, funzioni esclusivamente commerciali. Più interessante
l'attività che verrà svolta dalla Lancia automobiles, costituita
a Parigi il 1º ottobre 1931, che farà esordire in territorio
francese, rispettivamente nel 1932 e nel 1936, l'Augusta e l'Aprilia.
Sotto il profilo economico-finanziario, anche l'operazione-Francia
si risolverà alla fine in una perdita, malgrado la produzione di
circa 3.000 Belna e 1.600 Ardennes (nomi assegnati all'Augusta
ed alla Aprilia per il mercato d'oltralpe) negli anni dal 1934
al 1938. Per effetto dell'avventura coloniale italiana in
Africa, a partire dal 1935 venivano create filiali nei territori
dell'Africa Orientale Italiana e della Libia, in particolare a
Bengasi, Asmara, Addis Abeba, Tripoli e Dessié. Esauritosi il
quasi decennale ciclo della Lambda, al Salone dell'automobile di
Parigi dell'autunno 1931, la Lancia presentava due nuovi modelli
che andavano ad affiancare la grossa Dilambda: si trattava di
due sorelle (quasi gemelle), la prima una 4 cilindri di nemmeno
2 litri, la seconda una 8 cilindri di 2,6 litri. I telai delle
due nuove Lancia, che si ispiravano nel disegno generale alla
Dilambda (motore, avantreno ed altri particolari erano però
assolutamente diversi), differivano tra loro soltanto per il
motore e per il valore del passo (299cm la piccola Artena, 19cm
in più – onde poter ospitare il più ingombrante motore 8
cilindri - la sorella maggiore Astura). Terminato il periodo
dell'alfabeto greco, i nomi assegnati a questi nuovi modelli
passava alla serie di quelli tratti dall'antica civiltà italica:
Artena (nome di una città dei Volsci in provincia di Roma) la
più piccola, Astura (nome di uno storico castello ubicato nei
pressi di Nettuno, altra località romana) la più grande. La
Artena passerà alla storia per la proverbiale robustezza (pare
sia stata se non la prima, una delle prime macchine al mondo a
poter superare la soglia dei 100.000 chilometri senza necessità
di revisioni), mentre la Astura sarà, sino alla seconda metà
degli anni trenta, uno dei telai più ambiti dai maestri
carrozzieri italiani per la creazione di stupende fuoriserie.
Per quanto riguarda specificatamente la Astura, da segnalare
parecchi successi in corsa, tra cui la vittoria assoluta al
massacrante Giro automobilistico d'Italia del 1934. Da notare
che l'Artena, morta nel 1936 dopo tre serie, resuscitava quattro
anni dopo, nel 1940, con una quarta serie, destinata soprattutto
al governo italiano (nella versione Ministeriale) o all'esercito
(versione Militare). Interessanti (ma non eccezionali) i volumi
produttivi: includendo gli autotelai si ebbero poco più di 5.500
Artena (5.000 dal 1931 al 1936 e 500 della quarta serie del
periodo bellico, dal 1940 al 1942) e meno di 3.000 Astura (dal
1931 al 1939). Nel frattempo alla Casa torinese, dove pure
nessuno intendeva dedicarsi alla produzione di massa, prendeva
corpo l'idea di cimentarsi nella costruzione di un modello di
limitate dimensioni, una sorta di utilitaria (secondo i canoni
del tempo) sia pure d'élite. Il 1930 era l'anno in cui l'ufficio
tecnico Lancia ne iniziava lo studio: nel giro di due anni la
macchina era pronta, già messa a punto, avendo già macinato
migliaia di chilometri nelle mani dei collaudatori. Dopo la
parentesi delle Dilambda, Artena ed Astura – per le quali era
stato preferito il più convenzionale “telaio separato” per
questa sua nuova creatura, Vincenzo Lancia decideva di tornare
alla soluzione della struttura portante che tanto lustro aveva
dato con la Lambda, con la differenza – non da poco – che questa
volta la struttura era prevista per la “guida interna” (berlina,
in altri termini) e non per la versione “torpedo” com'era
accaduto per la Lambda. Preceduta soltanto dall'americana
Chrysler, alla Casa torinese restava comunque un primato, quello
della prima berlina europea a struttura portante. Quando,
nell'autunno del 1932, la stampa forniva le prime notizie su
questa nuova Lancia (esposta in anteprima il 5 ottobre al Salone
di Parigi) essa era indicata con i nomi di “Vespa” (in Italia) e
di “Belna” (in Francia): fermo restando che l'appellativo di
“Vespa” era stato affibbiato da un giornalista (ma non
corrispondeva ad alcuna denominazione ufficiale) quando la
vettura fu presentata (e lanciata) in Italia - al Salone di
Milano dell'aprile 1933 - venne chiamata “Augusta” (in verità,
un nome piuttosto pomposo ed impegnativo per un modello di
ridotte dimensioni). Da osservare che questo ritardo nel lancio
sul mercato fu dovuto all'insorgere di problemi legali con una
importante fabbrica americana di carrozzerie, la Budd, che
deteneva un brevetto per una carrozzeria autoportante molto
simile a quella dell'Augusta, brevetto che alla fine risultò
depositato dopo che il progetto Augusta già era stato avviato.
Ma naturalmente, la nuova Lancia non si distingueva solo per la
struttura portante, ma per molte altre sue caratteristiche
innovative o poco usuali nella contemporanea produzione europea
(il motore con cilindri a V stretto, la sospensione anteriore a
ruote indipendenti con molloni elicoidali racchiusi in foderi
verticali con ammortizzatori a frizione incorporati, le
sospensioni posteriori che non necessitavano di frequenti
lubrificazioni, la ruota libera inseribile o disinseribile dal
posto di guida, la trasmissione con albero a giunti flessibili
in luogo del cardano, i freni idraulici). Una interessante
caratteristica innovativa era data dall'originale sistema di
incernieramento delle portiere, in posizione opposta l'una
all'altra, che consentiva l'abolizione del montante centrale: il
sistema era stato studiato per sopperire alle difficoltà di
accesso all'abitacolo determinate dalla dimensione longitudinale
delle portiere, che era stata volutamente limitata per conferire
alla vettura la necessaria massima rigidità torsionale. Per far
fronte alle esigenze dei clienti che desideravano una
carrozzeria speciale, dal 1934 il modello veniva anche costruito
come telaio (un robusto pianale in lamiera stampata). L'Augusta
era accolta sui mercati con l'interesse che, ormai da anni,
destava ogni nuovo modello Lancia. D'altronde il pubblico sapeva
di trovarsi sempre di fronte ad un prodotto innovativo ed
elegante ma al contempo robusto ed affidabile: e così sarà anche
per l'Augusta, che piaceva immediatamente anche per la sua linea
snella e signorile. Della Augusta, tra il 1933 ed il 1936,
verranno costruiti in Italia 17.217 esemplari (14.107 berline
più 3.110 autotelai a pianale), un numero superiore al “record”
produttivo della Lambda (circa 13.000 pezzi), testimone di
successo. Aggiungendo ad essi le Augusta costruite in Francia
sotto il nome “Belna” (3.000 “, di cui 2.500 berline e 500
telai) il modello, nel suo complesso, supererà addirittura le
20.000 unità.
