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«Con gli anni che passano, con la consapevolezza e la maturità si inizia un viaggio di ritorno in cui uno deve fermarsi, conoscersi e dunque ridimensionarsi». È tempo di bilanci per Sergio Rubini che, presentando alla stampa il suo ultimo lavoro "L'amore ritorna", si mette a nudo parlando delle proprie origini, del rapporto con il padre, della ex-moglie Margherita Buy e naturalmente di cinema. È un Rubini malinconico, perdutamente innamorato della sua professione che crede nel cinema etico e che, nonostante qualche batosta presa, non ha perso la voglia di combattere.
Nel suo ultimo film la malattia permette al protagonista di osservare la propria vita come spettatore, lasciando per un attimo da parte il ruolo da attore che lo caratterizza professionalmente L'uscita di scena ci terrorizza. Perché sembra che quando non ricopriamo più un ruolo preciso (attore, medico, giornalista ecc...) non siamo più niente. E invece no: uscire dal proprio quadrato ci aiuta a comprendere megli noi stessi. La malattia, che ci accomuna nella nostra fragile umanità, può essere un buon momento per riflettere su noi stessi, sulla nostra vita.
Com'è nata l'idea di coinvolgere suo padre nel film? Tutto è nato per motivi "tecnici", nel senso che mi serviva un attore "autentico" di quell'età, che avesse origini Pugliesi. Premetto che mio padre è un ex ferroviere in pensione con la passione del teatro. Ho iniziato a fare l'attore grazie a lui che mi ha coinvolto tanto tempo fa nella realizzazione di in una commedia di Eduardo de Filippo. All'inizio, dopo qualche provino, devo dire la verità, non mi piaceva affatto. Non mi piaceva come recitava e ho pensato che il nostro rapporto padre-figlio potesse essere rovinato dal set. Là i ruoli si ribaltano: il regista è "il padre" di tutti gli attori che impegnati nel film. Io dovevo essere il padre di mio padre. Di fronte alle mie perplessità è stato decisivo Fabrizio (Bentivoglio n.d.r.) che insistito affinché mio padre partecipasse al film. Mi ha assicurato il suo aiuto e in effetti sono riuscito a gestirlo sul set proprio grazie a lui. Ogni volta che mio padre girava una scena non cercava il mio sguardo, ma l'approvazione di Fabrizio che è stato un po' il nostro tramite e ci ha permesso di portare a termine il lavoro senza snaturare il nostro rapporto.
Nel cast non c'è solo suo padre ma anche Margherita Buy sua ex moglie, nei panni della ex moglie del protagonista... Margherita per me è un po' come la Barbie: quando penso a un personaggio penso sempre a lei: va bene per tutto. Barbie in montagna, Barbie al mare, Barbie cuoca... Durante le prove abbiamo intrapreso un percorso particolare: abbiamo messo da parte la nostra amicizia e ci siamo concentrati sul lavoro sfruttando al massimo ogni occasione per provare. Spesso io e Fabrizio ci siamo presentati a sorpresa a casa di Margherita in Toscana e lei ci ha sopportato, è stata al nostro gioco. Abbiamo davvero lavorato sodo per questo film
Lavorare con un cast di questo calibro è stato impegnativo? Abbastanza facile convincerli a fare il film. Impegnativo dirigerli: venivo da un'esperienza di lavoro con "non attori", persone che sulla scena sono quello che sono nella vita quotidiana. Là ho capito che il mestiere dell'attore non c'è; la valigia dell'attore non esiste: la bravura degli interpreti consiste nello spogliarsi dei propri "abiti" e tornare alla nudità della propria personalità. Il mio compito, come regista, per tutta la durata del film è stato quello di aiutarli a ritrovare questa loro nudità.
Girare un film può aiutare a conoscere meglio se stessi? Il cinema è un campo di battaglia: chi lo fa si mette in discussione e mette in discussione il proprio mondo. La realtà non è riproducibile con il cinema. La si può rappresentare grazie ai ricordi. Ma quando utilizziamo i ricordi entra in scena il nostro mondo interiore che ci aiuta a mediarli. Il cinema è un'esperienza compensativa: è una sorta di autoanalisi. Grazie al cinema si può scoprire di essere quello che non si credeva affatto.
Nel suo film il personaggio che interpreti è migliore o peggiore di te? Io penso di essere meno in grado di parlare rispetto al mio personaggio. Credo però in un cinema etico che ci permette di supporre nello schermo cose migliori degli altri e di noi. Nella vita reale sono tutt'ora ammaccato: la guarigione del mio personaggio è una speranza per la mia.
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Alessandro
Gennari |