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La più antica cattedrale di Napoli fu fatta erigere
e venne riccamente dotata dall’imperatore Costantino I (306-337), non si
conosce la data precisa ma sicuramente dopo la pace della Chiesa. Sorse
sull’area di un tempio forse dedicato ad Apollo. Non è nota
l’intitolazione di questa prima cattedrale; secondo alcune fonti sarebbe
stata dedicata al Salvatore secondo altre ai Santi Apostoli. Tra la fine
dell’VIII secolo e l’inizio del secolo successivo prese il titolo di Santa
Restituta in memoria della vergine e martire africana, le cui reliquie
giunsero in Campania portate nel 439 dagli esuli della persecuzione del re
Vandalo Genserico. Dalle fonti si apprende che una seconda cattedrale fu
costruita, nell’ambito della stessa area urbana, dal vescovo Stefano I
(499-501). Sappiamo che aveva l’abside orientata ad oriente, che fu
dedicata al Salvatore, e la data della dedicazione secondo il calendario
marmoreo cadeva il primo dicembre; è nota tra gli storici con il nome del
fondatore: Stefania. Di questa monumentale basilica si sa poco, e le
scarse notizie sono affidate per lo più al Liber pontificalis. Era
unita alla Cattedrale costantiniana da un atrio comune quadriportico
decorato a mosaico. Nelle cronache coeve venne magnificata e definita come
opera "di meravigliosa bellezza". Era parallela a Santa Restituta, divisa
da questa da una strada di epoca tardo imperiale di cui resta ancora
qualche traccia, e dal complesso battesimale di San Giovanni in Fonte.
Le due cattedrali erano gestite da due cleri
distinti ma amministrate da un unico vescovo. La sistemazione delle due
chiese fa presumere che ci si trovi dinnanzi ad una particolare situazione
chiamata a "basiliche doppie", di cui ci restano testimonianze nei
complessi episcopali di Treviri e di Aquileia. Secondo il Farioli (1978)
alla duplicità delle basiliche avrebbe corrisposto una duplicità di
funzioni liturgiche: chiesa per la liturgia festiva la maggiore (Santa
Restituta) e chiesa per la liturgia feriale la minore (Stefania). Quest’ultima
veniva anche definita come domestica ecclesia in quanto annessa
alla residenza episcopale. Sappiamo inoltre che l’abside era decorata da
un mosaico raffigurante la Trasfigurazione di Gesù sul monte Tabor, voluto
dal vescovo Giovanni II (533-555).
Verso la fine dell’VIII secolo la Stefania fu
distrutta, forse nella notte del sabato santo, da un incendio causato da
un cero pasquale. Il vescovo Stefano II (767-800) a sue spese la ricostruì
a tre navate, scandite da sei colonne per lato. Altre fonti retrodatano di
alcuni anni la sua distruzione e ricostruzione attribuendola sempre a
Stefano II ma quando ricopriva ancora la carica di Duca della città
(755-766); questi fu il primo Duca di Napoli resosi indipendente da
Bisanzio e si tramanda facesse parte della famiglia Capece Minutolo. A
metà del IX secolo il vescovo San Giovanni IV lo Scriba (842-849) collocò
nella Stefania i resti mortali dei vescovi suoi predecessori prelevandoli
dalla cosiddetta "cripta dei vescovi" delle catacombe di San Gennaro a
Capodimonte; le tombe erano ornate da immagini raffiguranti i singoli
presuli
Collocazione
La cattedrale di Napoli è collocata in una piccola
rientranza porticata dell’ottocentesca via Duomo, un’arteria pensata in
età borbonica ma realizzata solo con lo sventramento della città nei primi
decenni dell’Unità d’Italia. Dedicata all’Assunta, sorge nel cuore della
città greco romana, tra il "decumano" superiore (via Anticaglia) e il
"decumano" maggiore (via Tribunali), tra i "cardini" vicus Radii Solis
(l’attuale via Duomo) e vicus Plateae Capuanae (l’attuale vico
Sedil Capuano), insistendo sul limite settentrionale dell’area del foro.
Quest’area rimase il fulcro della vita cittadina fino allo spostamento
della residenza reale, ad opera Carlo I d’Anjou (Castel Nuovo) alla fine
del duecento. In epoca alto medioevale l’intera zona prendeva il nome di
platea Summae platae ed era caratterizzata da copiosi edifici
fortificati sia di culto che magnatizi.
Il Duomo e i terremoti
Il luogo dove oggi si erge maestoso il duomo ha
ospitato fin dall’antichità numerosi edifici sacri: svariati templi pagani
prima e successivamente l’oratorio di Santa Maria del Principio, che la
leggenda vuole fosse officiato dal primo vescovo della città Sant’Aspreno,
la basilica costantiniana di Santa Restituta, la Stefania, il battistero
di San Giovanni in Fonte, vari oratori e cappelle. Una parte di questi
edifici preesistenti ancora sopravvive inglobata nelle fabbriche
dell’attuale cattedrale e dell’episcopio; gli altri monumenti sono andati
perduti nelle risistemazioni dell’area succedutisi nel tempo, ne resta
memoria solamente dalle fonti e dagli scavi effettuati in loco. Alla fine
del XVII secolo risalgono delle annotazioni del canonico Carlo Celano.
Questi scrisse che durante la preparazione del cenotafio del Cardinale
Antonio Pignatelli (1686-1691), diventato papa con il nome di Innocenzo
XII, dietro suo invito, nel 1687, scavando tra il pulpito e il trono
marmoreo dal lato del transetto sinistro, si rinvenne a quattro palmi di
profondità un pavimento "di lapilli battuti, che da noi viene detto
astrico". Scavando ancora per tre palmi si rinvenne un’altra
pavimentazione a mattoni, e dopo altri cinque palmi all’incirca "un
pavimento di marmo cipollazzo e bianco" , inoltre osservò tracce di
murature in laterizio e una pavimentazione in opus vermiculatum
ricoperta poi dalla ripavimentazione del duomo. L’intera insula del
duomo ha subito nel corso della sua storia molti e non sempre riusciti
restauri, seguiti alle numerose eruzioni del Vesuvio o a disastrosi
terremoti.
Come esempio basti pensare alla Cronaca del Villani:
questa ci rende noto che il cantiere del duomo si era chiuso da pochi
decenni, quando nel 1349 un grave sisma fece crollare la primitiva
facciata di epoca angioina con la torre campanaria. Angelo di Costanzo ci
narra che nel 1456, durante il periodo del regno degli Aragonesi, un nuovo
terremoto "fece cadere in Napoli l’arcivescovado". San Giacomo della
Marca, popolare predicatore francescano e testimone oculare dell’evento,
ci ragguaglia intorno alla gravità dell’evento e alle conseguenze sulla
vita cittadina: 62.000 case lesionate o distrutte e circa 130.000 vittime.
Inoltre crollò nuovamente la torre del duomo e si ruppero moltissime
suppellettili sacre; solo le ampolle del sangue di San Gennaro
miracolosamente scamparono: furono salvate da una trave che cadendo
obliquamente andò a creare una sorta di architrave sopra di loro.
L’arcivescovo Alessandro Carafa (1484-1505) congiuntamente al Pontefice
Innocenzo VIII (1484-1492), appartenente alla famiglia Capece Minutolo, ne
patrocinarono il restauro: per rafforzare e consolidare la struttura
muraria: furono ristretti le grandi finestre e furono divisi alcuni vani.
Il terremoto del 1688 ebbe effetti devastanti sulla cattedrale. I
cerimonieri della chiesa trascrissero nelle loro note che "cascò tutto il
pulpito, buona parte del muro e della croce nella parte sinistra, si
spaccarono ambedue le lamie delle navi, nella chiesa non si poteva
officiare". A ogni sisma seguivano lavori di restauro più o meno accurati,
tuttavia spesso questi non impedivano il riaprirsi delle lesioni in
occasione dei successivi terremoti, come puntualmente si verificò nel
1732, nel 1805, nel 1930 e persino nel 1980.
La fabbrica del Duomo
La costruzione della cattedrale durante il dominio
degli angioini intaccò in varia misura le due preesistenti basiliche:
Santa Restituta fu notevolmente accorciata dall’eliminazione di alcune
campate, la Stefania venne completamente demolita, perché coincise con lo
sviluppo architettonico del transetto del nuovo edificio sacro. I
rimanenti terreni ed edifici su cui andò a prendere corpo la fabbrica
erano di proprietà della famiglia Capece Minutolo, al tempo ancora
conosciuta come famiglia Capece, poi dall’arrivo degli Anjou Minutolo,
proprietaria di gran parte dell’insula interessata dall’imponente
edificio; gli alti prelati della famiglia, Sommi Pontefici, Cardinali e
arcivescovi, contribuirono in maniera decisiva alla realizzazione del
Duomo finanziandone la realizzazione per buona parte con risorse
personali. In un documento del 1299 Carlo II di Anjou rivendicava al Suo
Regno la fondazione della nuova cattedrale di Napoli. Sappiamo infatti che
per la costruzione della nuova fabbrica impose il tributo di un 44° di
grano alla settimana per ogni famiglia. Ma verosimilmente essa fu iniziata
precedentemente durante il Regno del fondatore della dinastia angioina,
Carlo I. Le parti più antiche della chiesa forse risalgono agli anni
Settanta del XIII secolo: la tribuna e le cappelle vicine. Tali ambienti,
sebbene rimaneggiati più volte, mostrano ancora la felice mano dei maestri
del gotico transalpino venuti a Napoli a seguito degli Anjou. La
costruzione proseguì durante il regno di Carlo II (1285-1309) e di Roberto
(1309-1343), sotto cui probabilmente va attribuito il completamento
dell’edificio.
Gli artisti ed architetti impiegati furono
all’inizio prevalentemente di origine francese, ma nel corso degli anni
vennero sostituiti da locali o italiani in genere. Nel 1314 la Cattedrale
fu solennemente dedicata all’Assunta ad opera dell’arcivescovo Umberto d’Ormont
(1308-1320), originario della Borgogna. Tale dedica fu confermata nella
consacrazione della chiesa, avvenuta il 28 aprile 1644 ad opera del
Cardinale Ascanio Filomarino (1641-1666). É da segnalare però che il
canonico Carlo Celano riteneva plausibile che i lavori fossero iniziati
durante il regno degli Svevi
La facciata
Le origini
Questa è la parte del duomo che nel corso dei
secoli, attraverso successivi rimaneggiamenti e restauri, è stata oggetto
delle trasformazioni più radicali. L’originaria facciata trecentesca del
duomo andò quasi completamente perduta probabilmente già dal terremoto del
1349. Ne sopravvivono solamente alcune decorazioni: i leoni stilofori del
portale maggiore, che però forse provengono dalla distrutta tomba di Carlo
Martello, e la marmorea Madonna con Bambino (Mater orbis) nella lunetta
centrale, opera dello scultore senese Tino di Camaino, attivo a Napoli dal
1323 fino alla morte, avvenuta nel 1337. Il completamento della parte
inferiore avvenne durante il regno di Ladislao di Durazzo su commissione
del Cardinale Enrico Minutolo (1389-1412) e di suo cugino il Pontefice
Bonifacio IX, come attestano le numerose armi di famiglia scolpite nel
marmo sia esternamente che internamente. Ne fu artefice Antonio Baboccio
da Piperno, che lavorò alla facciata fino al 1407. Questi realizzò tutte
le altre parti che compongono il portale maggiore: la cuspide, i gruppi di
angeli in rilievo, le figure dei Santi Pietro e Gennaro con il Cardinale
Enrico Capece Minutolo e il clipeo superiore con l’Incoronazione della
Madonna. La parte superiore non trovò un definitivo completamento a causa
della morte tanto dei committenti quanto del Baboccio e subì inoltre gravi
danni durante il terremoto del 1456: tutte le vedute successive mostrano
la parte sovrastante della facciata del duomo incompleta, completamente
spoglia di qualsiasi decorazione.
Un tentativo di intervento di abbellimento della
facciata fu operato nel 1788 dall’architetto Tommaso Senese su incarico
del Cardinale Giuseppe Capece Zurlo (1781-1801). L’intervento si limitò
però solamente alla messa in opera di cornicioni che stilisticamente
andavano ad imitare il gotico della parte bassa.
Il completamento
Per vedere la facciata completata si dovette
aspettare Enrico Alvino che ricevette l’incarico dal Cardinale Sisto
Riario Sforza (1845-1877), avendo vinto il bando di concorso per il
completamento della stessa nel 1876 subito prima di morire. La data della
posa della prima pietra viene ricordata da una incisione alla base della
colonnina del torrione di sinistra e fu benedetta dall’arcivescovo il 7
luglio 1877. L’epigrafe venne in parte danneggiata il 4 agosto 1943 da un
bombardamento alleato. Alvino basò il suo progetto nell’avvolgere i
monumenti tre-quattrocenteschi della facciata in una svettante cornice neo
gotica, arricchendo la struttura di guglie, edicole e cuspidi.