Malgrado le
vendite dell'Augusta marciassero a gonfie vele, Vincenzo Lancia,
che ancora non aveva dimenticato i fasti della Lambda, pensava
ad una macchina più rivoluzionaria, un prodotto fuori dagli
schemi che lasciasse il segno. Nell'aprile del 1934, venne
brevettato un originale progetto per una vettura del tutto
anticonvenzionale, nella quale il pilota si sarebbe trovato in
posizione centrale ed avrebbe avuto due passeggeri al suo
fianco, uno per parte, mentre una quarta persona avrebbe trovato
alloggio su un piccolo divano posteriore, posto nella coda -
molto rastremata - dell'inconsueto veicolo, provvisto di due
sole ampie portiere. Ma questo progetto, giudicato troppo
ardito, veniva accantonato. Negli ultimi mesi del 1934, Vincenzo
convocava lo staff direttivo (gli ingegneri Manlio Gracco e
Giuseppe Baggi, rispettivamente direttore generale e direttore
tecnico, i tecnici signori Alghisi, Falchetto, Sola e Verga, il
collaudatore Gismondi) e, di fatto, dava il via allo studio di
una vettura aerodinamica (un aspetto in quegli anni poco
considerato), dalla cilindrata un poco superiore ai 1200 cm3
dell'Augusta, relativamente leggera (sotto alla tonnellata nella
versione berlina 5 posti) e capace di fornire prestazioni
superiori con potenza e consumi relativamente modesti.
Nell'inverno 1934-1935 la squadra dell'ufficio tecnico disegnava
il motore, per il quale veniva mantenuto il classico schema dei
cilindri a V stretto, che si distingueva per la forma sferica
delle camere di scoppio, ottenuta grazie ad un sistema di
distribuzione particolare (che sarà brevettato). Al banco, il
motore (con monoblocco in alluminio e canne dei cilindri
riportate, in ghisa) erogava la bella potenza di 48 cavalli a
4300 giri al minuto (non male per un 1352 cmc). Ricerche
effettuate in collaborazione con il Politecnico di Torino
portavano a concludere che la forma della coda rivestiva una
particolare importanza aerodinamica: il disegno della
carrozzeria, quindi, seguiva alla lettera queste indicazioni al
punto che, quando Vincenzo vedeva il “mascherone” in legno della
vettura, trovava esagerato il raggio di raccordo tra tetto e
fiancata, e lo faceva subito ridurre. In effetti, questa prima
versione di carrozzeria aveva una coda lunghissima, efficace dal
punto di vista aerodinamico ma decisamente antiestetica. Sicuro
che stabilità ed aderenza avrebbero tratto vantaggio dalla
adozione di sospensioni a quattro ruote indipendenti, Vincenzo
faceva mettere allo studio una sospensione posteriore adatta
allo scopo. Il retrotreno progettato per la Aprilia – questo il
nome di quella che sarà l'ultima creatura di monsù Lancia –
risultava piuttosto complesso e richiedeva una messa a punto
laboriosa. Le prove su strada dell'Aprilia si protrassero sino
al giugno del 1936, ma, contrariamente a quella che era una sua
abitudine, Vincenzo non vi partecipò mai in prima persona.
Finalmente, all'inizio dell'estate del 1936, dovendo effettuare
un viaggio a Bologna, compiva la sua prima esperienza con un
prototipo Aprilia: lasciata la guida al fido Gismondi, Vincenzo
gli sedette accanto e se ne rimase silenzioso, salvo per
osservare che la velocità della vettura (130 all'ora) gli pareva
eccessiva. Al ritorno, però, Vincenzo non resistette alla
tentazione e, approfittando di una sosta a Voghera, si fece
cedere il volante, guidando veloce sino a Torino. In vista della
città, finalmente, si lasciò andare con una breve frase che però
la diceva lunga “che macchina magnifica!”. I tre che erano in
macchina con lui (i tecnici-collaudatori Verga e Tacchini, oltre
al Gismondi), rimasti in ansia per l'apparente freddezza del
“capo”, poterono ora tirare un sospiro di sollievo! Alla vettura
venivano apportate alcune leggere modifiche, tra cui la
riduzione della velocità massima a 125 km orari. Come ormai
consolidata consuetudine, oltre alla berlina (tipo 238), anche
questo prodotto Lancia veniva offerto nella versione
“autotelaio” (tipo 239), destinato alle fuoriserie, cioè
sostanzialmente a tutti coloro che intendevano farsi costruire
una carrozzeria quasi “su misura” rivolgendosi ai più celebrati
carrozzieri. Questo autotelaio aveva le medesime caratteristiche
della berlina (incluse le sospensioni a ruote indipendenti sulle
quattro ruote) ma la misura del suo passo era di 10 cm superiore
(cm 285 invece di 275). Ma Vincenzo Lancia non avrà più il tempo
per vedere uscire dalla catena di montaggio il primo esemplare.
All'alba del 15 febbraio 1937, non ancora 56.enne, moriva
improvvisamente per un infarto. Quando apparvero le prime
Aprilia, i tecnici si mostrarono scettici. Anche il pubblico
normale appariva un po' sconcertato dalla linea difficile da
digerire. Ma in breve, gli uni dovettero ricredersi, gli altri
cominciarono ad abituarsi e ad apprezzarla. E l'Aprilia non
tardò a farsi valere sulle strade, anche in corsa (dove non ebbe
rivali nella classe 1500 cm3). Il modello (la cui cilindrata,
nel 1939 venne portata a 1486 cm3 ) sopravvisse alla seconda
guerra mondiale e venne costruito sino alla fine del 1949 per un
totale di 27.836 pezzi (20.082 berline e 7.554 telai): poi, nel
1950, all'Aprilia seguì un altro modello mitico, la Aurelia.
Come accaduto per l'Augusta, costruita anche in Francia e colà
commercializzata come “Belna”, anche per l'Aprilia si tentò la
carta del montaggio oltralpe. Forse sottovalutando la feroce
concorrenza della Citroën Traction Avant (tecnicamente avanzata
quanto l'Aprilia se non di più, ed offerta ad un prezzo molto
inferiore grazie ai più elevati volumi produttivi), l'Ardennes
(questo il nome assegnatole per la commercializzazione) non
riscosse il successo sperato tanto che nel biennio 1937/38 se ne
produssero soltanto poche centinaia, per cui, stante anche la
guerra mondiale incombente, l'avventura Lancia in quel di
Bonneuil (alla periferia di Parigi) ebbe così il suo epilogo. Il
giorno 22 ottobre 1949, dentro al baule dell'ultima Aprilia
uscita dalla linea di montaggio, venne trovato un biglietto dai
contenuti quasi commoventi. Questo il testo: “Cara Aprilia, nel
prendere commiato ti porgo un reverente saluto. Il tuo nome
glorioso ha saputo imporsi nelle più grandi metropoli, merito di
un Grande pioniere scomparso ma sempre vivo il suo nome in noi.
