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Pino non Scaccia la paura 18 set 2004
Intervista all'inviato del Tg1 in Iraq: «Sono disposto a rischiare tutto per il mio mestiere, meno che la vita»
Paolo Nuti

La guerra è come la morte: ammutolisce tutti quelli che la conoscono. Poi ci sono quelli che la raccontano e che muti non ci possono stare: i giornalisti. Per natura, per mestiere e per fortuna di chi li sta ad ascoltare da casa. Tra di loro ce ne sono alcuni che, nonostante gli anni passati al fronte e le parole spese per gli orrori visti, continuano a commuoversi per la cattiveria umana. Pino Scaccia, inviato storico del Tg1 è uno di loro: il suo blog è seguito da centinia di persone che ammirano la sua umanità oltre che la professionalità. Gli abbiamo chiesto che cosa è il giornalismo di guerra, come lavora un inviato televisivo, quanto è disposto a rischiare per la sua professione. Ecco cosa ci ha risposto.

Sei parte in causa, ma come giudichi l'informazione mondiale sulla guerra in Iraq? E quella italiana?
Domanda difficile. Non è facile fare informazione in guerra. Perchè non esiste la verità assoluta e dunque una buona informazione è quella di dar conto, complessivamente, di entrambe le parti in conflitto. È chiaro che ciò è stato possibile dalla somma dei vari interventi: quelli di parte occidentale e quelli di parte araba. Non per spirito nazionalistico ma credo che tutto sommato, considerando la complessità della questione, la stampa italiana non si sia comportata male.

Fare l'inviato di guerra è una scelta, una missione o una sfida?
Intanto, per me l'inviato di guerra non esiste. È solo un'etichetta. Esiste l'inviato che va dove lo porta la notizia. In tanti anni da inviato ho seguito vari eventi, certamente anche le guerre che sono un evento speciale. Non si va in guerra con spirito particolare se non con la voglia, come sempre, di raccontare. Certo, bisogna prendere qualche accortezza in più ma non la considero una missione. Semplicemente un mestiere, magari un pò speciale. Personalmente mi sento un privilegiato: perché sono io il tramite tra la gente e l'evento, che racconto con i miei occhi e la mia anima.

Questa guerra a tuo avviso è più sporca delle altre? O sono tutte uguali?
Tutte le guerre sono sporche. E neppure ci sono buoni e cattivi. Questa guerra ci sembra più sporca perché la conosciamo di più, la vediamo passo passo, dal di dentro.

Hai paura? E se ne hai, hai paura della tua paura?
Guai se non avessi paura. È la paura a salvarti la vita. La paura ti insegna la prudenza, ti addestra nelle scelte di luoghi e persone. Il problema è quando non hai paura e ti senti immortale. Tutti noi abbiamo avuto la prima grande paura, quella decisiva. Ma non tutti purtroppo hanno avuto la possibilità di ricordarla e di farne tesoro.

Quanto dolore provi a fare questo mestiere e quanto sei disposto a rischiare per il tuo lavoro?
Il dolore c'è. E anche una fatica sovrumana talvolta. Devi provare emozione, per poterla trasmettere. Il dolore c'è ma deve restare dentro. Sono disposto a rischiare tutto meno che la vita. Ogni scelta è determinata dalla consapevolezza di restare vivo. Ma non ci sono regole. Spesso si rischia di più e non ci si rende conto. Scelte istintive. Forse, per esempio, ho sbagliato ad andare a Najaf quel giorno.

Perché secondo te gli estremisti si sono accaniti contro i giornalisti?
Perché quando è attaccato un giornalista è tutto enfatizzato. Chi vuole il terrore sa che colpendo i giornalisti hanno una grande cassa di risonanza.

I tui ultimi post, sul tuo blog, sono strazianti. Non ti viene un po' di rabbia pensando a chi, come noi, sta comodamente seduto sulla poltrona di casa mentre in Iraq succede quello che succede?
Rabbia assolutamente no, perché? La scelta è mia. Sinceramente neppure invidia perché credo di essere io il fortunato. Mi fa rabbia soltanto quando qualcuno che sta comodamente seduto in poltrona pretende di dare lezioni, di capirne più di noi che conosciamo posti, persone e situazioni. Questo non lo accetto.

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