Sfortunatamente non fece in tempo ad abbellire il retro della stessa nella
sua parte somitale: ancora oggi guardando la facciata dall’arcivescovado
sembra ancora che il cantiere non sia stato completamente chiuso. L’opera
fu completata, a causa della morte dell’artista, da Giuseppe Pisanti, che
anche apportò alcune lievi modifiche al progetto iniziale. Sebbene
mancante ancora delle guglie laterali e di altre decorazioni fu benedetto
dal Cardinale Giuseppe Prisco (1898-1923) il 18 giugno 1905 per
festeggiare il XV centenario del martirio di San Gennaro
Descrizione
La facciata del duomo è larga m 46,50 ed è alta
circa m 50. È dotata di tre portali: uno centrale e due laterali. Il
portale di sinistra ha sulla cuspide San Giovanni IV lo Scriba, nelle
edicole i Santi vescovi Pomponio e Nostriano, sculture di Domenico Jollo.
Nel medaglione vi è il busto del Salvatore in ricordo della Stefania a cui
era dedicata. Nella lunetta è posta una statua raffigurante Sant’Atanasio
attribuita ad Antonio Baboccio. Il portale di destra ha sulla cuspide
Sant’Eustazio, nelle edicole i Santi vescovi Fortunato e Massimo, sculture
di Alberto Ferrer. Nella lunetta è posta una statua raffigurante Sant’Aspreno
attribuita ad Antonio Baboccio. Entrambi i portali sono in asse con le
navate laterali e le cappelle absidali dedicate ai Santi raffigurati dalle
statue. La porta di destra viene aperta solamente per le festività
inerenti il culto di San Gennaro; deve essere aperta anche nei seguenti
casi eccezionali: la fruizione di una funzione religiosa da parte di un
membro della famiglia reale regnante o il matrimonio di un Capece Minutolo.
L’ultima apertura eccezionale autorizzata ufficialmente risale al primo
luglio del 2000, in occasione delle nozze dell’attuale detentrice del
titolo di Principessa di Canosa Irma Capece Minutolo, nipote di sua maestà
Farouk di Egitto. Queste sono state officiate congiuntamente dal Parroco
del Duomo Don Domenico Felleca e da Monsignor Vittorio Formenti in
rappresentanza della Curia del Vaticano e del Santo Padre Giovanni Paolo
II che ha benedetto personalmente l’unione. Nel torrione di sinistra,
sulla bifora, gli angeli ai lati della cuspide sono di Salvatore Irdi. Nel
tondo vi è un busto raffigurante Santa Restituta di Michele Busciolani.
Sul fianco Tommaso Solari scolpì il bassorilievo
dell’imperatore Costantino, che fece costruire Santa Restituta: la prima
cattedrale napoletana. Nel torrione di destra, gli Angeli con i simboli di
San Gennaro sono di Stanislao Lista. Nel tondo vi è il busto di San
Gennaro di Antonio Busciolano. Sul fianco, di Tommaso Solari, il
bassorilievo del vescovo Stefano I, fondatore della seconda cattedrale
napoletana.
Interno
Introduzione
La navata centrale è larga 15 metri, le navate
laterali 7,25 metri ciascuna. Guardando l’interno della cattedrale ci si
accorge immediatamente che è stata rimaneggiata frequentemente nel corso
dei secoli. Non solo i restauri seguiti a eventi calamitosi ne hanno
modificato più volte l’impianto originario, ma anche numerosi
ammodernamenti realizzati nel corso dei secoli hanno concorso a offrire
una immagine spesso disarticolata ma incredibilmente affascinante.
L’interno si presenta a croce latina a tre navate con una profondità di
circa 100 metri; esattamente secondo l’impianto trecentesco originario. Le
navate sono separate da sedici pilastri, otto per lato, su cui poggiano
gli archi ogivali; nei pilastri sono incorporate 110 colonne di granito
orientale e africano, spoliate dalla demolita Stefania. Il soffitto
originariamente si presentava a capriate lignee. Nel 1621 il Cardinale
Decio Carafa (1613-1626) fece realizzare il soffitto a cassettoni, che
ancora oggi copre la navata centrale e il transetto. Sul finire del XVII
secolo il Cardinale Innico Caracciolo (1667-1685) fece rivestire di
stucchi barocchi le strutture gotiche. Dopo il terremoto del 1732 il
Cardinale Giuseppe Spinelli (1734-1754) risistemò l’area dell’abside. E
dopo di lui il Cardinale Antonino Sersale (1754-1775) ricoprì di marmi i
basamenti dei pilastri gotici. L’ultimo rimaneggiamento di ampio respiro
fu eseguito nel XIX secolo. Nelle intenzione dei promotori questa
trasformazione doveva riportare il duomo all’originale splendore gotico.
Il tentativo però non andò a buon fine ma rese
ancora più difficile la lettura del monumento. Fu iniziato dagli
architetti Curcio e Cappelli su incarico del Cardinale Filippo Giudice
Caracciolo (1833-1844) e consisté nella rimozione degli stucchi e degli
intonachi con cui nel XVII secolo si erano coperte le colonne e
nell’applicazione di marmi e stucchi ai pilastri. Continuò poi
l’architetto Iaccarino su incarico del Cardinale Sisto Riario Sforza
(1847-1855). La struttura gotica primitiva è visibile nella prima campata
della navata di sinistra. Nel corso dell’ultimo restauro, eseguito
dall’ingegnere Roberto Di Stefano nel 1969, sono stati messi in luce i
vari livelli di intervento
La controfacciata
Sul portale maggiore all’interno della facciata si
vedono: in alto è collocato il monumento sepolcrale di Carlo I d’Anjou
(morto nel 1285), nel centro a destra il monumento di Carlo Martello re
d’Ungheria (morto nel 1296), mentre a sinistra è posta la sua consorte
Clemenza d’Asburgo (morta nel 1295). Questi monumenti sono un ottimo
esempio della scultura tardo manieristica napoletana e rappresenta l’unico
elemento di spicco della controfacciata. Originariamente le tombe erano
collocate nell’area dell’abside, esattamente nella cappella di San
Ludovico (la sacrestia maggiore), quindi poi erano state spostate nei
depositi della cattedrale. L’attuale sistemazione monumentale fu eseguita
da Domenico Fontana nel 1599 su incarico del viceré di Napoli Enrico di
Gusman conte di Olivares e del suo successore il viceré Fernando Ruiz de
Castro. A ricordo del restauro venne posta una epigrafe in latino. Unici
altri elementi di spicco nella controfacciata sono gli stemmi dei Principi
Capece Minutolo e l’epigrafe commemorativa della visita del Santo Padre
Giovanni Paolo II.
La pavimentazione e le lastre tombali
L’attuale sistemazione del pavimento della
cattedrale risale al 1952 e fu voluta dal Cardinale Alessio Assalesi
(1924-1952), Il fatto è ricordato da una epigrafe marmorea posta nei
pressi della porta centrale. All’ingresso della chiesa è posta la pietra
tombale della famiglia Guindazzi, sostituita nel 1633. Al centro della
navata è una posta una grande epigrafe circoscritta da una cornice
ottagonale in marmo grigio. In essa si afferma che donna Ciarletta
Caracciolo nel 1433 fornì alla cattedrale un pavimento a mattoni, rifatto
dai discendenti nel 1603 durante l’episcopato del Cardinale Alfonso
Gesualdo (1596-1603); fu nuovamente sistemato dal Cardinale Innico
Caracciolo nel 1681, con marmi bianchi e lavagnoni grigi di Carrara. La
famiglia Caracciolo accampava diritti di giuspatronato sull’intero
pavimento del duomo, rivendicando il privilegio di collocarvi lapidi e
stemmi di famiglia. Per frenare tale invadenza il Cardinale Spinelli fece
eseguire a sue spese, nel 1744, una risistemazione del pavimento del coro
e del transetto ai piedi della tribuna; nella circostanza furono rimossi
numerosi altari di patronato laicale che ingombravano gli ambienti,
addossati alle pareti o ai pilastri. Questa ripavimentazione non andò a
toccare le lapidi ed il giuspatronato esercitato dei principi Capece
Minutolo nella zona antistante la Cappella di famiglia. Segue l’antico
sepolcro degli ebdomadari della cattedrale, risalente al 1414, rifatto e
abbellito dal Cardinale Spinelli nel 1744 con l’intarsio delle figure di
tre ecclesiastici con abiti corali del tempo. Spostata sul lato sinistro
vi è, poi, la sepoltura del duca di Popoli, fratello del Cardinale Giacomo
Cantelmo (16911702).
Al centro è posta la lapide sepolcrale con lo stemma
del Cardinale Alfonso Gesualdo (1596-1603). Segue, spostata sulla destra,
la sepoltura del Cardinale Giacomo Cantelmo (2 dìcembre 1702), con un
epigrafe dettata da Carlo Maiello. All’incrocio del transetto, fra il
trono e il pulpito, vi è la sepoltura con ornamenti in ottone allestita
dal Cardinale Antonio Pignatelli (1686-1691), ma poi concessa al
successore Cardinale Cantelmo, il quale la mise a disposizione della
famiglia Pignatelli.
Il soffitto e le pareti
Il soffitto ligneo cassettonato sorge a m 45 dal
pavimento. É decorato con grandi tele raffiguranti: la Natività e
l’Epifania di Fabrizio Santafede, la Visita a Sant’Elisabetta e la
Presentazione al tempio di Girolamo Imparato, l’Annunciazione di Giovanni
Vincenzo da Forlì. I dipinti che decorano la sommità delle pareti della
navata e del transetto e che si intercalano con le finestre raffiguranti
gli Apostoli, i Padri della Chiesa e i Dottori della Chiesa, furono
eseguiti da Luca Giordano e dalla sua bottega tra il 1676 e il 1678 su
commissione del Cardinale Innico Caracciolo (1667-1685). Questi realizzò
anche le tele circolari raffiguranti i Santi patroni di Napoli collocate
sui pennacchi fra le grandi arcate a ogiva. Le tele nel transetto destro
raffiguranti San Giovanni Crisostomo e San Cirillo furono realizzate da
Francesco Solimena nel biennio 1701-1702 su commissione del Cardinale
Giacomo Cantelmo. Nello spazio sopra i pilastri della navata centrale si
aprono 14 edicole ove trovano posto dei busti raffiguranti Vescovi; questi
furono collocati su commissione del Cardinale Spinelli nel 1745, e sono
nell’ordine dall’ingresso verso l’altare, sul lato sinistro: Sant’Efebo,
Sant’Eustazio, Sant’Agrippino, San Paolo I, San Marone, Sant’Epitimito,
Sant’Aspreno; sul lato destro: San Marciano, San Cosma, San Fortunato, San
Massimo, San Severo, Sant’Orso, San Giovanni I. Alcune di queste statue
decoravano un tempo il coro della cattedrale che era posto al centro della
navata. Le più antiche sono opera di Tommaso Montani, Cristoforo
Monterossi e Cafari e datano agli inizi del XVII secolo; le altre invece
risalgono al secolo successivo e sono di Carlo D’Adamo.
Sotto l’arco trionfale ai piedi del transetto, sulla
sinistra, si conserva ancora il basamento del trono episcopale tardo
gotico collocato nel 1376 e voluto dal Cardinale Bernardo III de Rhodez
(1368-1379); si presenta con colonnine a spirali, scanalature infiorite,
le insegne del Cardinale e dello stemma di Papa Gregorio XI. La parte
terminale della cuspide fu danneggiata nel 1652, quando il Cardinale
Filomarino vi fece collocare al di sopra l’organo dei fratelli napoletani
Pompeo e Martino Franco (i due antichi portelli dell’organo dipinti da
Luca Giordano sono collocati nel transetto di sinistra, in alto, sulla
sacrestia maggiore). L’organo secentesco fu sostituito nel 1845. Un
ulteriore organo, voluto dal Cardinale Ranuccio Farnese (1544-1549) e
costruito da Gianfranco da Palma, era collocato al di sopra del pulpito. I
due maestosi portelli dipinti da Giorgio Vasari sono collocati accanto a
quelli di Luca Giordano nei pressi della sacrestia maggiore. Di fronte vi
è il pulpito marmoreo del XVI secolo, attribuito ad Antonio Caccavello. Il
bassorilievo frontale raffigura Gesù predicante. Sotto la seconda arcata
di sinistra vi è un fonte battesimale, sistemato dal Cardinale Decio
Carafa come cornice barocca dell’antica vasca scolpita di basalto egiziano
di origine pagana con basamento in porfido. La piccola cupola semisferica
di copertura poggia mediante quattro colonnine marmoree in verde e intarsi
policromi ed è sormontata da un gruppo bronzeo che raffigura Il battesimo
di Gesù. Il fonte battesimale è circondato da due scalette a semicerchio
con balaustra.