Gli artefici di questo grande complesso augurano e aspettano che
la sorella che sta per sorgere dia altra tanta gloria e maggior
comprensione per il bene di tutti”. Il 1939 volgeva al termine
tra i primi bagliori della guerra, quando la Casa torinese
lanciava sul mercato un nuovo prodotto rivoluzionario, alla cui
realizzazione aveva probabilmente contribuito il famoso
progettista Vittorio Jano, passato dall'Alfa Romeo alla Lancia
nel febbraio 1938. Alla vettura veniva dato il nome "Ardea",
corrispondente a quello di una antichissima città laziale
(geograficamente un po' a sud di Pomezia), fondata forse dal
figlio di Ulisse e di Circe, che fu capitale dei Rutuli
all'epoca dello sbarco di Enea. La Lancia Ardea era una piccola
vettura, dalle brillanti prestazioni, che si presentava con una
carrozzeria berlina a quattro porte che altro non era se non la
copia, in scala leggermente ridotta, della gloriosa Aprilia. Di
quest'ultima, infatti, ripeteva la sezione longitudinale, con
solo qualche lieve variazione (passo inferiore, cofano più
corto, coda meno rastremata). La struttura della vettura era,
naturalmente, del tipo “portante”. L'Ardea disponeva di un
motore a 4 cilindri a V stretto (20º) di 903 cm3 (alesaggio mm
65 e corsa mm 68) che erogava una potenza massima di 28-29 HP al
bel regime (per l'epoca) di 4600 giri al minuto. Il sistema di
distribuzione era a valvole in testa azionate da un albero
superiore, mosso a sua volta da una catena. Tecnicamente, si
apprezzavano i corti bilancieri obliqui (tutti indipendenti e
simmetrici, facilmente smontabili ed intercambiabili) e la
catena di comando (doppia fila di rulli e tenditore automatico).
Una caratteristica interessante era data dall'albero di
trasmissione con giunti snodati ed elastici ad incastri
cilindrici (all'interno di boccole in gomma). La sospensione
anteriore era quella a ruote indipendenti del tipo classico
Lancia (cannocchiali verticali contenenti molloni elicoidali ed
ammortizzatori idraulici concentrici), mentre il retrotreno era
del normale ponte rigido con due balestre longitudinali (montate
su boccole del tipo detto “Silentbloc”) ed ammortizzatori del
tipo a leva. Molto compatta e piuttosto leggera (750 Kg) la
vettura, grazie anche alla linea aerodinamica della carrozzeria,
raggiungeva i 108 km orari ed aveva tra i suoi pregi –
apprezzabile in quegli anni di crisi - un consumo assai ridotto
(poco più di 7 litri ogni 100 chilometri, ad una andatura di
circa 75 km orari). L'Ardea veniva inizialmente costruita, in
quella che sarà poi definita come “prima serie”, in tre
versioni, la tipo 250, cioè la normale berlina di serie, il
telaio tipo 350 (di cui nulla si sa ma che molto probabilmente
era lo chassis destinato ai carrozzieri, che peraltro
realizzarono pochissime Ardea fuori serie) ed il tipo 450, per
servizio pubblico (taxi) definito anche “tipo Roma”, munito di
carrozzeria più ampia (passo e lunghezza si incrementavano
rispettivamente da cm 241 a cm 295 e da cm 361,5 a cm 446,5). L'Ardea
verrà costruita in quattro serie sino al 1952: le differenze tra
una serie e l'altra saranno tutto sommato modeste, fatta
eccezione per la adozione del cambio a 5 marce (con la quinta
marcia surmoltiplicata) adottato nel dopoguerra (terza serie).
Oltre alla berlina ed al taxi, nel dopoguerra iniziava anche la
produzione delle versioni derivate, il furgoncino ed il
camioncino. Complessivamente le Ardea prodotte sono state
31.961, e precisamente 22.730 berlina, 511 taxi, 7.519
furgoncini e 1.201 camioncini
Mentre stava
lavorando attorno al progetto dell'Aprilia, Vincenzo Lancia
decideva di aderire ad una iniziativa governativa tesa a
promuovere la creazione di un centro industriale in quel di
Bolzano. Nel marzo del 1935 l'ufficio tecnico del comune di
Bolzano trasmetteva alla direzione Lancia la planimetria della
zona, per la scelta del lotto di terreno da acquistare per la
costruzione dello stabilimento, sei mesi dopo iniziavano i
lavori di costruzione dei primi quattro capannoni, nell'aprile
1937 venivano assunti i primi impiegati (che saranno “istruiti”
a Torino). Il mese di giugno 1937 segnava dunque la nascita
ufficiale dello stabilimento, che debuttava con l'entrata in
funzione del reparto fonderia. Prima dello scoppio della guerra
cominciavano i lavori di costruzione del reparto meccanica, e
così lo stabilimento di Bolzano diventava un complemento
insostituibile delle officine di Torino. Lo scoppio della guerra
aumentava ulteriormente l'importanza di questo stabilimento
decentrato. Nell'autunno del 1942 gli stabilimenti di Torino
venivano gravemente danneggiati da un furioso bombardamento, e
si iniziava un massiccio trasferimento di interi reparti da
Torino a Bolzano. Ma in breve i bombardamenti cominciavano a
colpire anche Bolzano, e gli anni 1943 e 1944, saranno
costellati da arresti, bombardamenti, lutti. La ripresa,
faticosa, lenta ma costante, inizierà il 3 maggio 1945. Subito
iniziava la ricostruzione degli impianti e le lavorazioni che
erano di pertinenza degli stabilimenti di Torino, tornavano alla
loro sede naturale, ad eccezione del settore dei veicoli
industriali, che rimaneva in via definitiva a Bolzano.
Alla fine della
Prima guerra mondiale, il passaggio dalle attività belliche a
quelle di pace, si rivelava decisamente difficile, specialmente
nel settore dei veicoli industriali. Del resto, il mercato non
era particolarmente attivo, dal momento che lo sviluppo dei
trasporti su strada era ancora di lì da venire e che i residuati
di guerra che l'esercito stava cedendo ai civili poteva
benissimo sopperire a queste marginali necessità. Nonostante
queste difficoltà, nel 1921 uscivano i modelli Trijota e
Tetrajota, costruiti esclusivamente come autotelaio da fornire
ai carrozzieri per realizzare autocarri o torpedoni. Questi
autotelai montavano il vecchio collaudato motore a 4 cilindri in
linea da 4,9 litri di cilindrata, con passo di cm 335 e cm 385
rispettivamente. Il Trijota veniviva carrozzato ad autocarro,
mentre il Tetrajota serviva da base per la realizzazione,
soprattutto, di torpedoni. Entrambi i modelli (prodotti
complessivamente in 673 esemplari) riscuotevano un buon successo
anche all'estero. Mentre il Tetrajota continuava ad essere
prodotto fino al 1928, nel 1922 il Trijota terminava la sua
esistenza, durata lo spazio di poco più di un anno. Nel 1924,
alla Lancia veniva impostato un nuovo autocarro, il Pentajota,
che, azionato dal solito motore da 4,9 litri da 70 hp
sufficiente a fargli raggiungere i 55-60 chilometri all'ora,
utilizzava cambio e ponte del Tetrajota: grazie all'aumento del
passo (portato a cm 431) il nuovo autocarro adottava un cassone
da cm 370 x 210, che conferiva al Pentajota la qualifica di
gigante della strada. Interessante, su questo modello,
l'adozione dei freni sulle ruote anteriori: il pedale comandava
funi metalliche che agivano simultaneamente al freno sulla
trasmissione (la frenatura sulle ruote posteriori avveniva
invece unicamente per mezzo della leva azionata manualmente). Il
Pentajota era costruito dal 1924 al 1929 in più di 2000
esemplari. Intanto veniva messo in cantiere un nuovo telaio per
autobus urbano, l'Eptajota, caratterizzato dalla adozione di un
telaio con longheroni di foggia tale da consentire di abbassare
il pavimento, così come richiesto in particolare dal Comune di
Milano, per il quale in effetti l'Eptajota era destinato. Comodo
e di grande portata, l'Eptajota (quasi 2.000 esemplari, dal 1927
al 1934) mostrava il suo limite nella scarsa potenza dell'ormai
obsoleto motore, che non gli consentiva di raggiungere quelle
velocità d'esercizio che ormai si rendevano necessarie. La
prolissa serie “Jota” si esauriva con l'autocarro Eptajota, che,
sempre utilizzando il motore da 4,9 litri ed i gruppi meccanici
del Pentajota, veniva costruito con un passo di ben cm 472, che
permetteva di aumentare la lunghezza del cassone sino a cm 455.
