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Di Caprio nell'Olimpo 13 gennaio 2003
Sotto la guida di Scorsese e Spielberg, l'attore vive il suo grande momento. L'abbiamo incontrato
Erano trent'anni che Martin Scorsese voleva realizzare questo film: da quando aveva letto per la prima volta "Le gang di New York" di Herbert Asbury. «L'ho letto in una notte» ha confessato. Deve esserne rimasto davvero colpito. Passione, violenza, molta violenza, uomini, puzza e fame si incontrano in un quartiere malfamato di New York, i Five Points. Il risultato è un'esplosione di umanità: nella tragedia della lotta per la sopravvivenza e per il potere. Tanta cattiveria e barbarie raccontano qualcosa in più di New York, della genesi dell'America; qualcosa che si avvicina maledettamente alla natura umana.

Un film che fa dicutere e che ha ammutolito la platea di giornalisti accorsi all'anteprima stampa per vederlo: quasi tre ore di proiezione, dopo il silenzio. Scorsese, il mattatore è il re. Alla sua corte però Di Caprio brilla di luce propria, non solo di quella riflessa. Se n'era accorto tanto tempo fa Robert de Niro: «È sicuramente il migliore attore della nuova generazione, ha gli istinti giusti, devi lavorare con lui» aveva detto al regista americano. E lui, di solito non dice mai niente. L'abbiamo incontrato in Campidglio, alla presentazione del film: felice per il lavoro svolto, consapevole delle aspettative del pubblico su di lui.

Che cosa ti ha attratto in Amsterdam, il personaggio che hai interpretato in "Gangs of New York"?
Sicuramente il periodo storico in cui ha vissuto. Tutto merito di Martin Scorsese: per scorpire la vita di strada di quel periodo è diventato quasi un archeologo. Per me è stato davvero importante riscoprire quest'epoca di New York che era finita nel dimenticatoio e che non ti insegnano mai nelle high school americane.

Quale sono state le difficoltà che hai incontrato in questo ruolo? L'aspetto più difficile è stata l'iniziazione di Amsterdam, cioè integrare la sua psicologia di figlio di un immigrato irlandese chiuso per 15 anni in orfanotrofio in quel contesto storico particolare. Per questo sono state molto importanti le indicazioni di Martin Day-Lewis che mi ha aiutato a costruire il personaggio quasi come un samurai che sa tenere dentro le emozioni ma va avanti. Vuole vendicare la morte del padre ma ci sono molti avvenimenti che intanto cambiano il corso della storia. Alla fine però ce la farà.

Come è stato girare a cinecittà?
In confronto a Hollywood cinecittà è molto piccola. In compenso ci ha coccolato e ci ha permesso di studiare, cambiare e approfondire i personaggi e i rapporti tra di loro.

Nel film c'è molta violenza. Per questo in America ne è stata vietata la visione ad un pubblico troppo giovane. Secondo lei la violenza può essere alla base della democrazia? Cosa ne pensa della guerra in Iraq?
(Ride). Vorrei evitare di fare una dichiarazione troppo politica, ma penso che in America sia forte il patriottismo, a volte un po' cieco. Sono d'accordo con Sean Penn (il regista attore che ha inviato insieme ad altri colleghi una lettera aperta a Bush): occorre capire prima di inziare a sparare. Spero non ci sia la guerra.

Che cosa si prova a essere oggetto di desiderio di migliaia di ragazzine?
È fantastico avere questo tipo di appoggio, di sostegno. Penso che in fin dei conti sia proprio questo uno dei motivi per cui noi tutti facciamo film.

In base a cosa sceglie i copioni da interpretare?
Per quanto mi riguarda è un processo di semplice attrazione: il segreto sta nel sentirsi attratto dal personaggio che ti viene proposto.

Progetti futuri?
Lavorerò di nuovo accanto a Martin Scorsese per "The aviator", storia del bizzarro e ossessivo produttore hollywodiano Howard Huges.


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