Energia
nucleare?
Giorgio
Comella , 02 febbraio 2008
Questo
mese su Aprile, il mensile A poche settimane dal ventennale del
referendum
che ha abolito l'utilizzo, nel nostro paese, dell'energia
atomica,
si è riaccesa la discussione sull'opportunità di quella scelta. Ma
se
non si può far fronte al problema dell'esaurimento degli idrocarburi, si
può
agire sul fronte dei consumi energetici. E ci sono tante ragioni per
evitare
di farlo riabbracciando il nucleare
Abbiamo
appena celebrato il ventennale dal referendum dell'8/9 novembre del
1987,
che la discussione intorno a questa tecnologia si riaccende più
vigorosa
che mai.
Gli
elementi che spingono in questa direzione sono principalmente tre.
Il
primo è dato dagli schemi di sviluppo economico delle varie Nazioni che,
sia
per quelle tecnologicamente avanzate e sia per quelle più arretrate,
prevede
una sola direzione di marcia, basata su consumi energetici
progressivamente
crescenti.
Il
secondo elemento riguarda la preoccupante mutazione climatica del
pianeta,
in seguito ad emissioni climalteranti da combustione.
La
terza questione è relativa all'esaurimento dei giacimenti di idrocarburi
di
facile sfruttamento per rispondere alla crescita continua della domanda.
Questo
fenomeno, unito a quello speculativo indotto dalle Leggi di mercato,
ha
prodotto una dinamica di prezzi che ben difficilmente si fermerà alla
soglia
dei 100 dollari al barile attualmente raggiunti.
Il
rischio di collasso per l'intero sistema di crescita economica mondiale,
così
come concepito, sta diventando sempre più concreto ogni giorno che
passa.
E'
del tutto evidente che, mentre gli ultimi due elementi hanno connotati di
oggettività
che li rende ineludibili, per il primo è invece possibile
inserire
correttivi in grado di modificare in modo più che sensibile la
situazione.
Si
tratta in poche parole di esaminare i temi dell'energia sotto il profilo
del
risparmio, della razionalizzazione e del ricorso a fonti rinnovabili. La
questione non è per nulla marginale anzi, oltre a consentire una
riduzione
delle emissioni ed un miglioramento sul piano dei costi-ricavi,
questa
via aprirebbe spazi di economia e di lavoro inediti e rilevanti. In tutto
ciò il ricorso a tecnologie nucleari da fissione, che i suoi
sostenitori
ritengono valida soluzione "alternativa" all'uso dei
combustibili
fossili, rappresenta un'ipotesi del tutto anomala, di difficile
attuazione
e per nulla funzionale al superamento degli aspetti più negativi
dei
combustibili fossili stessi, quali la carenza, l'onerosità, e
l'inquinamento.
In
primo luogo una simile scelta sarebbe senz'altro ardua per l'Italia, dal
momento
che in questo ventennio si è completamente dispersa la conoscenza
tecnico
scientifica nel settore.
Quantomeno
per quanto riguarda la dimensione numerica degli operatori che
sarebbero
invece necessari.
Resta
poi da valutare il fattore sicurezza nel corso di vita delle centrali
nucleari.
Nonostante
oggi si parli di tecnologie di IV generazione, in grado di dare
garanzie
assolute circa il rischio di incidente, va preso atto che le
certezze
su questo fronte non esistono e che, già prima di Chernobyl, le
conoscenze
tecnologiche occidentali avevano prodotto reattori denominati "a
sicurezza
intrinseca", che furono poi successivamente modificati, superati e
scartati.
Anche
dal punto di vista delle emissioni il ciclo nucleare non si presenta
affatto
come "esente".
Chiaramente
il vocabolo "ciclo" diventa indispensabile se si vogliono fare
bilanci
reali e quindi comparazioni altrettanto reali tra l'energia nucleare
e
quella prodotta da combustione di idrocarburi.
Infatti,
dalle fasi di estrazione e lavorazione dell'uranio, a quelle per la
costruzione
di un impianto di grande complessità quale una centrale
nucleare,
fino alla trattazione, messa in sicurezza e sistemazione delle
scorie,
sono necessarie enormi quantità di energia.
Energia
ricavata in larga parte da fonti convenzionali, quindi con relative
emissioni.
E'
pertanto del tutto improprio e fuorviante comparare le emissioni prodotte
da
una centrale a metano con l'assenza di emissioni di una centrale atomica,
guardando
esclusivamente al loro periodo di funzionamento attivo.