Dopo l'esperienza poco felice dell'autobus Esajota (soli 13
esemplari, tutti costruiti nel 1926), nel 1927 alla Lancia si
decideva di progettare un autotelaio del tutto nuovo, moderno,
adatto ad essere carrozzato nel tipo autobus urbano ed
extraurbano, l'Omicron, munito di un nuovo motore a 6 cilindri
in linea di ben 7069 cm3 (alesaggio mm 100, corsa mm 150)
erogante – grazie anche alla adozione delle valvole in testa
comandate da due alberi di distribuzione – quasi 92 HP a 1600
giri. Interessante la collocazione del gruppo centrale del
ponte: esso era sistemato lateralmente per poter abbassare il
più possibile l'altezza da terra del corridoio centrale del
veicolo. L'Omicron sarà costruito nella versione a passo corto
(cm 512,5) e a passo lungo (cm 592). Ottimo l'impianto frenante,
costituito da freni meccanici sulle 4 ruote (a pedale) ed un
freno a mano agente su apposite ganasce al ponte posteriore
(affiancate a quelle azionate dal pedale, ma da esse
indipendenti): Nel 1929, dopo i primi duecento esemplari,
l'impianto veniva completato con un servofreno a depressione
(tipo Dewandre) per ridurre lo sforzo da esercitare sul pedale.
Malgrado un consumo decisamente elevato, l'Omicron riscuoteva un
buon successo (601 esemplari dal 1927 al 1936), soprattutto
grazie alla meritata fama di veicolo indistruttibile (si parlò
di esemplari che raggiunsero e superarono il traguardo dei 2
milioni di chilometri). Le qualità dell'Omicron conquistarono
anche i mercati esteri, ed alcuni esemplari, attrezzati come
vagoni-letto, vennero utilizzati per un servizio di linea
attraverso il Sahara, tra l'Algeria ed il Sudan francese.
Soprattutto per porre rimedio al problema dell'elevatezza dei
consumi, venne studiato un motore a ciclo Diesel a cinque
cilindri di 6871 cm3 e 93 HP di potenza, sostituibile a
richiesta sulle unità azionate dal motore a benzina. All'inizio
degli anni'30, Vincenzo Lancia acquistava la licenza di
fabbricazione del motore Diesel fabbricato in Germania dalla
Junkers, che pareva uno dei più riusciti. Si trattava di un
bicilindrico a due tempi, con due pistoni contrapposti per
cilindro, aventi la corsa di due diverse misure (mm 150 l'uno,
mm 100 l'altro) e quindi con cilindrata di 3181 cm3 e potenza di
64 HP a 1500 giri. Del motore Junkers esisteva anche una seconda
versione, a tre cilindri, di 4.771 cm3 e 95 HP. L'autocarro
equipaggiato dal motore a due cilindri si chiamava “Ro” e fu
prodotto dal 1932 al 1938 in quattro versioni, di cui due
militari. Nel 1935 venne realizzato uno speciale “Ro” militare
con motore classico (4 cilindri, 4 tempi) da 5126 cm3 e 65 HP,
che ebbe modo di distinguersi durante l'impiego in Etiopia.
Ancora nel 1935, al “Ro” si affiancava il “Ro-Ro” su cui veniva
montato il 3 cilindri Junkers da 4771 cm3. Chiudeva la lista dei
veicoli industriali pre-bellici, il “3 Ro” (nato nel 1938 e
costruito fino al 1947 in quasi 12.700 esemplari, tra veicoli
militari e veicoli per uso civile) che veniva equipaggiato col
motore a 5 cilindri da 6871 cm3 e 93 HP di potenza, lo stesso
già adottato da alcuni degli ultimi Omicron, che riusciva a
spingere gli autocarri fino a farli sfiorare, a vuoto, gli 80
chilometri all'ora.
Alla scomparsa di
Vincenzo, l'azienda passava nelle mani della moglie, Adele
Miglietti, che assumeva la carica di Presidente, mentre la
direzione generale passava momentaneamente nelle mani dell'ing.
Manlio Gracco de Lay (già ai vertici dello staff dell'ufficio
tecnico) coadiuvato dai più valenti collaboratori del patron
scomparso (Ernesto Zorzoli per quello finanziario ed Oscar Ravà
per il commerciale). Nel febbraio del'38 il Ravà lasciava
l'azienda (costrettovi, pare, per via della sua appartenenza
alla razza ebraica....) ed arrivava, esule dall'Alfa Romeo, il
celebre progettista Vittorio Jano. Intanto la signora Adele,
resasi conto di quanto l'azienda soffrisse per la mancanza di un
vero “capo”, contattava Ugo Gobbato (di Volpago del Montello
TV), amministratore delegato all'Alfa Romeo) e Gaudenzio Bono
(alto dirigente alla Fiat), ma non riusciva a convincerli a
lasciare le rispettive aziende. E così gli anni quaranta
trascorsero con vorticosi mutamenti e continui cambi di ruolo ai
vertici. Nel 1944 la carica di direttore generale venne affidata
ad Arturo Lancia (un cugino di Vincenzo) che però morirà di lì a
poco. Finalmente, nel 1947, ormai ventitreenne entrava alla
Lancia il figlio di Vincenzo, l'ingegner Gianni, che presto
prenderà le redini della Lancia e che sarà l'artefice
dell'ingresso “alla grande” della Casa nell'agone sportivo (e
persino nella Formula Uno). Tutto questo però avverrà nel
secondo dopoguerra. Alla ripresa dell'attività produttiva, la
Lancia si ritrova con due modelli di automobile da
commercializzare: la piccola Ardea e la sorella maggiore Aprilia.
La prima, pur contando già circa 6-7 anni di età (è stata
lanciata alla fine del 1939), è di progettazione relativamente
recente e quindi pare non si pongano, al momento, problemi di
imminente pensionamento; l'Aprilia invece è nata qualche anno
prima e in seno all'azienda si comincia seriamente a pensare al
modello destinato a sostituirla, che sarà l'Aurelia.