Navata Sinistra
Introduzione
All’inizio della navata, partendo dalla
controfacciata, si apre l’accesso alla scala del torrione: il Tesoro
Vecchio. In quegli ambienti è ospitata la Compagnia della morte, o
confraternita di Santa Restituta dei Neri; i confratelli, che vestivano il
"sacco" nero, assumevano l’impegno di dare sepoltura agli indigenti morti
improvvisamente non in grado di provvedere alla propria sepoltura. Fondata
dall’arcivescovo Mario Carafa (1565-1576), era originariamente sistemata
nel battistero di San Giovanni in Fonte. Il Cardinale Ascanio Filomarino
concesse questa sede nel Seicento, quando le reliquie del santo patrono
furono traslate nella nuova Cappella del Tesoro. Nell’oratorio della
confraternita il quadro che è posto sull’altare raffigura la Nascita di
Gesù; opera di Fabrizio Santafede. Intorno vi sono vari dipinti di Paolo
di Maio. Nella sacrestia si conservano i ritratti del viceré Fernando
Alvarez di Toledo duca d’Alba e della moglie donna Maria, benefattori
della confraternita. Le ampolle del sangue di San Gennaro erano conservate
ancora nel Tesoro Vecchio quando parte del duomo e dei torrione crollò per
il terremoto del 1456. Sembrò un miracolo che non subissero danno alcuno.
Nella Cronaca di Notar Giacomo si legge che "dove era il sangue del
glorioso S. Iennaro, foro trovati due travi sopra le carrafelle, che non
subirono lesione alcuna". Le ampolle furono coinvolte anche in un altro
grave incidente, da cui scamparono fortunosamente.
Nel 1557, infatti, il tesoriere Mariano Catalano,
reggendo la reliquia del sangue, sdrucciolò per l’antica scala lignea a
chiocciola che menava giù in duomo, ma le ampolle non subirono danno. La
navata sinistra è composta da quattro cappelle:
-
Cappella famiglia Filomarino o Santa Maria Francesca
delle Cinque Piaghe
-
Cappella famiglia Teodoro già famiglia Gambacorta
-
Cappella famiglia Brancaccio
-
Cappella famiglia Sacripando
Santa Restituta
Introduzione
La basilica di Santa Restituta è accessibile dalla
navata sinistra della cattedrale da una porta che corrisponde alla terza
cappella. Rappresenta un’interessante testimonianza dell’arte
paleocristiana a Napoli in particolare e nell’Impero romano in generale.
Fondata dall’imperatore Costantino I nella prima metà del IV secolo per
via di numerosi rimaneggiamenti stilistici mostra pochi elementi della
originaria struttura paleocristiana. Fu costruita a cinque navate seguendo
lo stile in voga al tempo; era molto più lunga dell’attuale estensione,
prolungandosi per tutta la larghezza della navata centrale della
cattedrale di epoca angioina. Questa parte oggi mancante fu demolita per
cedere spazio alla nuova costruzione medievale. É ipotizzabile che avesse
all’origine cinque ingressi corrispondenti alle altrettante navate, ma i
due più estremi dovettero essere murati precedentemente al rafforzamento
dell’edificio dopo il terremoto del 1456, quando le navate estreme furono
adattate a cappelle. Una epigrafe posta nel frontespizio del portale ci
informa che fu ridimensionato come lo vediamo ancora oggi nel 1742, quando
il Cardinale Spinelli murò i due ingressi laterali per consolidare le
pareti sistemando nella navata sinistra i monumenti funerari dei suoi
predecessori Alfonso Carafa e Alfonso Gesualdo.
L’abside
Arcangelo Guglielmelli durante il restauro a seguito
del terremoto del 1688 trasformò l’abside nell’attuale stile
barocco, ricoprì la capriata con un soffitto a tavolato decorato e dorato
con pitture su carta e su tela. Al centro fu sistemata una tela attribuita
a Luca Giordano raffigurante Santa Restituta in barca guidata dagli angeli
verso l’isola d'Ischia. Il coro che sorgeva al centro della navata
maggiore fu portato nell’area del presbiterio insieme all’altare sul
finire del XVI secolo. L’ampio arco trionfale paleocristiano a tutto
sesto, poggiante su due antiche colonne corinzie scanalate, fu ricoperto
con un drappeggio scenografico di stucco sorretto dagli angeli, opera di
Antonio Disegna, mentre Nicola Vaccaro vi dipinse su tavola sagomata un
Salvatore in gloria con evidenti suggestioni apocalittiche nella
rappresentazione. Rimase nel catino absidale l’immagine del Salvatore tra
gli angeli del 1592, che copriva affreschi del duecento. Al centro
dell’abside è posta una tavola con Madonna in trono tra San Michele e
Santa Restituta, opera cinquecentesca attribuibile o al salernitano Andrea
Sabatini o a Stefano Sparano di Caiazzo. Il monumentale altare barocco, in
cui furono conservate le reliquie di Santa Restituta e del vescovo
napoletano San Giovanni IV lo Scriba, fu smontato nel 1949, lasciando a
vista l’antica mensa retta da grifi trapezofori: i due rivolti al popolo
sono antichi, di origine pagana; quelli sul retro sono imitazione
simmetrica di epoca recente. La "nuova" basilica fu riaperta al culto nel
1692.
Le navate
All’interno vi sono 27 colonne di cipollazzo e
granito con capitelli corinzi di diverso disegno e misura, sovrapposti a
rozzi pulvini, sicuramente elementi di spoglio forse provenienti dal
tempio di Apollo sulle cui rovine pare sorgesse la basilica costantiniana.
Gli archi a sesto acuto e l’innalzamento del pavimento risalgono al
trecento. Le basi delle colonne sono fittizie e rappresentano un
espediente a cui ricorse Arcangelo Guglielmelli; le vere basi furono
interrate nella realizzazione del nuovo pavimento. Lungo la navata vi sono
diciotto tondi di Francesco De Mura, raffiguranti Gesù Cristo, la Madonna
e alcuni Santi; furono donati dal canonico Fortunato Mauro nel 1734.
Invece, le sedici tele situate tra i finestroni furono commissionate a
Santolo Cirillo dal canonico Gennaro Maiello. Arcangelo Guglielmelli
realizzò il ricercato gioco di prospettive a colonne della cantoria sulla
controfacciata della basilica. Il pavimento è costellato di numerose
lapidi sepolerali di varie epoche. Al centro si apre la sepoltura dei
canonici della cattedrale, riprodotti in abiti corali in un bassorilievo
marmoreo del 1475. Sulle pareti, nelle immediate vicinanze dell’ingresso,
figurano numerose sepolture o monumenti funebri di uomini illustri.
Le cappelle poste a sinistra
Nella cappella sulla sinistra dell’ingresso è posto
l’altare marmoreo di Andrea Vaccaro, dal quale è stata recentemente
rimossa la statua di San Gennaro, collocata nell’ultima cappella della
navata sinistra della cattedrale. L’altare fu sistemato in Santa Restituta
nel 1887. Originariamente era stato eretto nel Succorpo nel 1737 come dono
del primo dei Borbone. Nella navata di sinistra la prima cappella,
dedicata a San Nicola, era di patronato della famiglia de Gennaro. É
adornata dei busti del vescovo Matteo de Gennaro e del condottiero Marc’Antonio
de Gennaro. Nel pavimento si trova una pietra tombale posta nel 1654 dal
canonico Matteo de Gennaro. La mensa ovale dell’altare è retta da una
coppia di leoncini in marmo di gradevole fattura. La seconda cappella,
dedicata a Sant’Elena, era patronato della famiglia Polverino. Alle pareti
sono sistemati un San Francesco di Paola a destra e un lacerato Tradimento
di Giuda a sinistra. La seguente cappella era di patronato della famiglia
de Rossi. A sinistra è posta un’iscrizione lapidaria in memoria di Felice
de Rossi (morto nel 1568), vescovo di Potenza e di Tropea. A terra è
collocata la sepoltura di famiglia. Sull’altare una secentesca Assunzione
della Vergine. La cappella di Sant’Aspreno presenta sull’altare una
Predicazione di San Pietro a Napoli di Santolo Cirillo. Davanti è la tomba
del dotto canonico Carlo Maiello (morto nel 1738), prefetto della
biblioteca vaticana. A sinistra monumento funebre per il canonico Giuseppe
Maria Pulci (morto nel 1758). A destra quadro di San Nicola. Ultima della
navata sinistra è la Cappella di Santa Maria del Principio, e sembra
essere stata la prima dedicata alla Madonna sotto questo titolo. Lello da
Orvieto nel 1322 realizzò, firmandolo, il luminoso mosaico che campeggia
nel catino absidale la Vergine coronata e nimbata è assisa in trono e
regge in grembo il Bambino; accanto sono raffigurati San Gennaro in abiti
episcopali e Santa Restituta reggenti tra le mani dei libri aperti. In
alto lo Spirito Santo sotto forma di colomba osserva la scena. Si colgono
influssi di arte senese. E verosimile che al posto del mosaico sorgesse in
origine un affresco con analogo tema iconografico. In un’urna sotto
l’altare sono conservate le reliquie di Santa Restituta e di San Giovanni
IV lo Scriba. Santa Restituta, venerata a Napoli e a Ischia, era forse
originaria di Cartagine. Subì il martirio ad Abitine il 12 febbraio del
304. Secondo un’antica passio fu condannata a essere arsa viva in una
barca carica di pece; invece confortata da una visione angelica, spirò
dolcemente, mentre i carnefici cadevano in mare, colpiti dalla vendetta
divina. La barca, spinta verso i lidi campani, approdava sulla spiaggia
dell’isola d’Ischia, dove il corpo trovò una onorevole sepoltura. Con le
reliquie che portarono con loro, i profughi della persecuzione del Vandalo
Genserico (439) diffusero nella regione il culto di questa santa e di
numerosi altri santi africani. San Giovanni IV lo Scriba fu vescovo di
Napoli dall’842 all’849; apparteneva verosimilmente alla famiglia Capece
Minutolo. Seguì fedelmente il vescovo Tiberio perseguitato dal duca
usurpatore Bono (832-834). Gli successe alla guida della Chiesa di Napoli,
prendendosi cura di far trasportare nella Stefania i resti dei vescovi
suoi predecessori sepolti nelle catacombe di Capodimonte.
Con il passare del tempo la memoria di questo
presule fu confusa con altre figure omonime, facendo cadere il suo culto
quasi nell’oblio fino alla fine dello scorso secolo quando fu
rivitalizzato dall’interesse storico e liturgico dei dotti canonici
Gennaro Aspreno Galante e Domenico Mallardo. Ai piedi dell’altare è posta
la sepoltura dal canonico Giuseppe Vinaccia (morto nel 1819) e un’epigrafe
del canonico Giuseppe Pelella (morto nel 1898). Vi è poi il sepolcro del
canonico Gian Giacomo Cangiano (morto nel 1705), archivista del capitolo.
Si notano pure le epigrafi commemorative del canonico Pietro Marco Gizzio
(morto nel 1741) e del canonico Francesco Verde (morto nel 1706). Ai lati
della cappella sono collocati due plutei marmorei di pregevole fattura
artistica riutilizzati come lastre pavimentali, attualmente sistemati alle
pareti. Sono lastre marmoree partite in quindici riquadri, la seconda è
priva della cornice e ha quattro formelle della prima fila mutile. Opere
dell’inizio del XIII secolo, segnano la piena affermazione del romanico in
Napoli. Nella lastra di sinistra è riprodotto il ciclo biblico di Giuseppe
venduto dai fratelli: le immagini si leggono da destra a sinistra. Nella
lastra di destra Storie di San Gennaro. di Sansone e altri santi. Ai due
pannelli si ricollegano due semi colonnine tortili con capitelli,
collocate nella sacrestia a reggere un lavamano; non potevano far parte,
dunque, come in passato si era supposto, degli amboni ancora visibili nel
XVI secolo nel coro della basilica, né di quelli ugualmente scomparsi
della Stefania. Sono soltanto resti di una transenna marmorea di incerta
provenienza. Nella navata destra della basilica di Santa Restituta, le
cappelle sono state recentemente restaurate con la riapertura delle
antiche monofore.
Sul fondo della navata sono le sepolture della
famiglia Intonti, con tomba di stile neoclassico, eretta nel 1857.
