Chiesa senza latino.
La nuova Messa compie trent’anni di Andrea Tornielli Apparso su
"Il Giornale"
Trent’anni fa il latino scompariva dalla liturgia
cattolica con l¹entrata in vigore del nuovo Messale Romano. Scelta
necessaria per tener fede all’aggiornamento voluto dal Concilio e
rendere effettiva la partecipazione dei fedeli durante le celebrazioni,
secondo i più. Decisione affrettata dagli esiti negativi, secondo i
tradizionalisti, alcuni dei quali, seguaci del vescovo Lefebvre, non
hanno mai accettato il nuovo rito che ha sostituito il Messale di San
Pio V. Trent’anni dopo la riforma è ancora difficile tentare un
bilancio di quanto è avvenuto, dei tanti aspetti positivi ma anche
degli abusi che in taluni casi hanno portato, per usare le parole del
cardinale Joseph Ratzinger, a una "Messa degenerata in show".
Gli anni dell’immediato postconcilio sono stati difficili: un’intera
generazione di sacerdoti si è sentita libera di inventare e la liturgia
cattolica, invece che un tesoro da custodire, è stata considerata
terreno di sperimentazione. Si sono improvvisate le Messe beat e ye-ye.
Nelle chiese sono entrate chitarre elettriche e batterie; la secolare
tradizione del canto gregoriano è stata spazzata via da canzoni melense
e da testi pieni di ovvietà buoniste. La liturgia della parola (le
letture e l¹omelia) ha occupato gran parte del tempo della Messa,
relegando a pochi sbrigativi minuti la consacrazione dell’Eucarestia.
Non è dunque un caso se da molte parti, oggi, arrivano richiami per una
maggiore attenzione in campo liturgico. Il cardinale Carlo Maria
Martini, arcivescovo di Milano, un prelato sul quale mai potrebbe pesare
il sospetto di affinità con i tradizionalisti, nella sua ultima lettera
apostolica scrive: "Quanto è importante una celebrazione liturgica
che nei tempi, nei gesti, nelle parole e negli arredi riflette qualcosa
della bellezza del mistero di Dio!". E il cardinale Dionigi
Tettamanzi, arcivescovo di Genova, nelle lettera pastorale per il
Giubileo, raccomanda "un amore più vivo ed una cura più intensa
per il rito liturgico, così che possa veramente diventare un segno del
grande Mistero che si compie, difendendolo da tutto ciò che sa di
improvvisato, di trasandato, di sciatto, di sbrigativo.". "In
particolare - aggiunge Tettamanzi - la liturgia dev’essere vera, e
perciò stesso bella e gioiosa: non certo della gioia scomposta e
rumorosa, ma della gioia che è riflesso del gaudio spirituale che
scaturisce dall’incontro con Dio.". Una lunga riflessione sulla
necessità di riscoprire il vero senso della liturgia, oggi smarrito, è
stata pubblicata da un altro porporato illustre, il cardinale Godfried
Daneels, arcivescovo di Bruxelles. E nel testamento spirituale del
cardinale inglese Basil Hume, scomparso alcuni mesi fa e considerato
vicino alle istanze progressiste, si leggono espressioni preoccupate
sulla scomparsa della "Venerazione di fronte all’Eucarestia.".
Se quasi tutti oggi concordano sulla necessità di una maggiore
attenzione e cura nella celebrazione della Messa e di questa
sensibilità si fanno portatori soprattutto i sacerdoti più giovani,
che non hanno vissuto la tempesta sessantottina nella Chiesa, i giudizi
invece divergono quando si cerca di giudicare quanto avvenuto. E¹
innegabile, infatti, che il Concilio Vaticano II abbia voluto mantenere
la lingua latina, traducendo nelle lingue nazionali soltanto alcune
parti della Messa. Al paragrafo 36 della Costituzione apostolica
conciliare Sacrosanctum Concilium si legge: "L’uso della lingua
latina, salvo diritti particolari, sia conservato.", e, al
paragrafo 54: "Si abbia cura che i fedeli sappiano recitare e
cantare insieme, anche in lingua latina, le parti dell¹Ordinario della
Messa che spettano ad essi.". In favore di questo importante
documento, abbastanza dimenticato anche da coloro che si richiamano in
ogni momento al Concilio, votarono ben 2147 vescovi, i contrari furono
soltanto 4. Dunque i padri conciliari all¹unanimità desideravano che
il latino fosse mantenuto. Nella fase applicativa della riforma, però,
questa volontà fu disattesa. Il vero protagonista dell’aggiornamento
liturgico fu il vescovo Annibale Bugnini, factotum del Consilium ad
exaequendam Constitutionem de Sacra Liturgia, cioè dell¹organismo che
doveva tradurre i dettami conciliari e preparare il nuovo testo del
Messale Romano. Che l¹operato di Bugnini non sia stato apprezzato fino
in fondo dalle più alte autorità della Chiesa lo si deduce dal fatto
che nel 1976, invece di essere premiato con la porpora cardinalizia,
l¹artefice della riforma venne esiliato come pro-nunzio apostolico in
Iran. In un corposo volume, pubblicato postumo (La riforma liturgica ),
Bugnini difese l¹attuazione dell’aggiornamento ed il proprio operato.