Durante la
guerra, Gianni Lancia comincia ad occuparsi dei progetti futuri
della Casa che reca il suo nome. Convinto che la trazione
anteriore non fosse l'ideale, forse (si dice) a causa di
esperienze negative vissute al volante di una Traction Citroen,
pensa di esplorare quella posteriore (o più correttamente
centrale-posteriore): dopo qualche progetto datato 1944, nel
1948 viene realizzato un prototipo, denominato A10, munito di un
motore ad 8 cilindri a V di 90º di circa 2 litri di cilindrata.
l progetto
iniziale (febbraio 1945) prevede l'installazione del motore su
una carrozzeria berlina a 4 porte ma il prototipo effettivamente
costruito, con telaio tubolare, viene munito di carrozzeria
coupé (realizzata dalla carrozzeria Ghia). Caratteristica
singolare di questo coupé è anche costituita dall'abitacolo, che
contempla tre posti anteriori (con il guidatore in posizione
centrale). Negli stessi anni del conflitto, i progettisti di
Casa Lancia non stanno inattivi e, tra gli altri, vengono
portati avanti studi ed esperimenti per la realizzazione di un
propulsore a 6 cilindri disposti – come di consueto per la casa
torinese - a “V” . Nel 1947 un motore (tipo 538) a 6 cilindri a
V (45º) di 1569 cm3 viene installato su una Aprilia per i
collaudi su strada. Nel 1948, Gianni Lancia, ormai direttore
generale, rompe gli indugi: da una parte accantona l'idea di
proseguire sulla strada del prototipo A10 a motore
centrale-posteriore (perché ritenuto troppo costoso da
costruire), dall'altra è convinto che il semplice
“aggiornamento” dell'Aprilia non sia sufficiente al rilancio
aziendale, per cui decide il varo di un modello completamente
nuovo che rientri però nello schema Lancia classico. Nel
frattempo la direzione tecnica è nelle mani di Jano, che,
assieme a De Virgilio, costruisce un secondo propulsore
sperimentale, sempre di 1569 cm3 ma con apertura di 50° (sarà il
B10 primo tipo). Il motore definitivo viene realizzato nel 1949.
L'angolo di apertura della “V” viene aumentato a 60° (un valore
che garantisce un'ottima equilibrature del 6 cilindri) la
cilindrata viene portata a cmc 1754,90, la potenza erogata è di
56 CV a 4.000 giri/minuto.
Nel biennio
1948-1949, naturalmente, vengono definite e studiate anche le
altre componenti la nuova vettura, che assumerà l'armonioso nome
di “Aurelia” (corrispondente a quello della più importante
strada italiana) e che sarà caratterizzata dalla scocca
portante, dalle sospensioni a 4 ruote indipendenti, dalla
sistemazione al retrotreno del gruppo
frizione-cambio-differenziale e, non ultimo, da una carrozzeria
avente una linea assai sobria ed elegante, derivata da quella di
una Aprilia carrozzata da Pininfarina nel periodo 1946-1948 ma
ulteriormente ammodernata ed addolcita. La Aurelia viene
presentata al pubblico al Salone dell'automobile di Torino che
si apre il 4 maggio 1950: oltre alla berlina di serie (tipo B10)
viene esposto l'autotelaio a pianale per i carrozzieri (tipo
B50) e la versione Cabriolet dovuta a Pininfarina (realizzata
appunto sulla base dell'autotelaio B50).
Il 1951 è l'anno
di nascita di un modello glorioso, destinato a passare alla
storia come uno dei più significativi realizzati dalla casa
torinese: stiamo parlando della Aurelia B20, una elegante coupé
attribuita a Pininfarina che si distinguerà anche per la bontà
delle prestazioni. La quasi leggendaria B20, nata con motore da
due litri, diventa ancora più attraente a partire dal 1953,
quando la cilindrata del motore viene portata a 2 litri e mezzo
e le prestazioni aumentano ancora (la velocità massima, ad
esempio, passa da 162 a 185 km all'ora). È proprio grazie a
questo modello che Gianni Lancia può soddisfare uno dei suoi
desideri, quello cioè di vedere le sue macchine impegnate nel
mondo delle corse. L'attività agonistico-sportiva, iniziata
sotto forma di semplice “assistenza” ai Clienti delle B20
desiderosi di misurarsi in corsa, si trasforma presto in
partecipazione “ufficiale” alle gare più importanti. Nel biennio
1951-1952 le B20 da 2 litri di cilindrata colgono affermazioni
di rilevanza internazionale (tra cui, nel 1951, un 2º posto
assoluto alla Mille Miglia e la vittoria di classe alla 24 ore
di Le Mans e, l'anno successivo, la vittoria assoluta al Rallye
del Sestriere ed alla dura Targa Florio nonché un primo posto di
classe a Le Mans). Dal canto suo, a partire dal 1953 la B20 con
motore da 2,5 litri ottiene successi a ripetizione, specialmente
in ambito nazionale: tra le vittorie internazionali più
clamorose va citata quella al Rallye di Montecarlo 1954.
La produzione di
serie dell'Aurelia prosegue: nel 1954 esce la berlina seconda
serie con motore di 2,3 litri di cilindrata, una vettura che
perde il piglio sportivo delle berline due litri prima serie B21
e B22, ma che si fa notare per l'accuratezza delle finiture e
per la confortevolezza al punto da essere considerata, in quegli
anni, la "ammiraglia" italiana. Anche la B20 coupé da 2 litri e
mezzo subisce modifiche che la rendono meno "corsaiola". Nel
1955 esce l'ultima versione Aurelia, lo spider B24 di
Pininfarina, una delle macchine più belle nella storia
dell'automobile: nata con l'intento (poi non realizzato) di
sfondare il mercato Stati Uniti, la B24 viene ricordata come
"tipo America" e nel 1956 - quando esce la seconda serie meno
spartana - assume la definizione di "convertibile". La
produzione della berlina seconda serie dura appena due anni
(1954 e 1955) poi si arresta per far posto alla monumentale
Flaminia (che viene immessa in commercio nella primavera del
1957) mentre coupé B20 e convertibile B24 rimangono a listino
fino al 1959.
Dopo aver
lanciato il modello Aurelia in sostituzione dell'Aprilia,
l'ufficio progettazione dell'azienda torinese mette allo studio
il modello destinato a rimpiazzare l'Ardea, che ormai comincia a
sentire il peso degli anni. Sin dal progetto iniziale, la nuova
vettura viene concepita con una linea molto somigliante a quella
della sorella maggiore Aurelia, così come già era accaduto fra i
modelli Ardea ed Aprilia, di cui la prima altro non era se non
la riproduzione in scala ridotta della seconda. In sede
sperimentale, il motore conserva la cilindrata, inferiore al
litro, dell'Ardea, ma con una struttura diversa, con due alberi
a camme nel basamento e testa in alluminio con sedi valvole
riportate. Attraverso fasi intermedie si giunge, all'inizio del
1953, ai 1090 cc della cilindrata definitiva. La nuova vettura,
battezzata Appia, viene presentata al Salone dell'automobile di
Torino nel mese di aprile 1953: sua più diretta concorrente è la
nuova Fiat 1100 modello 103, immessa sul mercato appena qualche
settimana prima. La differenza di prezzo tra le due vetture è
però quasi abissale (975.000 Lire la Fiat - addirittura 945.000
Lire nella versione "economica" - contro 1.331.500 Lire della
neonata piccola Lancia). Un po' sorprendentemente - e malgrado
la moda del tempo - non risulta che alcun carrozziere utilizzi
gli organi meccanici di questa prima Appia per realizzare
edizioni cosiddette "fuoriserie", ma la ragione è da ricercare
nel fatto che la casa madre non mette in vendita il pianale
privo di carrozzeria.