Nell’ambiente vi sono tracce delle finestre e degli ingressi antichi,
murati dopo il taglio per l’edificazione del duomo. Nella basilica di
Santa Restituta, in fondo alla navata sinistra, si apre l’accesso all’area
archeologica sottostante il duomo, contenente interessantissimi resti
della città greco-romana e paleocristiana. Si viene accolti da elementi di
età greca, costituiti da un lungo muro e da una zona di pavimentazione
stradale. Il muro è in corrispondenza della cappella di Santa Maria del
Principio. Alto circa 5 metri e visibile per circa 3 metri (prosegue al di
sotto della pavimentazione della basilica costantiniana ed è accessibile
calandosi dalle tombe sovrastanti), termina all’esterno di Santa
Restituta. Data la natura monumentale dei blocchi del muro si può
ipotizzare che fosse parte di un edificio pubblico, forse un tempio. Data
l’ubicazione è da escludere che si possa trattare di un tratto del
perimetro della cinta muraria. Subito a ridosso di questo primo muro, a
circa 2 metri dal pavimento della sovrastante basilica, se ne sviluppa un
altro ad opus reticulatum di epoca romana. Prosegue, svoltando ad
angolo retto sulla sinistra, per oltre 12 metri. Per tutta la sua
estensione, su cui non mancano tracce di graffiti, mostra grandi zone di
intonaco dipinte in rosso. Sono visibili alcuni tronchi di colonne in
laterizio, che reggevano una grondaia, come si può intuire dalla
sottostante cunetta per la raccolta di acque pluviali. Questa procede in
pendenza fin verso l’esterno del perimetro di Santa Restituta; all’altezza
della pavimentazione stradale greca si biforca, proseguendo fino al
cortile del palazzo arcivescovile. Accanto all’ultimo tratto di parete è
anche un piccolo corsetto in muratura contenente una tubazione in piombo
recante un marchio a sbalzo: AURELIE UTICIAN. Sul lato occidentale dello
scavo, verso destra accanto a una cunetta per la raccolta di acque
pluviali, si trovano degli ambienti seminterrati. Si tratta di quattro
grandi sale, con pareti in muratura di tufo a opus reticulatum e
volte a botte. L’accesso era consentito attraverso una scala che scendeva
a partire da un vano aperto sul lato occidentale; dalla stessa parte si
accede all’ultima delle quattro stanze, verso nord, che presenta
pavimentazione in coccio pesto; questo fa presumere che ci si trovi in un
ambiente destinato a deposito alimentare. Nel corso dello scavo questi
ambienti furono ritrovati pieni di materiali di rifiuto (frammenti di
stoviglie, valve di ostriche, frammenti vitrei, ecc.) tali da far pensare
alla presenza di una taverna nei locali sovrastanti. All’esterno di Santa
Restituta, in direzione del cortile della curia arcivescovile, è stata
rinvenuta una strada romana, oggi esposta per una lunghezza di circa 12
metri, formata da basoli in pietra lavica. Il diverso livello di quota
rispetto agli altri rinvenimenti di epoca romana, la presenza di manufatti
di spoglio, tra cui una bella stipe funeraria, e l’avanzato grado di usura
dei basoli, lasciano datare la strada al IV o V secolo. É ipotizzabile che
si tratti di una strada interna all’insula. Dall’altro lato di questa
strada, a circa 2 metri al di sotto di Santa Restituta, è stato rinvenuto
un grande ambiente di circa 15 per 7 metri. La parete divisoria verso la
strada ha ampi tratti di intonaco, su cui vi sono almeno due strati
pittorici. Sul piano del calpestio, invece, si trovano tracce di
pavimentazione musiva a grandi tessere e con disegni geometrici, che
richiamano motivi ornamentali forse del V secolo. Particolarmente ben
conservato un riquadro con un motivo stellare contenente una croce greca.
Pare evidente la destinazione a uso religioso
dell’ambiente, ma è difficile individuare con certezza in esso un
consignatorium, ossia il luogo in cui si amministrava l’unzione
crismale. Non è da escludere in situ la presenza di terme. Questo dato è
confermato da vaghe tracce di vari condotti in terracotta al di sotto del
livello del pavimento che mostrano chiaramente la canalizzazione di acqua
calda, mentre le numerose "tegole mammarie" attestano la presenza di
pareti adattate al passaggio del vapore caldo per il riscaldamento degli
ambienti. L’area che segue fin verso l’uscita dal lato della sacrestia
maggiore è parzialmente occupata da un grande blocco murario (forse si
tratta del basamento di uno dei tanti contrafforti costruiti in età
medievale a sostegno della torre angolare del transetto). Dal lato che
confina con l’edificio della curia arcivescovile, invece, si ritrovano
altri frammenti musivi pavimentali. Accanto si scorge anche un tronco di
colonna su base scolpita: un manufatto di probabile origine classica.
Procedendo verso l’uscita, appare una piccola abside semicircolare dal
diametro di circa 4 metri. Lungo il perimetro presenta un sedile di pietra
intonacato e dipinto, interrotto al centro da un passaggio verso un
piccolo ambiente cieco situato alle spalle. La pavimentazione è
perfettamente conservata ed è costituita da una decorazione musiva, in cui
quale si legge l’iscrizione: "Vincentius votum solbit". Salendo le
scale che portano all’esterno, nel cortile dell’ex Seminario Urbano, oggi
sede dell’Archivio Storico Diocesano, si passa accanto all’ingresso del
conditorium, ossia dell’ipogeo sepolcrale voluto agli inizi del XIX
secolo dal Cardinale Luigi Ruffo Scilla come luogo di sepoltura degli
arcivescovi di Napoli.
Tuttavia, la realizzazione dell’ipogeo comportò la
distruzione di preziosi materiali archeologici, i quali, stando alle
ottocentesche notizie fornite da Lorenzo Loreto, che fu testimone dello
scavo, avrebbero consentito di individuare il cosiddetto battistero
vincenziano o ad fontes minores, ricordato nelle fonti letterarie,
fatto erigere dal vescovo Vincenzo, nella seconda metà del VI secolo,
insieme all’accubitum, ossia all’ambiente in cui si riposava e
rifocillava il clero durante le liturgie solenni. Percorrendo il vicolo
che conduce al largo Donnaregina, si passa accanto a un’alta vetrata, che
copre e protegge i resti di un quadriportico, che potrebbe essere
identificato con l’atrio della Stefania di cui parlano le fonti
letterarie. Anche qui colonne e capitelli provengono dallo spoglio di
monumenti di origine classica. È plausibile che fosse integralmente
decorato, ne sono testimonianza le poche tracce musive e ad affresco poste
sotto alcune volte. Altre notizie sono di difficile reperibilità, dal
momento che l'edificio della curia arcivescovile impedisce qualsiasi altro
scavo e limita la lettura del monumento. Esso si presenta alto, arioso,
sorretto da colonne di vario livello, aggiunte anche in tempi posteriori
per rafforzare il solaio sul quale si sviluppavano le stanze del palazzo
arcivescovile. Sulla parete di fondo del quadriportico è collocato il
"calendario marmoreo". É un manufatto su lastre di marmo incise intorno
alla metà del IX secolo. Si tratta di un documento decisivo della storia
religiosa di Napoli, perché in esso si conservano le costumanze liturgiche
della Chiesa napoletana, specie di quella parte del clero legata agli
ambienti greci. Il calendario, inoltre, ha il pregio di indicare
l’antichità del culto reso ad alcuni santi, e in particolare la data di
sepoltura di ben ventitré vescovi di Napoli.
Il ritrovamento del calendario avvenne in maniera
fortuita nel 1742, quando i marmi furono rimossi dall’ingresso secondario
della chiesa di San Giovanni Maggiore. Salvati fortuitamente dalla
distruzione, furono valorizzati dal Cardinale Giuseppe Spinelli, che ne
affidava lo studio al canonico Alessio Simmaco Mazzocchi e ne dava una
prima sistemazione nella cappella dell’episcopio. Il monumento è
costituito da due plutei marmorei incisi su ambedue le facciate: da un
lato leoni alati, pegasi e ippogrifi; dall’altro l’elenco delle festività
liturgiche partite per mesi. Le due lastre sono lunghe poco più di 6 metri
ciascuna e alte circa 90 centimetri. Il "calendario marmoreo", rappresenta
forse in maniera più eloquente la continuità di una ininterrotta
tradizione religiosa della Chiesa locale, che si perpetua nella vitalità
del monumento: dall’antica memoria dei primi santi venerati a Napoli
all’attuale chiesa cattedrale, cuore pulsante della vita religiosa
dell’arcidiocesi.
Le cappelle poste a destra
Sull’altare della prima cappella è collocato un
Martirio di San Giovanni Battista opera di anonimo. La cappella dei
Ricciardi o del Crocifisso risale al XIII secolo e ospita degli armadi
contenenti numerosi reliquiari. Sul pavimento è posta un’epigrafe del 1603
raffigurante l’insegna di famiglia. Segue la cappella della famiglia
Piscicelli restaurata nel 1915. Sulla parete destra sono stati
recentemente sistemati tre dipinti su tavola raffiguranti il Salvatore sul
sole (del 1484) al centro e, di epoca più recente, San Gennaro e Sant’Atanasio
ai lati; le tre tavole provengono dalla cappella Galeota nel transetto
sinistro della cattedrale. Nella successiva cappella esercitava il diritto
di giuspatronato laicale la famiglia dei Caracciolo Guindazzi. La lapide a
destra, del 1732, ricorda che l’altare era dedicato alla Vergine dei Sette
Gaudii. Sopra, quadro di Sant’Anna con la Vergine e il Bambino. A
sinistra, la Madonna tra San Giovanni Battista e San Gennaro attribuito
alla scuola del Sabatini. A terra, lastra quattrocentesca in memoria di
Giannone Caracciolo raffigurato con elegante veste cavalleresca. Nella
cappella Forma è evidente nella parete di sinistra l’epigrafe
commemorativa di Giovanni e Marino Forma, patrizi napoletani legati alla
dinastia aragonese. Un’iscrizione sulla parete opposta, tuttavia,
scandisce i vari passaggi di patronato della cappella, che successivamente
appartenne ai Caracciolo, ai del Pezzo, ai Longo e ai Severino.
Nell’ultima cappella, già dedicata a San Giuseppe, è collocata la tomba
del canonico Marco Celentano (morto nel 1764). Sull’altare è posta una
Pietà di Hendrick Van Somer su tela riutilizzata (ai bordi del quadro sono
visibili tracce di preesistenti decorazioni pittoriche).
Ai lati, quadri di Giovanni Balducci raffiguranti
Sant’Agnello che scaccia i Saraceni, a destra, e San Gennaro che protegge
Napoli dal Vesuvio, a sinistra. Un ampio vano separa le cappelle del lato
orientale dall’ingresso al battistero di San Giovanni in Fonte. In esso
furono raccolte pregevoli testimonianze delle antichità cristiane
napoletane. Sulla parete esterna del battistero si scorgono, in alto,
tracce di affreschi del XIV secolo, che forse decoravano l’intera basilica
prima dell’intervento manieristico del XVII secolo. Vi è raffigurato forse
un Giudizio universale con qualche suggestione di Pietro Cavallini; sono
visibili solo una crocifissione e una serie di apostoli e santi. La tomba
del canonico Galante (morto nel 1923) è sormontata da un medaglione di
Francesco Ierace e accompagnata da un’epigrafe commemorativa. Accanto alla
porta del battistero vi sono frammenti di una transenna del IX secolo
proveniente dalla chiesa di Santa Maria a Piazza. Sul pavimento è
collocata un’epigrafe cinquecentesca che ricorda il canonico Luca Cagiano
e alcuni suoi familiari. Dalla cappella dei Piscicelli proviene la tomba
di Riccardo (morto nel 1331) con figura giacente su di un sarcofago
classico. In un altro sarcofago decorato con scene di baccanali, è posta
la sepoltura di Alfonso. Al di sopra è visibile un delicato ciborio
quattrocentesco rappresentante la scena dell’Annunciazione della scuola di
Tommaso Malvito. Sulla parete laterale vi sono tre frammenti della lapide
dedicata all’arcidiacono Teofilatto morto nel 671 a poco più di ventinove
anni. La lapide era incassata nella predella dell’altare maggiore della
basilica e fu rinvenuta nel 1862 in occasione dei lavori di sistemazione
dell’abside.
Accanto è posta una tavola marmorea con un carme
sepolcrale acrostico in quindici distici inneggiante all’usurpatore Duca
Bono (giustiziato nel 834), già sistemata nella chiesa di Santa Maria a
Piazza. L’epitaffio distorce palesemente la verità storica in quanto ne
elogia le inesistenti virtù; in realtà il duca usurpatore Bono fu un
despota che si impadronì del potere assassinando il duca Stefano III
Capece Minutolo, perseguitando il vescovo Tiberio, e tentò anche di
provocare uno scisma nella Chiesa napoletana. Al di sopra e accanto alle
antiche iscrizioni vi sono epigrafi secentesche, che celebrano i
Piscicelli.