L'estrema
complessità del ciclo nucleare si proietta poi anche sul piano dei
costi,
che sono ovviamente proporzionali e assolutamente superiori a
qualunque
altra tecnologia.
Va
preso atto inoltre della limitatezza delle riserve di uranio esistenti,
quantomeno,
così come per il petrolio, nell'ambito della facilità ed
economicità
di loro estrazione.
Detto
tutto ciò, il problema principale del nucleare, che ne sconsiglia
l'uso,
resta un altro: quello delle scorie radioattive prodotte dal ciclo di
funzionamento
della centrale.
Scorie
in forma di combustibile irraggiato e non più in grado di produrre
energia,
ma anche scorie composte da parti cospicue della centrale stessa
che,
al termine della sua vita funzionale, risultano ugualmente radioattive. Si
tratta di quantità enormi di materiali che emettono radiazioni mortali
per
archi di tempo lunghi quanto ere geologiche.
Radiazioni
che la scienza moderna non è in grado di neutralizzare, e
rispetto
alle quali non ha altre risposte se non quelle, alquanto primitive,
del
loro confinamento in aree remote, protette da schermature murarie.
Tuttavia, siccome i tempi di vita radioattiva degli isotopi hanno la
durata
di
decine e a volte centinaia di migliaia di anni, appare evidente a
chiunque
come non esista luogo sulla terra in grado di garantirci circa la
sua
stabilità idrogeologica e sismica, né esista manufatto umano in grado di
resistere
tanto.
C'è
da chiedersi a quale parametro di civiltà risponda la società
contemporanea
se per garantirsi oggi condizionatori, tv e telefoni in ogni
stanza,
rimandi alle generazioni successive un mostro pauroso, sapendo che
prima
o poi uscirà dalla sua gabbia.
Né
le operazioni che le conoscenze scientifiche di oggi consentono di fare,
quale
il riprocessamento del combustibile irraggiato, possono ritenersi
convincenti,
anzi.
Queste
tecnologie infatti, oltre ad essere molto costose e molto inquinanti,
come
dimostra la contaminazione del Canale d'Irlanda prospiciente al centro
di
riprocessamento di Sellafield, hanno come primo obiettivo l'estrazione di
elementi
fissili quali il Plutonio, insieme all'Uranio "impoverito"...:
elementi
che trovano impiego quasi esclusivamente nell'industria bellica.
Anche
sullo stato di vetrificazione finale delle scorie riprocessate ci sono
poi
valutazioni scientifiche contrastanti.
Infatti
la refrattarietà agli agenti chimici della matrice vetrosa, se da un
lato
ne garantisce la durata nel tempo, dall'altro presenterebbe molti
problemi
in più rispetto ad eventuali futuri, benché improbabili, progressi
scientifici
che ne consentano la neutralizzazione radioattiva.
Sotto
tutti gli aspetti pertanto, la tesi della conservazione a secco delle
scorie
così come sono, appare ancora come quella più economica e meno
rischiosa.
Sul
tema delle scorie nucleari ne sanno qualcosa i vercellesi, che da
decenni
ospitano la centrale E.Fermi a Trino, nonché il centro di ricerca
ENEA-EUREX
e il reattore sperimentale Avogadro a Saluggia.
La
centrale di Trino sorge su un terrapieno artificiale eretto sul greto del
Po.
Ha
funzionato pochissimo durante la sua vita attiva prima dell'87, ed
attualmente
è in attesa di essere smantellata, naturalmente dopo che sia
stato
deciso il luogo dove collocare i detriti radioattivi da demolizione e
le
47 barre di combustibile irraggiato ancora contenute nella sua piscina.
Per
l'ENEA-EUREX il discorso è invece molto più complesso.
Il
centro infatti era sorto oltre 30 anni fa con l'obiettivo di riprocessare
il
combustibile nucleare esaurito per estrarre e riutilizzare gli elementi
fissili
in esso contenuti.
L'operazione
non fu mai completata nell'intero ciclo previsto e si dimostrò
un
sostanziale fallimento.
Per
contro tuttavia produsse circa 230 metri cubi di scorie radioattive allo
stato
liquido, tutt'ora depositate in contenitori aperti di acciaio dentro
al
centro di ricerca, in attesa di essere solidificate attraverso un
processo
di cemetazione.