È della stessa
Lancia, invece, l'iniziativa di produrre, a partire dal '54, le
versioni commerciali: il furgoncino, il camioncino e la
autolettiga. Il successo di questa prima serie dell'Appia -
costruita in appena 20.025 unità (berlina) - non si può definire
eccezionale: la Fiat 1100-103 si dimostra davvero una
concorrente troppo forte e in più i clienti lamentano
imperfezioni nelle rifiniture ed anche qualche pecca
nell'affidabilità, difetti difficilmente perdonabili ad una
Lancia, proverbiale per l'elevata qualità dei suoi prodotti. Poi
- e siamo al 1955 - sul mercato si affaccia la versione berlina
della Alfa Romeo Giulietta, e in casa Lancia (che è in piena
crisi anche dirigenziale) ci si rende conto che è necessario
correre ai ripari e migliorare il prodotto, rendendolo più
appetibile. Un po' a sorpresa, nel marzo del '56 la Lancia
espone al Salone dell'automobile di Ginevra la seconda serie
dell'Appia. Voluta dal Prof. Antonio Fessia (entrato alla Lancia
da poco), la nuova serie appare rinnovata nella carrozzeria
(linea allungata, bagagliaio più pronunciato e capiente, pinne
posteriori arrotondate) e un po' in tutti gli organi meccanici
(sterzo, freni, cambio ma anche motore, la cui potenza massima
sale da 38 a 43,5 CV fornendo prestazioni decisamente migliori
(la velocità massima passa da 120 a 128 km orari, ma anche
accelerazione e ripresa risentono in positivo delle modifiche).
Sul fronte della affidabilità la casa fa tesoro delle esperienze
dei primi tre anni e recupera il terreno perduto. La seconda
serie dell'Appia è davvero una macchina riuscita, elegante e
raffinata. Quanto alla robustezza, basta ricordare la prova di
resistenza effettuata dalla nota rivista "Quattroruote" nel 1957
(oltre 160.000 chilometri percorsi senza che la vettura
accusasse avarie). La "seconda serie" Appia viene
commercializzata sino al febbraio del 1959, poi cede il passo
alla "terza serie".
Nel 1956, subito
dopo il lancio della seconda serie, tredici pianali vengono
messi a disposizione dei carrozzieri italiani: mentre alcuni
modellano delle normali "fuoriserie", altri realizzano versioni
che, pochi mesi dopo, entrano a far parte del listino ufficiale
Lancia e prodotte in serie, sia pur limitata. Questi pianali
montano quasi subito un motore potenziato (53 CV in luogo di
43,5): è il caso della coupé di Pininfarina e della cabriolet
("convertibile" nella definizione ufficiale) di Vignale
(commercializzate dal maggio 1957) ma anche della più sportiva
berlinetta dovuta allo specialista milanese Zagato che, dopo un
certo numero di unità destinate soprattutto ai clienti sportivi
desiderosi di cimentarsi nelle competizioni, alla fine del 1958
partorisce la bella GTE (Gran Turismo Esportazione), la cui
profilata carrozzeria si distingue anche per la carenatura dei
fari. Nel marzo del 1959, sempre in occasione del Salone di
Ginevra, viene lanciata una nuova "serie" di Appia, la terza,
che si differenzia dalla precedente soprattutto per la
carrozzeria ed in particolare per il nuovo frontale che,
abbandonata la classica mascherina a scudetto che ha
caratterizzato per anni la produzione Lancia, assume una forma
trapezoidale simile a quella della sontuosa Flaminia,
l'ammiraglia della casa torinese, lanciata nel '57. Naturalmente
anche la parte meccanica viene aggiornata, la potenza arriva a
48 CV e, pochi mesi dopo l'uscita, viene adottato il doppio
circuito frenante (un notevole passo avanti per quanto concerne
la sicurezza attiva). La carrozzeria però non convince tutti per
la sua disarmonia, dovuta alla coabitazione tra linee
arrotondate e linee più tese e squadrate. In concomitanza con il
lancio della terza serie (marzo 1959) le derivate subiscono solo
piccoli aggiornamenti. L'abitabilità dello spider di Vignale,
intanto, passa da due a quattro posti e di conseguenza la
vettura venne definita con il più appropriato termine
"convertibile". La schiera delle versioni speciali si
arricchisce con la "Lusso" (una quattroposti due porte molto ben
rifinita dovuta ancora a Vignale uscita alla fine del 1958 ma in
pratica venduta per un solo anno, il 1960) e con la Giardinetta
(la "station wagon" dell'epoca) dovuta a Viotti (uno specialista
del settore), esposta come novità al Salone dell'automobile di
Torino nell'autunno 1959 e messa in commercio dal febbraio del
1960. L'ultima novità Appia è merito di Zagato che, nel 1961,
lancia la versione "Sport" a passo accorciato, più rastremata,
più maneggevole e più leggera. Nel 1961 la domanda di Appia
inizia ad affievolirsi, nel 1962 il calo delle vendite si
accentua: d'altro canto gli anni cominciano a farsi sentire e la
concorrenza - che ora proviene anche dall'estero in virtù della
graduale liberalizzazione dei mercati - è agguerrita. L'erede
dell'Appia è però alle porte: nel mese di aprile 1963 esce
infatti la "Fulvia", una "tutto avanti" destinata a far strada,
soprattutto nella leggiadra versione "coupé". L'ultima Appia
lascia la fabbrica il 27 aprile 1963: è la 103.161ª (98.000
berlina e 5.161 derivate). In realtà il totale di "Appia"
costruite, includendo anche i 3.863 veicoli commerciali, è di
107.024 unità, il modello Lancia finora prodotto nel maggior
numero di esemplari e l'unico a superare la soglia dei 100.000
pezzi. Benché gli acquirenti dell'Appia fossero tendenzialmente
orientati più al comfort ed al lusso piuttosto che alle
prestazioni velocistiche, non sono mancate presenze di vetture
Appia nelle competizioni. Sarebbe infatti ingeneroso non
ricordare i successi ottenuti in corsa - per quasi un decennio -
dalle Appia carrozzate ed elaborate da Zagato. Nella sua classe
(1150 cc della categoria Gran Turismo) l'Appia Zagato fa la
parte del leone, consentendo ai suoi piloti (tra i quali va
citato Cesare Fiorio) di conquistare ben 9 Campionati italiani,
tra il 1959 e il 1965. Il propulsore "Appia" verrà anche
utilizzato da alcuni piccoli costruttori-artigiani italiani per
le monoposto di Formula Junior: quella costruita da Angelo
Dagrada ottiene - con Giancarlo Baghetti - i risultati migliori
(4º posto nella graduatoria del Campionato 1960).
Non pago dei pur
eccellenti risultati ottenuti con le B20, Gianni Lancia,
contando anche sull'esperienza e sulla capacità del suo più
celebre progettista, Vittorio Jano, intende fare un salto di
qualità e partecipare con una “vera” macchina da competizione
alle gare di maggior rilevanza, anche per misurarsi nel
Campionato Internazionale Vetture Sport che viene varato nel
1953. Viene così messa in cantiere la berlinetta D20 da 3 litri,
che esordisce proprio nel 1953 alla Mille Miglia (dove ottiene
uno splendido terzo posto) e che si aggiudica, nello stesso
anno, la Targa Florio.