Il Battistero
Quadro storico
In fondo alla navata destra della basilica di Santa
Restituta è collocato il battistero di San Giovanni in Fonte. La sua
fondazione viene generalmente attribuita al vescovo Severo (363-412); le
fonti presentano discordanze in proposito. Viene attribuita all’imperatore
Costantino, in contemporanea con la basilica di Santa Restituta dalla
leggendaria Cronaca di Santa Maria del Principio, opera del XIII-XIV
secolo. L’epigrafe moderna, in volgare, collocata nei pressi dell’antico
ingresso deriva da questa cronaca: "[Questa cappella la edificai lo
Imperatore] Constatino [sic] ali ani CCCXXXXIII poy la Nativi. de XPO et
la consacrai S. Silvestro et ave nome S. loanne ad Fonte et ave
indulgentia infinita [sic]". Il Liber pontificalis ci informa
brevemente che il vescovo Sotere (465) fece costruire un battistero. La
carenza di dettagli, l’assoluta mancanza di ulteriori scritti inerenti la
presenza di due battisteri all’interno dell’area nonché l’assenza di resti
fa pensare che deve trattarsi di un rimaneggiamento dello stesso edificio.
Inoltre nel corso di recenti restauri è emerso che nel V secolo si
consolidarono la struttura muraria, si ridussero le dimensioni delle
finestre, si ampliarono e vennero decorati tre dei quattro pennacchi a
cuffia in cui sono raffigurati i simboli degli evangelisti, si
restaurarono i mosaici nella fascia inferiore della cupola. La struttura
architettonica del monumento e l’analisi stilistica della decorazione
musiva fanno datare con certezza alla fine del IV secolo la costruzione
del battistero.
San Severo (364-410) costruì il battistero, San
Sotere (465) ne curò una ristrutturazione con l’aggiunta di nuove
decorazioni musive. San Giovanni in Fonte è senza ombra di dubbio il
battistero più antico della Cristianità occidentale: anteriore di oltre
trenta anni al battistero lateranense fatto erigere da Sisto III
(432-440).
Evoluzione nei secoli
Originariamente l’edificio, che si presenta a pianta
quadrata, era isolato, dotato di un ingresso che si apriva nella parete
occidentale. La struttura di base è raccordata al tamburo ottagonale
mediante quattro nicchie angolari. La copertura della volta è costituita
da una piccola cupola a calotta. Costruito in tufo, prendeva luce da
quattro bifore collocate nel tamburo; queste furono modificate in seguito,
forse durante la ristrutturazione del vescovo Sotere, e furono eseguiti
mosaici raffiguranti santi martiri sopra la nuova muratura. Entrando,
sulla parete di sinistra si scorgono i due ingressi originari, oggi
collocati a ridosso dell’abside della basilica costantiniana. Al centro è
posta la vasca battesimale di forma circolare realizzata in coccio pesto (opus
sexstile): ha un diametro di 2 metri e una profondità di 61
centimetri; da tracce persistenti si può evincere che originariamente il
bordo fosse circondato da transenne. Presenta un foro per la fuoriuscita
dell’acqua ma è mancante di una condotta di adduzione. L’acqua veniva
versata con recipienti, prassi comune documentata dagli antichi testi
liturgici dei primi secoli. Il lato settentrionale dell’edificio fu
modificato con l’aggiunta di un piccolo portico in occasione dei lavori di
apertura della porta che collegava direttamente la cattedrale al palazzo
arcivescovile, durante l’episcopato del Cardinale Filomarino (1644); le
colonne e i capitelli appartengono a un restauro successivo datato alla
fine del XIX secolo. In concomitanza con la conclusione della costruzione
del duomo, nel XIV secolo, i mosaici subirono un restauro.
Le zone mancanti delle tessere musive furono
integrate con affreschi che raffiguravano un’Annunciazione e la Cena di
Emmaus con pittura imitante il mosaico. Inoltre furono chiuse e affrescate
le due finestre sulle pareti di sinistra e di destra; queste
raffigurazioni si ispirano agli stilemi di Pietro Cavallini, con le figure
del Cristo e della Madonna. Oggi, a causa della riapertura delle finestre,
questi due affreschi sono stati distaccati e collocati al di sotto delle
stesse. Nel 1576 la confraternita di Santa Restituta dei Neri ricevette il
battistero in uso temporaneo. L’antica cisterna della vasca battesimale fu
adattata a sepoltura per i confratelli: la copertura marmorea del sepolcro
è ancora visibile. Il Cardinale Filomarino trasferì la confraternita nel
1647 nell’attuale sede del Tesoro Vecchio. Da allora il monumento, perduta
qualsiasi utilità pratica, andò lentamente degradandosi, ridotto quasi a
semplice corridoio di passaggio. Solo sul finire del XIX secolo si
effettuò un radicale intervento di consolidamento e restauro per la
valorizzazione dell’edificio, attraverso l’eliminazione delle scene spurie
della volta e il restauro dei mosaici più danneggiati.
I mosaici
Sulla volta sono rappresentati i temi dei sacramenti
inerenti l’iniziazione cristiana della Chiesa dei primi secoli. Questi
mosaici costituiscono un bellissimo esempio di arte musiva romana, con
temi e raffigurazioni presenti anche nelle catacombe napoletane. I mosaici
del battistero di San Giovanni in Fonte sono una delle rare decorazioni
musive parietali superstiti dell’Italia meridionale, e costituiscono una
delle più importanti opere paleocristiane in Italia. La volta del
battistero è divisa in otto spicchi trapezoidali, delimitati da fasce
trasversali che partono da un fregio posto intorno alla base. Queste fasce
sono dorate e vengono raccordate al fregio tramite un vaso ansato, da cui
si dipartono festoni ricchi di frutta, di fiori e di uccelli. Ogni
riquadro è diviso in due parti raffiguranti scene evangeliche. Il centro
della cupola contiene è la zona musiva più intatta. Una fascia anulare
cinge un cielo azzurro trapunto di stelle d’oro, tra le quali campeggia
una croce monogrammatica simbolo del Cristo glorioso, con le lettere
pendenti dalle braccia. La croce è sormontata dalla mano del Padre Eterno,
che stringe una corona d’alloro e un filatterio. All’altezza della mano,
ritta sopra una piccola altura, spicca una fenice posta fra due palme e
due uccelli simmetrici. La raffigurazione rappresentava ciò che attendeva
il neofita dopo aver preso il sacramento: il cielo stellato e la
vegetazione lussureggiante indicano il regno del Cristo glorioso, in cui
il neofita ha diritto di cittadinanza in virtù del sacramento del
battesimo ricevuto, che gli faceva sperare anche nella risurrezione a vita
nuova, di cui era simbolo la fenice.
Nei quattro pennacchi sono poste le raffigurazioni
simboliche degli evangelisti: l’uomo alato (San Matteo), il leone alato
(San Marco), il bue alato (San Luca) e l’aquila alata (San Giovanni),
ormai quest’ultima è totalmente scomparsa. Sui pennacchi, scene pastorali
con richiami a temi dei Salmi: il pastore tra due pecore e il pastore tra
due cervi che si dissetano a sorgenti d’acqua. Di grande suggestione
scenografica nonché di profondo contenuto religioso sono le scene
bibliche. Nella zona di nord est sono abbinati i due episodi evangelici
della Samaritana al pozzo e delle Nozze di Cana, con evidente riferimento
simbolico al battesimo e all’eucaristia. Sulla parete orientale è rimasto
il frammento di una scena che doveva rappresentare il Battesimo di Gesù al
Giordano: resta la parte inferiore di un personaggio, di cui si scorgono
il lembo della tunica e le gambe nude. A sud est, inquadrata tra due
palme, è la scena della Traditio legis: il Cristo in piedi
sull’universo raffigurato da un globo celeste consegna all’apostolo
Pietro, posto alla sua sinistra, il rotolo della legge. Sulla parete
meridionale, al di sopra dell’ingresso che porta alla basilica di Santa
Restituta, sono poste due scene frammentarie: sopra Cristo che cammina
sulle acque; sotto la pesca. A sud ovest, al margine estremo della zona
coperta da mosaici, si intravede un personaggio vestito di tunica, coperto
di pallio e con un piede calzato di sandalo, seduto su una pietra presso
un’edicola monumentale, senz’altro una tomba; nella sinistra stringe un
rotolo. Tutti i dettagli lasciano intendere che si tratti dell’Annunzio
della risurrezione da parte dell’Angelo alle donne, secondo i canoni
rappresentativi della risurrezione di Gesù nell’antichità cristiana.
Monumenti funebri
Subito dopo la basilica paleocristiana sono
collocati altri monumenti funebri, che fanno pendant con quelli dei
Filomarino e del Cardinale Carafa dall’altro lato. Quindi si trova il
sepolcro del Cardinale Alfonso Gesualdo (1596-1603) dei Conti di Conza e
Principi di Venosa, attribuito a Michelangelo Naccherino; la Vergine con
il Bambino in alto è di Tommaso Montano. Il Cardinale giace adagiato sul
fianco con il capo poggiato sulla mano destra; alle spalle è collocata la
statua dell’apostolo Andrea. Il monumento fu qui collocato dal Cardinale
Spinelli a seguito dei restauri effettuati nel 1744; precedentemente era
posto nella tribuna centrale. A sinistra è posto il cenotafio di
Giambattista Filomarino, deceduto nel 1526, opera di Giuliano Finelli o
del carrarese Giulio Meneaglia. Alla base della parete trova posto la
tomba di Andrea d’Ungheria, marito della regina Giovanna I. Fu
inizialmente sistemata nella cappella di San Ludovico dal Vescovo Orso
Capece Minutolo, quando questa poi fu trasformata in sacrestia venne
collocata nel transetto. Da qui, in occasione di lavori di restauro, il
Cardinale Francesco Pignatelli (1703-1734) dispose la sepoltura nel
pavimento del transetto. La costruzione di vari monumenti funebri di
arcivescovi napoletani in quel braccio del transetto costrinse alla
traslazione della tomba presso l’attuale collocazione. L’iscrizione
sepolcrale, dettata da Francesco Capece Minutolo, vuole conservare il
pietoso ricordo del giovane sovrano, assassinato con l’inganno dalla
moglie Giovanna.
L’ingresso settentrionale
Prima del transetto si apre la porta laterale del
versante settentrionale; immette nel cortile della curia arcivescovile in
un largo ove sono collocate numerose lapidi e stemmi provenienti dalla
fabbrica della cattedrale e degli ambienti annessi. Poco distante dal
portale minore, in una colonna del pilastro dell’arco è murato il
cosiddetto "passo napoletano": antica unità di misura cittadina pari a
1,90 metri.
Navata Destra
La navata destra è composta da sei cappelle:
-
Cappella di San Nicola di Mira
-
Cappella del crocifisso dell’Addolorata o famiglia
Caracciolo Pisquizi
-
Cappella del tesoro di San Gennaro
-
Cappella Galluccio o dello Spirito Santo o della
Pentecoste o delle Reliquie
-
Oratorio dell’Arciconfraternita del Santissimo
Sacramento
-
Cappella Santi Tiburzio e Susanna o famiglia Carbone
L’ingresso meridionale
L’ingresso meridionale della cattedrale si apre
sulla piazzetta Sisto Riario Sforza, in cui svetta la guglia di 24 metri
in onore di San Gennaro. La guglia è decorata con ampie volute, ricco
capitello ionico e puttini che reggono i simboli del santo patrono. Fu
disegnata da Cosimo Fanzago, il cui ritratto era posto alla base del
monumento. La statua di San Gennaro in cima è opera di Tommaso Montani con
la collaborazione di Cristoforo e Giandomenico Monterosso. La costruzione
della guglia risale a un voto cittadino fatto dopo l’eruzione vesuviana
del 16 dicembre 1631. Il monumento, iniziato nel 1637, fu completato nel
1660. Un tempo qui si ergeva il campanile crollato nel 1349. Fino
all’apertura di via Duomo in epoca sabauda, l’ingresso meridionale della
cattedrale, che dava sul decumano maggiore della città era il più
frequentato. E la piazza antistante ospitava i festeggiamenti e le
luminarie che accompagnavano e seguivano le processioni delle reliquie di
San Gennaro alla presenza delle autorità e del popolo.
Cappella di San Gennaro
Introduzione
La cappella del Tesoro di San Gennaro si apre nella
navata di destra al posto della terza cappella. San Gennaro fu il vescovo
di Benevento, e venne fatto decapitare presso la Solfatara di Pozzuoli nel
305 durante la persecuzione voluta dall’imperatore Diocleziano. Venne
sepolto in una località denominata Marciano, nei pressi del luogo del
martirio, lungo la via collinare che collegava Pozzuoli a Napoli. Il
vescovo di Napoli Giovanni I il 13 aprile di un anno imprecisato tra il
413 e il 431 trasferì il corpo del martire nella catacomba napoletana che
già custodiva la tomba del Santo vescovo Agrippino, che resse la Chiesa di
Napoli nel III secolo. La cripta del martire divenne centro di un culto
assai vivo, che si diffuse rapidamente da Napoli in tutta l’Italia,
raggiungendo l’Africa, l’Inghilterra e addirittura l’Oriente.