Si
tratta del problema più grande, poiché l'ENEA-EUREX sorge sul greto
della
Dora
Baltea e fu sommersa durante l'alluvione del 2000, creando un momento
di
vero panico tra le Istituzioni e il mondo scientifico del tempo.
Il
terrore di tutti era che il fiume potesse raggiungere e trascinare con sé
quei
230 metri cubi fino al Po, in cui la Dora si immette un paio di
chilometri
a valle, e da qui fino al bacino dell'Adriatico.
Per
capire meglio il livello di pericolo registrato in quell'occasione,
basta
andare a rileggere le varie dichiarazioni rilasciate alla Commissione
Parlamentare
dell'epoca, e tra le altre quella del Premio Nobel Carlo
Rubbia,
che usò termini quali "rischio planetario".
Scampato
il pericolo del 2000, la situazione ad oggi non è però affatto
tranquilla.
Recentemente
infatti la piscina dell'EUREX ha registrato ingenti perdite di
liquidi
radioattivi che sono entrati nelle falde idriche superficiali e
rilevati
a chilometri di distanza.
Un
guaio ulteriore che nessuno aveva previsto e che ha costretto ad un
rapido
"trasloco", da EUREX ad Avogadro, di tutto il combustibile
solido
irraggiato
per consentire lo svuotamento della piscina. Peraltro l'ex
reattore
Avogadro, che già ha svolto per anni la funzione di "pattumiera
nazionale"
ospitando, oltre al combustibile irraggiato della E.Fermi anche
quello
della centrale del Garigliano, è un impianto decisamente vetusto. A tal
punto che già nel 1995 era stato disabilitato a ricevere nuovi carichi
nucleari
e doveva essere gradualmente sgravato da quelli vecchi che già
conteneva.
Ovviamente,
sotto la spinta dell'emergenza, SOGIN ha deciso di soprassedere
alle
normali verifiche comparative tra siti con possibile maggiore sicurezza
(ad
esempio con la piscina della E.Fermi) optando per Avogadro e chiedendo
ad
APAT di rimuovere il vecchio divieto del '95.
Cosa
che APAT ha ritenuto di fare, riabilitando sia pure con grande
riluttanza
e per un periodo non superiore ai 3 anni, il decrepito reattore
sperimentale.
Va
rilevato infine che a poco più di un chilometro a valle di tale ridda di
improvvisazioni,
si preleva l'acqua che alimenta il più grosso acquedotto
del
Piemonte.
L'Acquedotto
del Monferrato serve infatti oltre 100 Comuni da una falda
abbastanza
profonda ma non così profonda da dirsi al sicuro rispetto alla
presenza
di isotopi radioattivi che, sia pure in misura contenuta, sono
presenti
nelle falde sovrastanti fino a oltre 20 metri di profondità Tutte queste
cose, insieme a molte altre, costellano le vicende legate alle
scorie
radioattive in Italia e portano a dire che il problema richiede
oramai
interventi più che tempestivi.
Tra
i tanti necessari e indifferibili, il punto focale resta comunque
l'individuazione
di un sito dove collocarle con il minor rischio possibile. Infatti,
benché in Italia sia stato prodotto un volume di scorie risibile,
se
comparato a quelli francese, inglese o tedesco, rimane tutt'ora aperto il
problema
del deposito unico e del luogo dove farlo sorgere. Problema non da poco se
ci ricordiamo della giusta sollevazione popolare in
risposta
alla rozzezza dei tentativi fatti dal generale Jean, prima in
Sardegna
e poi a Scanzano Ionico.
Solo
Bersani, nel 1999, quando era Ministro dell'Industria, tentò di
affrontare
la questione in modo corretto, attraverso una task force di
scienziati.
Questi
analizzarono l'intera penisola sotto il profilo idro geologico,
sismico,
antropico, giungendo ad individuare 214 siti potenziali che
avrebbero
potuto ospitare il deposito nazionale unico delle scorie nucleari.
L'operazione avrebbe dovuto proseguire con una lunga fase di comparazione
tra
i vari siti, da effettuarsi in trasparenza e con grande partecipazione
di
soggetti istituzionali, fino a giungere, per eliminazioni progressive,
all'individuazione
dell'area su cui costruire il deposito unico. Purtroppo la vicenda ha
subìto un rallentamento immediato e poi un arresto
definitivo
per i 5 anni del Governo Berlusconi.