Appare subito
evidente che la D20 non può che rappresentare una sorta di
trampolino di lancio sperimentale, trattandosi di un modello con
potenza non sufficiente a contrastare le marche più blasonate (Ferrari
in primis) e già nella primavera del 1953, Gianni Lancia ritiene
imprescindibile far trasformare la sua “arma” da coupé in
spider, per risparmiare in peso ed incrementare le doti di
agilità. L'esordio delle prime due D23 (modello che in
definitiva altro non è se non una D20 privata del padiglione)
avviene a Monza il 29 giugno 1953, due giorni appena dopo la
loro targatura, ma ottengono soltanto due piazze d'onore nelle
due “manches” in cui si articola la gara monzese. Ma la D23 non
porta a casa risultati di rilievo, anche perché è ben presto
posta in pensione, soppiantata dalla nuova più moderna D24.
La D24,
universalmente giudicata come una tra le più belle vetture da
corsa del periodo (e di sempre), si presenta con una livrea di
tutto rispetto, una linea slanciata ed armoniosa che migliora
l'estetica già apprezzabile della D23 e che naturalmente è
sempre dovuta alla matita del “maestro” tra i carrozzieri
dell'epoca, Pininfarina. La D24, che raggiungerà fama
internazionale dopo la strepitosa vittoria alla Carrera
Panamericana nel novembre 1953 (che le meriterà la denominazione
di Lancia D24 Carrera), calcherà la scena fino al termine della
stagione 1954 ottenendo parecchie affermazioni di prestigio
(Mille Miglia, Targa Florio, Giro di Sicilia, ecc) e verrà anche
equipaggiata – nelle ultime uscite – dal motore da 3,7 litri
costruito per la macchina destinata a sostituire la D24, ovvero
la D25. Tra la fine del 1953 ed i primi mesi del 1954 la Lancia,
constatato che la potenza delle D24 da 3,3 litri è insufficiente
a fronteggiare la concorrenza, mette allo studio un motore di
maggior cilindrata (3,7 litri) - denominato D25 - che, montato
su una D24, debutta senza troppa fortuna il 27 giugno 1954 al
Gran Premio di Oporto.
Questo progetto
non procede con le necessarie rapidità e determinazione in
quanto il secondo semestre del 1954 è caratterizzato da una
buona dose di incertezza circa la futura attività sportiva della
casa torinese, che alla fine decide di abbandonare il settore
delle macchine sport. Nel frattempo, però, si sta attuando il
progetto per realizzare il bolide (denominato D50) destinato a
correre nella massima formula, la Formula Uno. La monoposto D50
di Formula Uno del 1954 ora conservata al Museo dell'Automobile
di Torino Vittorio Jano, termina la progettazione esecutiva nel
settembre 1953. Il problema piloti è presto risolto, dal momento
che Gianni Lancia riesce a convincere della bontà del progetto
due nomi altisonanti: Alberto Ascari e Luigi Villoresi. La
monoposto della casa torinese fa la sua prima uscita il 20
febbraio 1954: la caratteristica più saliente del nuovo bolide
risiede nella sistemazione dei serbatoi del carburante,
collocati, uno per lato, a sbalzo del corpo della vettura, tra
le ruote anteriori e quelle posteriori. Il motore, ad
alimentazione atmosferica, è un 8 cilindri a V di 90° da 2,5
litri di cilindrata, limite fissato dal regolamento della
Formula Uno in vigore dal 1º gennaio 1954. Le sospensioni sono a
ruote indipendenti all'avantreno, a ponte De Dion al retrotreno.
Il gruppo frizione/cambio/differenziale è al retrotreno. Il
cambio, disposto trasversalmente, è a 5 rapporti. La gestazione
della D50 è però lunga e travagliata. La prima “uscita” reca la
data del 20 febbraio 1954 ma il debutto, inizialmente previsto
per il 20 giugno (Gran Premio di Francia), viene via via
rimandato ed avverrà con quattro mesi di ritardo, il 24 ottobre,
a Barcellona (Gran Premio di Spagna). Dopo il GP di Spagna
dell'ottobre 1954, nel 1955 le D50 disputano, con alterna
fortuna, altri 5 Gran Premi (Argentina, Torino, Pau, Napoli,
Monaco) poi, dopo la morte del pilota di punta Ascari la Lancia
annuncia la sospensione dell'attività agonistica, evento che
avviene pressoché in contemporanea con l'abdicazione di Gianni
Lancia. Il 26 luglio, in virtù di un accordo a tre (Lancia, Fiat
e Ferrari), sei monoposto D50 complete (più due scocche, parti
di ricambio ed altro materiale) vengono cedute gratuitamente
alla Ferrari. L'anno successivo - 1956 - le D50, che ormai
vengono identificate come Ferrari-Lancia, subiscono modifiche
non solo marginali e si aggiudicano il Campionato Mondiale di
Formula Uno 1956, grazie anche all'apporto del super-campione
del momento, l'argentino Juan Manuel Fangio.
Sotto il profilo
aziendale, il 1954 è per la Lancia, un anno difficile: le
vendite dell'Aurelia (malgrado il lancio della seconda serie
berlina) procedono a rilento, mentre quelle della più recente
Appia non raggiungono i numeri sperati, segno evidente che i
successi delle D23 e D24 in campo internazionale non hanno
aiutato ad incrementare i volumi di vendita delle vetture di
serie, e Gianni Lancia, già alle prese con le problematiche
legate alla D50 di Formula Uno, comincia a pensare seriamente
all'ipotesi di cedere le proprie azioni. Il 22 maggio 1955, a
Montecarlo, Ascari finisce in mare con al sua D50, poi, appena 4
giorni dopo, il fatale incidente. Eugenio Castellotti (impegnato
con la Lancia soltanto per la Formula Uno) sta provando una
Ferrari sport da 3 litri, del tipo 750S. Lo raggiunge Alberto
Ascari, invitato telefonicamente dallo stesso Eugenio ad
assistere a questi test. Con Alberto è anche l'amico e “collega”
di sempre Luigi Villoresi. Inaspettatamente, Ascari (che è
partito da casa per un semplice incontro tra amici, come
conferma il fatto che addirittura indossa la cravatta) chiede di
poter effettuare un paio di giri. Nessuno ha il coraggio di
negare ad Ascari questo “capriccio” - benché la macchina
appartenga ad una scuderia avversaria - e lo stesso Castellotti
cede momentaneamente il suo casco al bi-campione del mondo.
Ascari sale in macchina, compie un primo giro d'assaggio, poi si
lancia in velocità. Alla curva del vialone, apparentemente senza
una ragione precisa, sbanda e vola fuori dalla pista. La
macchina finisce la sua corsa, a ruote all'aria, tra il verde e
gli alberi del parco. Ascari è proiettato fuori dalla vettura e
muore praticamente sul colpo. La verità su questo tragico
incidente non si saprà mai, anche se l'ipotesi più accreditata
parla di due operai che hanno attraversato imprudentemente la
pista qualche attimo prima del sopraggiungere di Alberto che
avrebbe frenato e sterzato violentemente per non investirli
innescando la paurosa e fatale sbandata. L'annuncio che segue
alla morte di Ascari, pur scarno, anticipa "tutto" ciò che sta
accadendo in casa Lancia. "La scuderia Lancia, in seguito alla
morte del suo capitano, Alberto Ascari, ha deciso di sospendere
la sua attività agonistica. Il pilota Eugenio Castellotti ha
richiesto di poter partecipare, a titolo personale, al Gran
Premio del Belgio a Spa, e l'ing. Gianni Lancia, prima di
imbarcarsi per l'America, gli ha concesso vettura ed
assistenza". Vengono dunque annunciate: la morte del pilota di
punta (Ascari), la sospensione dell'attività agonistica,
l'autorizzazione a Castellotti e la partenza per il Sud America
dell'ing. Gianni Lancia, un viaggio che sancisce la conclusione
dell'avventura dell'ingegnere in seno alla casa che reca il suo
nome. In quegli stessi giorni, infatti, la famiglia lombarda
Pesenti (proprietaria anche dell'Italcementi) sta trattando per
rilevare la maggioranza azionaria Lancia e pare pretenda dalla
Signora Adele Lancia, che al momento mantiene la Presidenza,
l'allontanamento del figlio Gianni. Il passaggio dell'intera
proprietà al gruppo Pesenti si completerà nel 1958, ma nel
frattempo la famiglia Lancia è di fatto estromessa da qualsiasi
posizione di potere. Pur non essendo quasi mai riuscita ad
accumulare utili in quel periodo, Lancia poté sfornare molte
automobili eleganti e tecnicamente raffinate, riconoscendo il
merito di "mecenatismo industriale" alla proprietà Pesenti.