Intorno all’anno 831 il principe longobardo di Benevento Sicone, cinse
d’assedio Napoli, penetrò poi nella catacomba extraurbana trafugando le
ossa di San Gennaro e trasportandole solennemente a Benevento come spoglia
di guerra per deporle nella Cattedrale di Santa Maria di Gerusalemme. Da
Benevento, in epoca imprecisata, probabilmente a causa delle frequenti
scorrerie militari che si verificarono in Campania tra il XII e il XIII
secolo, le ossa furono trasferite nel Monastero di Montevergine e
dimenticate. Furono rinvenute nel 1480 sotto l’altare maggiore della
basilica abbaziale dal figlio di Ferdinando I Giovan Cardinal D’Aragona
che decretò dovessero essere restituite immediatamente ai Napoletani.
L’arcivescovo napoletano Alessandro Carafa, dopo
lunghe trattative con il papato, poté riportarle a Napoli nel 1497,
deponendole nell’ipogeo della cattedrale detto Succorpo costruito da suo
fratello il Cardinale Oliviero Carafa. Si conservavano comunque ancora due
ampolle con una reliquia del sangue del santo martire. Il reliquiario era
conservato con grande devozione nella cappella del Tesoro Vecchio della
cattedrale. Di là partì la processione del 17 agosto 1389, nel corso della
quale per la prima volta avvenne il fenomeno della liquefazione del
sangue, poi costantemente documentato nelle ricorrenze consuete del santo
patrono: il 19 settembre, memoria del martirio; il sabato precedente la
prima domenica di maggio in ricordo della traslazione delle reliquie; il
16 dicembre, festa del patrocinio sulla città e sull’arcidiocesi.
Le Sacre Reliquie
Oltre alle ossa, custodite in una olla fittile nel
Succorpo della cattedrale, i resti di San Gennaro sono custoditi in due
artistici reliquiari nella cappella del Tesoro. Il busto a grandezza
naturale rappresenta un capolavoro dell’oreficeria trecentesca dell’Italia
meridionale. Questo poggia su una base di argento a forma di ellisse,
eseguita su richiesta di Giovanni Tommaso Vespolo nel 1609. Sul davanti è
effigiata la Decollazíone di San Gennaro; sul retro è raffigurato il
Martirio di San Gennaro esposto alle fiere in uno sfondo poco realistico
che dovrebbe rappresentare l’anfiteatro di Pozzuoli. Il busto, modellato
dagli argentieri francesi Etienne Godefroyd, Guillaume de Verdelay e
Millet d’Auxerre su commissione di Carlo II d’Anjou, è cavo per contenere
le ossa del capo del santo martire; oggi, tuttavia, non restano che minute
schegge ossee e pulviscolo, come si è constatato in occasione di una
casuale ricognizione. L’opera fu completata nel 1305 e si ispira al busto
marmoreo custodito nella chiesa dei cappuccini presso la Solfatara di
Pozzuoli: il volto è giovanile con tratti realistici; i capelli stilizzati
e spartiti in ciocche si raccolgono sotto una calotta di argento fissata
con viti a protezione delle ossa del cranio; il busto veste la casula a
collo alto, decorata con rosette, ornamenti smaltati, stemmi angioini e
pietre preziose. Il sangue di San Gennaro è contenuto in due ampolle di
vetro di diversa forma rinchiuse in una doppia teca. Quella interna, forse
di epoca angioina, tiene le ampolle fissate con mastice scuro. Quella
esterna risale al seicento ed è di forma circolare in argento, e contiene,
tra due vetri, il reliquiario più antico delle ampolle.
La teca poggia in un grande reliquinario con base di
ebano ricoperta di lamine di argento con lo stemma del Cardinale Ascanio
Filomarino e la data del 1643. Il reliquiario è costituito da una parte
antica, che riproduce una struttura architettonica gotica, e un florilegio
circolare di età moderna che lo chiude in alto. Nella parte bassa più
antica vi sono colonnine, guglie, pilastrini e un arco in cui si inserisce
una piccola stata di San Gennaro raffigurato nell’atto di benedire, seduto
con i paramenti episcopali. A questa base trecentesca furono aggiunti, nel
XVII secolo, una raggiera con due angeli e un grande smeraldo incastonato.
Una corona di fiori circonda la raggiera; questa fa riferimento alle
corone di fiori con cui si ornavano il capo i partecipanti alla
processione primaverile di San Gennaro, detta appunto degli "inghirlandati
La realizzazione della Cappella
A causa della peste nel 1527 gli Eletti della città
emisero il voto popolare di fare erigere una nuova e più grandiosa
cappella per ospitare le reliquie del sangue del santo patrono. Cessata
l’epidemia si cominciò a dare compimento
al voto. Nel 1606 si decise che la cappella dovesse sorgere di fronte
all’ingresso della Basilica di Santa Restituta, sulla navata destra del
duomo, al posto delle cappelle Filomarino, Zurlo e Cavaselice. La prima
pietra, incisa da Michelangelo Naccherino e benedetta dal vescovo di Calvi
Fabio Maranta a nome del Cardinale Ottavio Acquaviva, fu deposta nel 1608.
Nel 1646, con la benedizione del vescovo di Giovinazzo Carlo Maranta a
nome del Cardinale Ascanio Filomarino, la Cappella del Tesoro di San
Gennaro veniva aperta al culto. La cappella del Tesoro dipende
direttamente dalla Santa Sede; ne è delegato pontificio l’arcivescovo di
Napoli. Per il culto è officiata da un collegio di dodici prelati, per la
parte amministrativa dipende dal Ministero dell’Interno della Repubblica
Italiana ed è retta da una deputazione laica di dodici membri, di cui è
presidente il sindaco di Napoli pro tempore, secondo una disposizione del
1811 di Gioacchino Murat. La città, che vanta sulla cappella diritto di
patronato perpetuo sancito da
Urbano VIII nel 1635, concede annualmente sovvenzioni economiche per culto
al santo patrono. L’architetto teatino Francesco Grimaldi ne fu il
progettista e venne coadiuvato da Ceccardo Bernucci e Giovan Giacomo di
Conforto, che ne continuarono l’opera dopo la morte avvenuta nel 1613. La
vasta cappella è un rappresentativo esempio di architettura barocca; si
presenta a schema centrale a croce greca, con cupola a doppia calotta
formata da due cupole con intercapedine. Servì come modello anche a papa
Innocenzo X Pamphili per la chiesa romana di Sant’Agnese a piazza Navona.
Descrizione architettonica e arredi
La facciata occupa lo spazio di tre campate.
L’ingresso ha fronte a triplice arcata. É sormontato da una trabeazione di
Francesco Vannelli realizzata nel 1626 e vi è incisa la seguente epigrafe:
"Divo Ianuario e fame bello peste ac Vesaevi igne miri ope sanguinis
erepta Neapolis civi patr. Vindici" (A San Gennaro, al cittadino
salvatore della patria, Napoli salvata dalla fame, dalla guerra, dalla
peste e dal fuoco del Vesuvio, per virtù del suo sangue prodigioso,
consacra). Tra due enormi colonne monoliti di marmo nero venato di bianco
e verde, con capitelli scolpiti da Donato Vannelli e Rinaldo Mele, spicca
un maestoso cancello di ottone progettato tra il 1628 e il 1630 da Cosimo
Fanzago, in parte realizzato da Orazio Scoppa e Biagio Monte, ma compiuto
solo nel 1665 per l’intervento dell’ottonaro Gennaro Monte, a cui si deve
anche il busto bifronte di San Gennaro che sormonta il cancello.
All’esterno nelle due edicole con colonne di broccatello sono poste due
grandi statue di San Pietro e San Paolo di Giuliano Finelli. L’interno
della cappella mostra una variegata rassegna della migliore arte barocca
napoletana. Ha sette altari, quarantadue colonne di broccatello,
diciannove statue bronzee di santi patroni. L’altare maggiore è lievemente
arretrato dal corpo centrale entro il breve ambiente della tribuna. Il
pavimento policromo, con tasselli di marmo bianco, grigio e broccatello,
fu disegnato da Fanzago. L’altare maggiore fu progettato da Solimena: è di
porfido, con cornici, fregio, modanature di argento e rame indorato e
puttini di argento sui lati, eseguiti da Nicola de Turris.
Sul davanti, capolavoro dell’argenteria napoletana
del XVII secolo, un decoratissimo paliotto d’argento, disegnato da
Dionisio Lazzaro nel 1683, e realizzato dall’orafo Giandomenico Vinaccia
nel 1695. Viene raffigurato l’arrivo a Napoli delle reliquie di San
Gennaro nel 1497: l’arcivescovo Alessandro Carafa, a cavallo, regge il
cofanetto delle reliquie con il Santo che si libra in alto a protezione
della città, raffigurata simbolicamente dalla sirena Partenope e dal fiume
Sebeto; sulla sinistra del fondale è raffigurato il Vesuvio in eruzione.
La peste, la fame e la guerra fuggono davanti alle reliquie del santo
patrono, mentre l’eresia resta schiacciata dal cavallo dell’arcivescovo.
Dietro l’altare sulla parete di fondo in una nicchia munita di cassaforte
e di sportelli d’argento offerti dal viceré Pietro d’Aragona a nome del re
Carlo Il nel 1667, sono custoditi il busto d’argento dorato e la reliquia
del sangue di San Gennaro. In alto dietro l’altare campeggia la statua
bronzea di San Gennaro di Giuliano Finelli. Il santo, dai lineamenti
giovanili, è rappresentato in abiti episcopali. La statua fu collocata nel
1645 in sostituzione di quella di Tommaso Montani, che fu piazzata in cima
alla guglia di piazzetta Riario Sforza. La balaustra del presbiterio fu
realizzata nel 1618 da Giuliano Vannelli, ma sempre su disegno di Grimaldi.
In alto si aprono le cantorie con balaustre marmoree. Opera ottocentesca è
il rivestimento in argento dei paliotti degli altari delle cappelle
laterali, che sono di Giuseppe e Gennaro del Giudice; i paliotti dei
quattro altari negli angoli, di Luigi Magliulo, furono offerti da
Francesco II per adempiere ad un voto del padre. Sono di grande effetto le
numerose statue in bronzo o argento dei santi compatroni che arricchiscono
l’intera cappella.
Queste sono 51: la prima fu quella di San Tommaso d’Aquino,
dichiarato compatrono nel 1605, l’ultima è stata quella di Santa Rita, che
è del 1928; raffigurano di San Tommaso, Sant’Agnello, San Severo, Sant’Agrippino,
Sant’Eufebio, Sant’Andrea Avellino, San Giacomo della Marca, Santa
Patrizia, San Francesco di Paola, San Domenico e San Biagio (poi
trasformato in San Nicola), Santa Teresa d’Avila e Sant’Antonio, San
Filippo Neri, San Gaetano, Sant’Aspreno.
Gli affreschi
La cappella è riccamente decorata da affreschi alle
pareti e nella cupola. Le decorazioni della cappella furono eseguite dal
bolognese Domenico Zampieri, detto il Domenichino, noto per le
realizzazioni romane in San Luigi dei Francesi e in Sant’Andrea della
Valle. Non riuscì però a decorare la cupola perché colto nel 1641 da morte
improvvisa. Una Processione con le reliquie di San Gennaro in occasione
dell’eruzione vesuviana del 1631 è raffigurata nella lunetta sopra il
cancello d’ingresso. Sull’altare destro è raffigurato San Gennaro condotto
al martirio con i compagni Festo e Desiderio, mentre sull’altare sinistro
San Gennaro libera Napoli dai Saraceni. Nella volta sopra l’altare
maggiore è raffigurato un ciclo di storie del martirio del santo. La
decorazione della cupola fu affidata a Giovanni Lanfranco, che nel 1643 vi
dipinse un affollato e luminoso Paradiso, con una moltitudine di figure in
cerchi concentrici verso l’alto. Si distinguono i gruppi: San Gennaro in
preghiera davanti al Cristo benedicente, la Vergine che implora protezione
per Napoli, Dio al centro come polo d’attrazione dei santi in preghiera.
Sull’altare di destra è posto un dipinto di Giuseppe Ribera, detto lo
Spagnoletto, realizzato nel 1647, che a olio su rame dipinse San Gennaro
che esce illeso dalla fornace di Nola. Sull’altare di sinistra, sempre su
rame, Domenichino dipinse la Decollazione di San Gennaro. Del Domenichino
sono pure i dipinti dei quattro altarini d’angolo; da sinistra: Infermi
guariti con l'olio della lampada, la Risurrezione di un morto, gli Infermi
al sepolcro e infine l’Ossessa liberata (incompiuta).
