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Virzì va in città 21 marzo 2003
Il regista di "Ovosodo" parla del suo ultimo film e accusa: «La politica dei privilegi in Italia è tutta uguale, sia a destra che a sinistra»
Paolo Virzì
Paolo Virzì è un personaggio interessante. I suoi film fanno ridere perché fa ridere lui, toscanaccio, arguto e sornione. Dopo lo strepitoso successo di "Ovosodo" annuncia il suo prossimo film, intitolato "Caterina va in città" dove racconta l'italietta dei privilegi, tipicamente romana, vista con gli occhi di una protagonista adolescente ingenua e vitale, che giunge dalla provincia viterbese (Caterina interpretata da Alice Teghill). Tra una battuta e l'altra il regista ci svela che, contrariamente a quanto sostiene Salvadores, non è poi così difficile dirigere giovani attori. E che certa politica, di destra o di sinistra che sia, è proprio tutta uguale. Lo abbiamo incontrato qualche giorno fa a Roma: ci ha parlato del suo nuovo film che dovrà uscire, salvo imprevisti, il prossimo autunno, e non solo...

A che punto è la tua ultima fatica, "Caterina va in città"?
Abbiamo cominciato le riprese da quattro settimane, questa è la quinta. In pratica siamo a metà dell'opera: spero di concludere entro la fine di aprile amche se a giugno dovremo girare alcune scene al mare. Il film infatti è interamente ambientato a Roma escluso il finale: lo gireremo a Montalto di Castro.

Ci puoi anticipare la trama?
È la storia di una tredicenne provinciale (Caterina) che si trasferisce nella capitale. Il film non è altro che la scoperta di Roma attraverso i suoi occhi, spinta dall'ambizione del padre. Sollecitata da lui farà infatti amicizia con le figlie dell'establishment politico capitolino. Caterina andrà a scuola e lì si ritroverà a studiare con due amichette, Margherita e Daniela, leader di due modi diversi di vedere e vivere la realtà (destra e sinistra), che se la contenderanno come un balocco.

Chi sono gli attori che fanno parte del cast?
Innanzitutto Alice Teghill, esordiente di tredici anni, che interpreta il ruolo della protagonista, Caterina. L'ho scelta dopo quattro - cinquemila provini nelle scuole medie del Lazio. Poi Sergio Castellitto nel ruolo di Giancarlo, il padre, che per tredici anni ha insegnato nel viterbese. Infine Margherita Buy, la madre Agata, casalinga di provincia: fuori dal set ascolta "Maledetta primavera" di Loretta Goggi per calarsi ancora più nella parte. Sinceramente, da un lato sono contento di averla per questo ruolo, ma dall'altro sono quasi dispiaciuto di aver intaccato questa icona di bellezza italica. Poi ci saranno Claudio Amendola, nella parte di un viceministro di AN, un po' burino ma promosso in politica grazie ad un buon matrimonio (felicissimo di accettare la parte nonostante nel film tifi Lazio), Michele Placido che interpreta se stesso e Maurizio Costanzo e Giovanna Melandri, ex ministro diessino, nell'inconsueto ruolo di attrice.

Chi è Caterina?
È cappuccetto rosso alla scoperta della città. E infatti, in una scena, si vede lei con un mantello e due grandi occhioni sgranati mentre passeggia per la capitale.

Salvadores sostiene che dirigere i bambini è a dir poco problematico. Cosa ne pensi?
Per me non è la prima volta: mi era già capitato. Mi sono salvato dicendo la verità. Il mio metodo è quello di cercare una totale complicità: li considero attori a tutti gli effetti. Chiedo loro di imparare la parte a memoria e di studiare il personaggio. E non sbaglio: hanno fatto in fretta a imparare i trucchi del mestiere. Alice (Caterina) cerca di farsi vedere sorridente anche "di quinta", proprio come un attrice professionista. E io per questo la prendo in giro. Poi, secondo me, a tredici anni, non si è più bambini. Il film nasce da questa consapevolezza: che a tredici anni si è delle persone vere e proprie, con tutte le contraddizioni, le problematiche che caratterizzano il mondo degli adulti. Non si è certo dei burattini.

Il film parla anche di politica. Ma quale politica?
È la politica romana, capitolina, fatta di piccoli e grandi privilegi. Non è la destra e la sinistra nazionale che sono molto più complesse. Il film è il ritratto dell'establishment cultural-politico capitolino. C'è un sentimento di sottofondo che ricorre in tutto il film: è un sentimento proprio degli italiani, un livore sordo, molto vicino all'invidia, alla frustrazione, all'esclusione, rispetto a chi ha questi privilegi. Gli italiani votano Berlusconi perché sperano di vincere alla schedina: sperano che un giorno tocchino a loro gli stessi privilegi che sta godendo lui.

Tu parli di un "livore sordo". Ma quanti persone sono interessate a questo tema? Nel senso: ci sono molte persone che sono nate nel mezzo ai privilegi...
È vero, sono d'accordo. Ma i privilegi, la corruzione, in Italia accomunano un po' tutti. Il candore provinciale di Caterina ci salverà. Lei sogna di cantare nel coro. E quando si chiude nella sua cameretta giosce per questo: è un suo segreto. È piena di grazia, riesce a stare al mondo nonostante tutto, gioisce delle piccole cose. Ecco che cosa ha di più chi non vive nei privilegi. La Capitale è corrotta: per fortuna che c'è Montalto di Castro.

Perché un film su Roma?
Questo tema mi interessa molto. Il perché è molto semplice: vengo dalla provincia. Noi provinciali manteniamo intatto nel tempo il nostro sguardo di stupore nei confronti del potere, della perdizione, della nomenclatura. Siamo affascinati ma a volte ci sentiamo esclusi da tutto questo. Ho deciso di raccontare questo sentimento largamente condiviso, tutto qui.

Come ti senti a girare un film mentre il precedente non è ancora uscito nelle sale?
Come una persona che aveva voglia di lavorare con un produttore per bene e finalmente c'è riuscito. Un film finito che non esce nelle sale è come una storia d'amore non consumata: spero che, grazie a Medusa, il pubblico possa vedere presto nelle sale "My name is Tanino". (qualche giorno fa è stato perfezionato l'accordo con Cecchi Gori Group -n.d.r.)

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