Anche nel secondo
dopoguerra la gamma di veicoli costruiti e venduti dalla Lancia
comprenderà - fino al termine degli anni'60 e cioè fino al
momento dell'assorbimento della Casa da parte della Fiat - oltre
alle autovetture, anche veicoli industriali (autocarri ed
autobus), apprezzati per le caratteristiche tecniche ma anche
per un'estetica davvero accattivante. In particolare tra la fine
degli anni'50 ed i primi anni'60 Lancia sviluppa e rinnova la
produzione di camion, compresi modelli stradali medi e pesanti
come gli Esatau e gli Esagamma, concorrenti lussuosi dei vari
Fiat e OM.
Aurelia ed Appia
furono rimpiazzate nel decennio successivo dalla Flaminia e
Fulvia, anch'esse con una storia gloriosa: una Flaminia
fuoriserie nera è ancora oggi la vettura da parata della
presidenza della Repubblica, mentre la Fulvia ebbe una
bellissima variante coupé portata sul gradino più alto del podio
in molti rally memorabili. Alla fine del 1960 nasce invece la
Flavia, creata dal prof. Antonio Fessia, la prima vettura
italiana di serie a trazione anteriore.
Nel 1969, la
famiglia Pesenti cedette la marca a prezzo simbolico al gigante
torinese, che in quello stesso anno comprò anche Autobianchi e
Ferrari. I primi modelli nati sotto l'egida Fiat furono la
Beta-Trevi (berlina, coupé, decappottabile e fast-back HPE) e la
Gamma come ammiraglia di lusso. In essi scompare parte
dell'originalità Lancia, ma le sinergie industriali permisero un
migliore controllo dei costi. L'immagine della marca continuò ad
essere legata alle corse, come ben testimonia la Lancia Stratos,
una straordinaria macchina da rally a motore 6 cilindri
Ferrari-Dino, campione del mondo 1977 e oggetto di culto per gli
appassionati. Ma il vero jolly commerciale fu trovato tre anni
più tardi: la compatta Delta, disegnata da Giugiaro su base
meccanica Fiat Ritmo (ma ampiamente rimaneggiata dalla allora
ancora esistente Lancia spa con il suo staff tecnico
indipendente) e presentata nel 1979, fu la prima auto ad avere a
quei tempi la convergenza regolabile su tutte e quattro le
ruote, infatti adottava anche per il retrotreno un sistema di
sospensioni progettato dall'Ing. Camuffo, notevole evoluzione
del McPherson. Essa fu un successo clamoroso, rimasto in
produzione per quattordici anni, con versioni sportive a
trasmissione integrale che fecero incetta di titoli mondiali
rally: sei consecutivi dal 1987 al 1992. La Prisma (poi
sostituita dalla Dedra) che affianca la Delta come auto di
classe media, la Thema (poi sostituita dalla K) come ammiraglia
dal grande successo e la Y10 che venne venduta in Francia,
Italia e Germania con il marchio Autobianchi furono gli altri
modelli coevi. Gli anni ottanta sono l'apogeo commerciale della
marca, che entrò nei primi quindici costruttori in Europa,
allorché l'intero gruppo Fiat occupava il primo posto davanti a
Volkswagen.
a Lancia ha molto
sofferto della grave situazione finanziaria che ha attraversato
il Gruppo Fiat dal 2000 al 2004 e a tutt'oggi è nel gruppo il
marchio con la gamma più ristretta, anche se con buoni risultati
commerciali e in piena fase "programma di rilancio". La Lancia
Delta La Lancia Phedra La gamma Lancia è formata per gran parte
da modelli costruiti su base in comune con le altre vetture del
Gruppo Fiat, ridisegnati e rivisitati e con opportune modifiche
anche tecniche al fine di creare prodotti più lussuosi rispetto
a quelli base dai quali derivano. L'ammiraglia della Lancia, la
Thesis, invece aveva un telaio tecnico specifico: si trattava di
un'auto con grandi ambizioni stilistiche, finiture di qualità e
molte innovazioni tecnologiche non prive di difetti di gioventù,
che però non ha trovato grande accoglienza da parte del pubblico
ed è stata ritirata dal catalogo nell'estate del 2009. L'azienda
trae profitto dalle più piccole Ypsilon (venduta in Italia in
più di 300 mila unità dal suo lancio nel 2003) e dalla
monovolume compatta Musa (derivata dalla Fiat Idea e diventata
la più venduta in Italia nel suo segmento)[1]). La gamma è
completata dalla grande monovolume Phedra modello gemello della
Fiat Ulysse. Modello sicuramente determinante per la casa, che
ha fatto molto discutere e ha portato molto interesse attorno a
se durante il suo lancio è stata sicuramente la terza
generazione della Lancia Delta, vettura dal design molto
ricercato e "personale" di forte impatto stilistico che sarà la
capostitipe dei futuri modelli Lancia. Anche alcuni motori
utilizzati sono in comune con quelli delle altre vetture del
gruppo Fiat: i 1.2, 1.4 16v e 1.3 multijet, da 65 a 105cv, per
le utilitarie, i 2.0 turbo, 3.2 v6 2.0 multijet, 2.4 jtd, da 185
e 2.2 multijet da 170cv (Phedra my'08), per le auto del segmento
più alto. Il 1.9 MJT Twinturbo da 190 CV e il potentissimo 1.8
Di-Turbojet da 200 CV debuttano proprio con la nuova Lancia
Delta. Per la mostra del cinema di Venezia del 2009, di cui
Lancia è uno dei principali sponsor, la casa apre un orizzonte,
quello della nautica, che non aveva mai esplorato. Presenta
infatti un motoscafo da 1120 cavalli costruito con un'azienda
del campo nautico e utilizzato per il trasporto delle star per i
canali della città sull'acqua. È dotato di numerosi comfort
quali angolo cottura, televisore e, ovviamente, un confortevole
salotto[2]. Nel futuro della casa si prospetta un consistente
allargamento della gamma grazie alle sinergie con il Gruppo (e
soprattutto il marchio) Chrysler. Tra il 2011 e il 2012,
infatti, saranno disponibili una nuova berlina di segmento D,
declinata anche in versione Cabrio, una grande berlina di
segmento E, erede della Thesis, un probabile crossover/SUV, la
nuova Ypsilon con carrozzeria a 5 porte nonché l'erede della
Phedra, su base Chrysler Voyager. |