Una luce molto diversa e molto più critica appare invece dalla pagine
di un altro libro, Il card. Ferdinando Antonelli e gli sviluppi della
riforma liturgica dal 1948 al 1970, pubblicato un anno fa dal frate
cappuccino Nicola Giampietro, officiale della Congregazione vaticana per
il culto divino. Il frate ha avuto accesso ai diari del cardinale
Antonelli, morto nel 1983, un prelato che visse dal di dentro tutta la
fase dell’applicazione della riforma liturgica. Da quelle note emerge
uno spaccato ben diverso dei lavori del Consilium, definito "un
raggruppamento di persone, molte delle quali incompetenti², dove si
tenevano "discussioni molto affrettate. Discussioni in base ad
impressioni, votazioni caotiche. Le votazioni si fanno per alzata di
mano, ma nessuno conta chi l¹alza e chi no, e nessuno dice tanti
approvano e tanti no. Una vera vergogna. Non si è mai potuto sapere, e
la questione è stata posta molte volte, quale maggioranza sia
necessaria, se dei due terzi o quella assoluta.". Il I novembre
1967 il cardinale Antonelli, che - va ricordato - era uno dei fautori
delle lingue nazionali nei libri liturgici, annota nel suo diario:
"Confusione. Nessuno ha più il senso sacro e vincolante della
legge liturgica. I cambiamenti continui, imprecisi e qualche volta meno
logici e il deprecabile sistema, secondo me, degli esperimenti, hanno
rotto le dighe e tutti più o meno agiscono da arbitro.". Questo è
il clima nel quale si è sostituito l’antico Messale con il nuovo e si
è arrivati alla scomparsa totale del latino dalla liturgia. Persone
spesso "incompetenti" che volevano finire in fretta e
decisioni prese senza votazioni certe. La scomparsa del latino ha fatto
sì che oggi quasi nessuno sia in grado di recitare il Gloria, il Credo
e il Pater Noster in quella che per diciotto secoli è stata la lingua
della Chiesa, in un frangente, come quello del Giubileo, che vedrà
affluire a Roma pellegrini da ogni parte del mondo. ³Purtroppo è
innegabile - spiega al Giornale il cardinale austriaco Alfons Stickler,
che fu perito della commissione liturgica preparatoria del Concilio -: l’esito
della riforma non è stato quello stabilito dai padri conciliari.
Bisognerebbe ritornare alla volontà del Vaticano II.". Di fronte
alle richieste dei gruppi tradizionalisti e allo scisma creato da
Lefebvre, Giovanni Paolo II nel 1988 ha concesso uno speciale indulto
che consente ai vescovi di permettere a certe condizioni la celebrazione
antica secondo il Messale di San Pio V. Messe in latino alla vecchia
maniera vengono dette a Roma, Milano, Padova, Torino, Genova, Bologna,
Firenze, Siena. Ma il Messale di San Pio V è stato mai abolito? In una
lettera del giugno scorso, scritta ad un vescovo italiani dal cardinale
Jorge Arturo Medina Estevez, prefetto della Congregazione per il culto,
si legge che "il Missale Romanum anteriore al Concilio Vaticano II
non è più in vigore come un’alternativa di libera scelta.". E
questo nonostante non esista un atto esplicito di abolizione. Il
cardinale Stickler, da canonista, precisa: "Nel 1986 il Papa
incaricò una commissione di nove cardinali di stabilire se fosse
realmente proibito celebrare l’antica Messa tridentina. Otto cardinali
su nove dissero che quella Messa non era stata mai abolita. E tutti
concordarono nell’affermare che nessun vescovo può proibire a un
sacerdote di celebrare secondo l¹antico Messale.". "Certo -
aggiunge - quando il prete celebra la Messa per la comunità il
responsabile è il vescovo e dunque per utilizzare il Messale di San Pio
V il sacerdote deve essere autorizzato. Mentre ciò non vale se si
tratta della Messa celebrata privatamente.". Questo revival dell’antico
fa storcere il naso a molti. E può dare adito al sospetto che dietro la
richiesta di celebrare secondo l’antico rito si nasconda la volontà
di rifiutare altri aspetti dal Vaticano II o di fare della vecchia
liturgia una bandiera per nostalgici gruppi culturali e politici.
"I piccoli ma vocianti gruppi che non hanno mai accettato il
Concilio - sentenzia il vescovo benedettino di Milwaukee, Rembert
Weakland - hanno preso la concessione del Papa come un segnale, che il
Concilio potesse essere revocato o, per lo meno, reinterpretato.".
Trent’anni dopo l’entrata in vigore della riforma che ha abolito il
latino e modificato canoni e preghiere, i tradizionalisti, che
attribuiscono alla nuova Messa il fatto che le chiese siano sempre più
vuote, assicurano che stanno aumentando le richieste di celebrare
secondo il vecchio rito. I vescovi ritengono invece che la voglia d’antico
sia un fenomeno circoscritto, destinato a tramontare presto.
Secolarizzazione e scristianizzazione hanno trasformato anche l’Europa
in terra da evangelizzare. Pensare di risolvere il problema delle chiese
vuote a colpi di incenso e latinorum - dicono i pastori - è quantomeno
ingenuo.