I rami della cappella furono completati mediante
cornici in bronzo dorato e lapislazzuli, opera di Onofrio d’Alessio,
successivamente autore anche dei cancelli delle cappelle. Nella cappella
sulla sinistra del vestibolo, la volta è decorata a stucchi per mano di
Andrea Falcone e Giambattista Adamo. Gli affreschi, iniziati da Luca
Giordano, furono completati da Giacomo Farelli. Sull’altare Massimo
Stanzione dipinse su rame il miracolo dell’Ossessa liberata, che avrebbe
dovuto sostituire nella cappella del Tesoro il dipinto incompiuto di
Domenichino. Nella sala capitolare dei prelati della cappella si
custodiscono un San Gennaro di Francesco Solimena del 1702 e due cimeli
bellici: una bandiera strappata ai Turchi nella battaglia di Belgrado del
1717 e offerta al Tesoro dall’imperatore Carlo VI, e una bandiera vinta da
Carlo di Borbone agli Austriaci nella battaglia di Velletri del 1744
Transetto
Introduzione
Il transetto misura 50 metri per 14,15 circa. È
coperta da un soffitto a cassettoni posto ad un’altezza di circa 48 metri
dal pavimento in posizione leggermente rialzata rispetto alla navata. I
restauri alla navata centrale coinvolsero anche quest’area della
Cattedrale, continuandone i motivi, le decorazioni e la serie di busti
marmorei posti nelle edicole somitali; questi nella fattispecie
rappresentano due vescovi napoletani divenuti Santi: San Nostriano e il
Beato Paolo Burali d’Arezzo. L’illuminazione del transetto era affidata
originariamente ad alti finestroni: si creava così un gioco di luci che
convergeva sull’altare posto al centro. L’altare fu dedicato a San Michele
e a San Gennaro, la sua consacrazione è ricordata nelle cronache cittadine
come opera dell’arcivescovo Nicola de Diano l’otto maggio 1412. Subito
accanto era posto un tabernacolo per la conservazione degli oli santi e
dell’eucaristia. Di fronte si stendeva un grande coro ligneo, che si
prolungava lungo la navata centrale per circa tre campate. L’attuale
collocazione dell’altare risale alla fine del XVI secolo e fu attuata su
commissione del Cardinale Gesualdo. Venne solennemente riconsacrato il 31
maggio 1597.
L’angolo a sinistra
Il transetto è ricchissimo di memorie storiche e
artistiche rievocanti avvenimenti succedutisi nel corso dei secoli. A
sinistra si ammira il cenotafio di papa Innocenzo XII Pignatelli, pensato
originariamente come semplice sepolcro da collocarsi nel pavimento della
navata centrale; la statua della Carità regge il busto in rame dorato del
papa ed è attorniata da piccoli putti; in alto fu sistemato lo
stemma di famiglia sormontato dalla tiara pontificia. Segue il monumento
sepolcrale del Cardinale Giuseppe Prisco (1898-1923) e la porta che
permette l’accesso alla sacrestia maggiore. Sul pavimento due lapidi
ricordano il sepolcro del Cardinale Ostini e l’antica cappella gentilizia
della famiglia Dentice del Pesce fatta demolire nel corso del restauro
ottocentesco del transetto durante l’episcopato del Cardinale Filippo
Giudice Caracciolo. Accanto alla porta della sacrestia trova collocazione
la tomba di Enrico Spata Loffredo (morto nel 1431), favorito del re
Ladislao di Durazzo, e di suo figlio Ciccio (morto nel 1468), primo
canonico diacono della cattedrale. Sulla parete viene ricordato su di una
lunga epigrafe marmorea il primo congresso eucaristico nazionale,
celebrato a Napoli nel 1891. Al centro della parete sinistra del transetto
il mausoleo del Cardinale Sisto Riario Sforza (deceduto nel 1877), con
accanto la tomba di papa Innocenzo IV Fieschi, genovese, morto a Napoli
nel 1254. Questo monumento subì notevoli rimaneggiamenti nel corso dei
restauri succedutisi nel corso dei secoli: risalgono al cinquecento la
statua del pontefice e la lunetta marmorea sovrastante, probabile opera
giovanile del Malvisto, raffigurante la Madonna seduta con il Bambino tra
Innocenzo IV e l’arcivescovo Annibale di Capua; le due epigrafi collocate
tra la lunetta scolpita e il monumento sono anch’esse di epoche diverse:
una originariamente trecentesca, composta di tredici esametri leonini, fu
ritrascritta nel XVI secolo, e ricorda le benemerenze del pontefice nei
confronti dei Napoletani; l’altra ricorda il restauro cinquecentesco del
monumento. In alto, sulla parete di fondo del transetto sinistro, si
ammirano grandi pitture di Giorgio Vasari: la Natività, i Sette santi
patroni di Napoli (San Gennaro, Sant’Aspreno, Sant’Agrippino, Sant’Eufebio,
San Severo, Sant’Agnello e Sant’Atanasio). I dipinti originariamente
coprivano i portelli dell’organo che sorgeva al di sopra del pulpito.
Nelle scene si scorgono vari personaggi appartenenti alla famiglia del
committente: il Cardinale Ranuccio Farnese: nel primo vescovo e in San
Giuseppe sarebbero da ravvisare le sembianze di papa Paolo III Farnese,
mentre nel vescovo dalla figura più giovanile sarebbe raffigurato lo
stesso committente. Anche i quadri collocati più in alto, l’Arcangelo
Gabriele e l’Annunziata, opera di Luca Giordano, erano sportelli
dell’altro organo collocato al di sopra del trono episcopale. Il transetto
è composto da sette cappelle:
Cappella di San Lorenzo
Sulla parete del presbiterio si apre la cappella di
San Lorenzo, detta anche di San Paolo de Humbertis dal vescovo Umberto d’Ormont
(1308-1320), voluta per ospitarne i resti mortali, e detta anche "degli
Illustrissimi", perché sede della congregazione sacerdotale delle
apostoliche missioni. Vi si conservano numerose tracce di pittura
trecentesca, fra cui l’affresco dell’Albero di Jesse sulla controfacciata,
attribuito a Lello d’Orvieto, certamente della scuola di Pietro Cavallini.
Nella cappella si conservano lastre e frammentì
marmorei di varie epoche. Il trittico posto sull’altare, raffigurante la
Visita di Maria a Sant’Elisabetta tra i Santi Nicola e Restituta, è di
Giovanni Antonio Santoro e risale al primo decennio del XVII secolo.
Nell’arco sopra l’altare, vi sono degli affreschi opera di Giovanni
Balducci. Tra la cappella degli Illustrissimi e quella dei Galeota trova
sistemazione l’altare marmoreo della famiglia Loffredo, ricco di
decorazioni barocche, sculture e intagli. E opera di Pietro e Bartolomeo
Ghetti. La tela di San Giorgio che uccide il drago è di Francesco Solimena.
L’altare originario era stato voluto da Enrico Spata dei Loffredo nel
1407; fu poi rimaneggiato nel 1689. A terra è collocata una pietra tombale
di famiglia a intarsio policromo risalente al 1771. Sul pilastro che
divide l’altare di San Giorgio dalla cappella Galeota è posta una tela
raffigurante il Cardinale Sisto Riario Sforza che amministra la cresima a
un ammalato di colera. L’opera è firmata da Giuseppe Mancinelli, ma nel
corso del restauro è emersa la data (1855) e la sigla FS, che fa pensare
al pennello di Francesco Sagliano.
-
Cappella famiglia Capece Galeotta
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Cappella di Sant’Aspreno o famiglia Tocco di
Montenifletto
-
Cappella famiglia Capace Minutolo
-
Cappella dell’Assunta o famiglia Milano
-
Cappella dell’Annunziata o famiglia Caracciolo Giosuè
-
Cappella della Maddalena
Abside
Al centro del transetto in corrispondenza con la
navata centrale s’innalza la tribuna dell’abside. Della originaria
struttura gotica non resta più nulla; anche all’esterno le strutture
murarie, prima caratterizzate da cinque bifore, furono modificate con
contrafforti e archi (due bifore furono chiuse, le altre furono
rimodellate). Il piano fu lievemente innalzato alla fine del ‘500 durante
i lavori di sistemazione voluti dal Cardinale Alfonso Gesualdo. Modifiche
sostanziali si ebbero per opera del Cardinale Spinelli, che fece iniziare
nel 1741 un radicale restauro su disegno del senese Paolo Posi. Fu
demolita la volta gotica, ribassata di circa cinque metri e sostituita con
un’incannucciata la curvatura del catino, che fu decorato con lacunari
(poi rimossi nel 1871 dalle decorazioni di Ignazio Perricci). Nella
trasformazione furono parzialmente coperti anche alcuni affreschi
cinquecenteschi di Giovanni Balducci, oggi solo parzialmente visibili
dalle sovrastrutture metalliche del sottotetto. Le bifore superstiti
furono trasformate in grandi finestre sormontate da oculi ellittici che
garantivano una migliore illuminazione dell’abside. Il presbiterio fu
allungato, proiettandolo nel transetto con due sezioni di gradini e un
ampio ripiano chiuso da una balaustra marmorea. Il coro, scolpito da Marc’Antonio
Ferraro nel 1616-1617 nella navata maggiore su disposizione del Cardinale
Decio Carafa, fu trasferito nella tribuna. L’altare fu rifatto in
sostituzione di quello originale con gli stemmi degli arcivescovi di casa
Orsini. Fu consacrato dal Cardinale Spinelli nel 1744. Il sarcofago con
piccoli putti è opera di Pietro Bracci; le modanature e i fregi in rame
dorato sono opera di Nicola de Blasio. Nel retro dell’altare furono
sistemate le reliquie di Sant’Agrippino e l’urna con quelle dei martiri
Acuzio ed Eutiche. Attualmente sull’altare è posto il Crocifisso romanico
precedentemente collocato nella seconda cappella della navata destra, del
primo Duecento, forse di ispirazione iberica (l’antica reliquia della
croce sistemata nel retro della statua è oggi nella cappella delle
reliquie). In luogo della pala dell’Assunta del Perugino, sul fondo fu
sistemata una monumentale Assunta in gloria, in marmo e stucco, opera di
Pietro Bracci, ispirata nel suo complesso alla Gloria del Bernini in
Vaticano. Di Stefano Pozzi è il Coro degli angeli della volta e la grande
tela di destra, raffigurante San Gennaro e Sant’Agrippino che proteggono
Napoli dai Saraceni nel 937, ricordo di un episodio storico verificatosi
durante l’episcopato di Atanasio III ed il ducato di Giovanni III Capece
Minutolo nella prima metà del X secolo. Alla parete sinistra una preziosa
tela del pugliese Corrado Giaquinto raffigurante la Traslazione delle
reliquie dei martiri Acuzio ed Eutiche, in ricordo del passaggio, avvenuto
nell’VIII secolo, dal sepolcro puteolano a quello monumentale nella
Stefania. Le due colonne di diaspro rosso agli angoli del presbiterio,
provenienti da uno scavo presso la diaconia di San Gennaro all’Olmo, erano
originariamente scanalate e prima collocate in posizione più arretrata.
Alla base dei due pilastri laterali della tribuna, due forbite epigrafi di
Alessio Simmaco Mazzocchi ricordano i restauri del 1744, la consacrazione
dell’altare e la nuova sistemazione dell’ingresso della cripta. Un
successivo restauro ottocentesco, su progetto fu dell’architetto Michele
Ruggiero e voluto dal Cardinale Sisto Riario Sforza, portò
all’eliminazione delle decorazioni a cassettoni della volta e al
rifacimento di stucchi e dorature con i due ovali in cui sono i busti di
San Gennaro e Sant’Atanasio, opere, queste, di Ignazio Perricci.
Infine due lapidi, collocate nel
1871 alle pareti laterali dell’abside, ricordano la visita di Pio IX al
duomo in occasione dell’esilio napoletano del 1849.
Cripta di San Gennaro o Succorpo
Trafugate dal principe Sicone dal sepolcro
napoletano nelle catacombe di Capodimonte, le Sacre reliquie di San
Gennaro furono rinvenute nel monastero di Montevergine dal figlio di
Ferdinando I Giovan Cardinal D’Aragona e traslate definitivamente a Napoli
nel 1497 dall’arcivescovo Alessandro Carafa. Suo fratello, il Cardinale
Oliviero Carafa, il primo dicembre dello stesso anno diede avvio alla
creazione di una cripta sottostante l’altare maggiore al fine di creare
nel duomo uno spazio adeguato per custodirle. La cripta o Succorpo fu
commissionata a Tommaso Malvisto, architetto e scultore comasco. Questi vi
lavorò con l’aiuto del figlio Giovan Tommaso e di altri artisti. Non
potendo innalzare il soffitto della tribuna, già piuttosto alto rispetto
al piano del transetto, si dovette scavare in profondità. Questo
espediente consentì la realizzazione di un ambiente di ariose forme
rinascimentali, che lascia trasparire come l’artista avesse a lungo
osservato e studiato le soluzioni architettoniche e decorative proprie del
Bramante. Ancora oggi si accede al Succorpo mediante due rampe ai lati
della tribuna e un corridoio a ellisse. Le lampade all’ingresso furono
disegnate da Francesco Jerace e realizzate dalla bottega dei Catello agli
inizi del ‘900 in occasione del XVI centenario del martirio di San
Gennaro. La cripta è costituita da un ambiente rettangolare di 12 per 9
metri, con un’altezza di 4, diviso in tre navate da dieci colonne, sulle
quali poggia direttamente il soffitto. Questo è suddiviso in diciotto
cassettoni marmorei, decorati ciascuno con la figura di un santo e quattro
cherubini.
Nelle formelle sono raffigurati a bassorilievo i
busti della Madonna con il Bambino, i Santi Pietro e Paolo, i quattro
Evangelisti, i Dottori della Chiesa, i sette patroni della città di
Napoli. Sul fondo è posto un vano quadrato, coperto da cupola e terminante
con una piccola abside. Alle pareti laterali si aprono su ogni lato cinque
nicchie che racchiudono un altare. All’inizio della navata centrale è la
statua del Cardinale Oliviero Carafa genuflesso in preghiera attribuibile
anch’essa alla mano di Malvito. Il pavimento di marmi policromi a
scomparti geometrici fu studiato in modo tale da ricordare un mosaico con
varietà cromatiche che richiamano echi cosmateschi. Il complesso, con le
sue rifiniture in marmo e con l’armonia delle proporzioni, suscitò fin dai
primi tempi della inaugurazione ammirazione e lodi; a ragione si può
affermare che il Succorpo di San Gennaro rappresenta il più completo e
unitario monumento del rinascimento napoletano. Il Sacello inoltre
rappresenta il Sancta Sanctorum della devozione ianuariana, in
quanto nell'altare al centro della piccola abside si conservano le ossa
del santo patrono in un'olla fittile di età medievale.
La Sacrestia Maggiore
La sacrestia maggiore della cattedrale si apre sulla
parete di fondo del transetto sinistro. Era in origine un oratorio fatto
dedicare da Roberto d’Anjou al fratello San Ludovico di Tolosa, frate
francescano, morto nel 1297. L’ambiente era stato pensato per accogliere
le tombe dei sovrani della dinastia angioina. Era dotata di un ingresso
autonomo che si apriva dove oggi è il cortile che conduce alla curia
arcivescovile. Nel 1581 l’arcivescovo Annibale di Capua decidendo di
adibire l’ambiente a sacrestia fece aprire l’attuale ingresso sul
transetto. Nel 1732 fu gravemente danneggiata nella parte sinistra della
crociera da un terremoto. I restauri furono prontamente eseguiti su
commissione del Cardinale Francesco Pignatelli che ne autorizzò la
trasformazione delle antiche linee architettoniche di stile gotico. Detta
trasformazione fu eseguita dall’ingegnere Filippo Buonocore che ne murò le
bifore, trasformandole in larghi finestroni con volute barocche, e tramutò
la volta a crociera in soffitto a incannucciata arricchito da un affresco
raffigurante San Gennaro che prega la SS. ma Trinità a favore della città
di Napoli, opera di Santolo Cirillo. Inoltre le pareti perimetrali furono
rafforzate a scapito degli affreschi trecenteschi del cielo di San
Ludovico, che raccontavano gli episodi più salienti della vita del Santo.
Una epigrafe in latino fu fatta incidere dal Cardinale Luigi Ruffo Scilla
sull’architrave dell’ingresso agli inizi del XIX secolo, questa richiama i
ritratti dei vescovi di Napoli dipinti in alto alle pareti interne della
sacrestia da Alessandro Viola in ovali di stucco. Il resto
dell’arredamento consiste in: massicci armadi lignei che vengono ancora
oggi usati per conservare i paramenti Sacri e un altare.
Su questo è posta una pala di Giovanni Balducci
raffigurante La Vergine tra San Gennaro e Sant’Agnello. Precedentemente la
pala fungeva da porta per un armadio a muro in cui si custodivano varie
reliquie. Il crocifisso d’avorio, di manifattura settecentesca, è alto
circa 90 centimetri. Il pavimento presenta al centro lo stemma del
Cardinale Alessio Assalesi ed alcune coperture marmoree che danno accesso
a un vano sottostante destinato agli inizi dello scorso secolo dal
Cardinale Ruffo Scilla come ipogeo sepolcrale degli arcivescovi
napoletani. Nel retro della sacrestia è posto un lavabo del XVI secolo,
un’uscita minore con archetti cinquecenteschi, varie epigrafi alle pareti
infine ricordano la sepoltura dell’arcivescovo Annibale di Capua e le
reliquie possedute dalla cattedrale. Attualmente il sacello
cinquecentesco, dedicato a Santa Maria del Pozzo, è stato modificato e
adibito a ufficio del vicario parrocchiale.
Area archeologica
Nella basilica di Santa Restituta, in fondo alla
navata sinistra, si apre l’accesso all’area archeologica sottostante il
duomo, contenente interessantissimi resti della città greco-romana e
paleocristiana. Si viene accolti da elementi di età greca, costituiti da
un lungo muro e da una zona di pavimentazione stradale. Il muro è in
corrispondenza della cappella di Santa Maria del Principio. Alto circa 5
metri e visibile per circa 3 metri (prosegue al di sotto della
pavimentazione della basilica costantiniana ed è accessibile calandosi
dalle tombe sovrastanti), termina all’esterno di Santa Restituta. Data la
natura monumentale dei blocchi del muro si può ipotizzare che fosse parte
di un edificio pubblico, forse un tempio. Data l’ubicazione è da escludere
che si possa trattare di un tratto del perimetro della cinta muraria.
Subito a ridosso di questo primo muro, a circa 2 metri dal pavimento della
sovrastante basilica, se ne sviluppa un altro ad opus reticulatum
di epoca romana. Prosegue, svoltando ad angolo retto sulla sinistra, per
oltre 12 metri. Per tutta la sua estensione, su cui non mancano tracce di
graffiti, mostra grandi zone di intonaco dipinte in rosso. Sono visibili
alcuni tronchi di colonne in laterizio, che reggevano una grondaia, come
si può intuire dalla sottostante cunetta per la raccolta di acque
pluviali. Questa procede in pendenza fin verso l’esterno del perimetro di
Santa Restituta; all’altezza della pavimentazione stradale greca si
biforca, proseguendo fino al cortile del palazzo arcivescovile. Accanto
all’ultimo tratto di parete è anche un piccolo corsetto in muratura
contenente una tubazione in piombo recante un marchio a sbalzo: AURELIE
UTICIAN. Sul lato occidentale dello scavo, verso destra accanto a una
cunetta per la raccolta di acque pluviali, si trovano degli ambienti
seminterrati.
Si tratta di quattro grandi sale, con pareti in
muratura di tufo a opus reticulatum e volte a botte. L’accesso era
consentito attraverso una scala che scendeva a partire da un vano aperto
sul lato occidentale; dalla stessa parte si accede all’ultima delle
quattro stanze, verso nord, che presenta pavimentazione in coccio pesto;
questo fa presumere che ci si trovi in un ambiente destinato a deposito
alimentare. Nel corso dello scavo questi ambienti furono ritrovati pieni
di materiali di rifiuto (frammenti di stoviglie, valve di ostriche,
frammenti vitrei, ecc.) tali da far pensare alla presenza di una taverna
nei locali sovrastanti. All’esterno di Santa Restituta, in direzione del
cortile della curia arcivescovile, è stata rinvenuta una strada romana,
oggi esposta per una lunghezza di circa 12 metri, formata da basoli in
pietra lavica. Il diverso livello di quota rispetto agli altri
rinvenimenti di epoca romana, la presenza di manufatti di spoglio, tra cui
una bella stipe funeraria, e l’avanzato grado di usura dei basoli,
lasciano datare la strada al IV o V secolo. É ipotizzabile che si tratti
di una strada interna all’insula. Dall’altro lato di questa strada,
a circa 2 metri al di sotto di Santa Restituta, è stato rinvenuto un
grande ambiente di circa 15 per 7 metri. La parete divisoria verso la
strada ha ampi tratti di intonaco, su cui vi sono almeno due strati
pittorici. Sul piano del calpestio, invece, si trovano tracce di
pavimentazione musiva a grandi tessere e con disegni geometrici, che
richiamano motivi ornamentali forse del V secolo. Particolarmente ben
conservato un riquadro con un motivo stellare contenente una croce greca.
Pare evidente la destinazione a uso religioso dell’ambiente, ma è
difficile individuare con certezza in esso un consignatorium, ossia
il luogo in cui si amministrava l’unzione crismale. Non è da escludere
in situ la presenza di terme.
Questo dato è confermato da vaghe tracce di vari
condotti in terracotta al di sotto del livello del pavimento che mostrano
chiaramente la canalizzazione di acqua calda, mentre le numerose "tegole
mammarie" attestano la presenza di pareti adattate al passaggio del vapore
caldo per il riscaldamento degli ambienti. L’area che segue fin verso
l’uscita dal lato della sacrestia maggiore è parzialmente occupata da un
grande blocco murario (forse si tratta del basamento di uno dei tanti
contrafforti costruiti in età medievale a sostegno della torre angolare
del transetto). Dal lato che confina con l’edificio della curia
arcivescovile, invece, si ritrovano altri frammenti musivi pavimentali.
Accanto si scorge anche un tronco di colonna su base scolpita: un
manufatto di probabile origine classica. Procedendo verso l’uscita, appare
una piccola abside semicircolare dal diametro di circa 4 metri. Lungo il
perimetro presenta un sedile di pietra intonacato e dipinto, interrotto al
centro da un passaggio verso un piccolo ambiente cieco situato alle
spalle. La pavimentazione è perfettamente conservata ed è costituita da
una decorazione musiva, in cui quale si legge l’iscrizione: "Vincentius
votum solbit". Salendo le scale che portano all’esterno, nel cortile
dell’ex Seminario Urbano, oggi sede dell’Archivio Storico Diocesano, si
passa accanto all’ingresso del conditorium, ossia dell’ipogeo
sepolcrale voluto agli inizi del XIX secolo dal Cardinale Luigi Ruffo
Scilla come luogo di sepoltura degli arcivescovi di Napoli. Tuttavia, la
realizzazione dell’ipogeo comportò la distruzione di preziosi materiali
archeologici, i quali, stando alle ottocentesche notizie fornite da
Lorenzo Loreto, che fu testimone dello scavo, avrebbero consentito di
individuare il cosiddetto battistero vincenziano o ad fontes minores,
ricordato nelle fonti letterarie, fatto erigere dal vescovo Vincenzo,
nella seconda metà del VI secolo, insieme all’accubitum, ossia
all’ambiente in cui si riposava e rifocillava il clero durante le liturgie
solenni. Percorrendo il vicolo che conduce al largo Donnaregina, si passa
accanto a un’alta vetrata, che copre e protegge i resti di un
quadriportico, che potrebbe essere identificato con l’atrio della Stefania
di cui parlano le fonti letterarie. Anche qui colonne e capitelli
provengono dallo spoglio di monumenti di origine classica. È plausibile
che fosse integralmente decorato, ne sono testimonianza le poche tracce
musive e ad affresco poste sotto alcune volte. Altre notizie sono di
difficile reperibilità, dal momento che l'edificio della curia
arcivescovile impedisce qualsiasi altro scavo e limita la lettura del
monumento. Esso si presenta alto, arioso, sorretto da colonne di vario
livello, aggiunte anche in tempi posteriori per rafforzare il solaio sul
quale si sviluppavano le stanze del palazzo arcivescovile. Sulla parete di
fondo del quadriportico è collocato il "calendario marmoreo". É un
manufatto su lastre di marmo incise intorno alla metà del IX secolo. Si
tratta di un documento decisivo della storia religiosa di Napoli, perché
in esso si conservano le costumanze liturgiche della Chiesa napoletana,
specie di quella parte del clero legata agli ambienti greci. Il
calendario, inoltre, ha il pregio di indicare l’antichità del culto reso
ad alcuni santi, e in particolare la data di sepoltura di ben ventitré
vescovi di Napoli. Il ritrovamento del calendario avvenne in maniera
fortuita nel 1742, quando i marmi furono rimossi dall’ingresso secondario
della chiesa di San Giovanni Maggiore. Salvati fortuitamente dalla
distruzione, furono valorizzati dal Cardinale Giuseppe Spinelli, che ne
affidava lo studio al canonico Alessio Simmaco Mazzocchi e ne dava una
prima sistemazione nella cappella dell’episcopio.
Il monumento è costituito da due plutei marmorei
incisi su ambedue le facciate: da un lato leoni alati, pegasi e ippogrifi;
dall’altro l’elenco delle festività liturgiche partite per mesi. Le due
lastre sono lunghe poco più di 6 metri ciascuna e alte circa 90
centimetri. Il "calendario marmoreo", rappresenta forse in maniera più
eloquente la continuità di una ininterrotta tradizione religiosa della
Chiesa locale, che si perpetua nella vitalità del monumento: dall’antica
memoria dei primi santi venerati a Napoli all’attuale chiesa cattedrale,
cuore pulsante della vita religiosa dell’arcidiocesi.
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