Il Duomo di Napoli

 

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La più antica cattedrale di Napoli fu fatta erigere e venne riccamente dotata dall’imperatore Costantino I (306-337), non si conosce la data precisa ma sicuramente dopo la pace della Chiesa. Sorse sull’area di un tempio forse dedicato ad Apollo. Non è nota l’intitolazione di questa prima cattedrale; secondo alcune fonti sarebbe stata dedicata al Salvatore secondo altre ai Santi Apostoli. Tra la fine dell’VIII secolo e l’inizio del secolo successivo prese il titolo di Santa Restituta in memoria della vergine e martire africana, le cui reliquie giunsero in Campania portate nel 439 dagli esuli della persecuzione del re Vandalo Genserico. Dalle fonti si apprende che una seconda cattedrale fu costruita, nell’ambito della stessa area urbana, dal vescovo Stefano I (499-501). Sappiamo che aveva l’abside orientata ad oriente, che fu dedicata al Salvatore, e la data della dedicazione secondo il calendario marmoreo cadeva il primo dicembre; è nota tra gli storici con il nome del fondatore: Stefania. Di questa monumentale basilica si sa poco, e le scarse notizie sono affidate per lo più al Liber pontificalis. Era unita alla Cattedrale costantiniana da un atrio comune quadriportico decorato a mosaico. Nelle cronache coeve venne magnificata e definita come opera "di meravigliosa bellezza". Era parallela a Santa Restituta, divisa da questa da una strada di epoca tardo imperiale di cui resta ancora qualche traccia, e dal complesso battesimale di San Giovanni in Fonte.

Le due cattedrali erano gestite da due cleri distinti ma amministrate da un unico vescovo. La sistemazione delle due chiese fa presumere che ci si trovi dinnanzi ad una particolare situazione chiamata a "basiliche doppie", di cui ci restano testimonianze nei complessi episcopali di Treviri e di Aquileia. Secondo il Farioli (1978) alla duplicità delle basiliche avrebbe corrisposto una duplicità di funzioni liturgiche: chiesa per la liturgia festiva la maggiore (Santa Restituta) e chiesa per la liturgia feriale la minore (Stefania). Quest’ultima veniva anche definita come domestica ecclesia in quanto annessa alla residenza episcopale. Sappiamo inoltre che l’abside era decorata da un mosaico raffigurante la Trasfigurazione di Gesù sul monte Tabor, voluto dal vescovo Giovanni II (533-555).

Verso la fine dell’VIII secolo la Stefania fu distrutta, forse nella notte del sabato santo, da un incendio causato da un cero pasquale. Il vescovo Stefano II (767-800) a sue spese la ricostruì a tre navate, scandite da sei colonne per lato. Altre fonti retrodatano di alcuni anni la sua distruzione e ricostruzione attribuendola sempre a Stefano II ma quando ricopriva ancora la carica di Duca della città (755-766); questi fu il primo Duca di Napoli resosi indipendente da Bisanzio e si tramanda facesse parte della famiglia Capece Minutolo. A metà del IX secolo il vescovo San Giovanni IV lo Scriba (842-849) collocò nella Stefania i resti mortali dei vescovi suoi predecessori prelevandoli dalla cosiddetta "cripta dei vescovi" delle catacombe di San Gennaro a Capodimonte; le tombe erano ornate da immagini raffiguranti i singoli presuli

Collocazione

La cattedrale di Napoli è collocata in una piccola rientranza porticata dell’ottocentesca via Duomo, un’arteria pensata in età borbonica ma realizzata solo con lo sventramento della città nei primi decenni dell’Unità d’Italia. Dedicata all’Assunta, sorge nel cuore della città greco romana, tra il "decumano" superiore (via Anticaglia) e il "decumano" maggiore (via Tribunali), tra i "cardini" vicus Radii Solis (l’attuale via Duomo) e vicus Plateae Capuanae (l’attuale vico Sedil Capuano), insistendo sul limite settentrionale dell’area del foro. Quest’area rimase il fulcro della vita cittadina fino allo spostamento della residenza reale, ad opera Carlo I d’Anjou (Castel Nuovo) alla fine del duecento. In epoca alto medioevale l’intera zona prendeva il nome di platea Summae platae ed era caratterizzata da copiosi edifici fortificati sia di culto che magnatizi.

Il Duomo e i terremoti

Il luogo dove oggi si erge maestoso il duomo ha ospitato fin dall’antichità numerosi edifici sacri: svariati templi pagani prima e successivamente l’oratorio di Santa Maria del Principio, che la leggenda vuole fosse officiato dal primo vescovo della città Sant’Aspreno, la basilica costantiniana di Santa Restituta, la Stefania, il battistero di San Giovanni in Fonte, vari oratori e cappelle. Una parte di questi edifici preesistenti ancora sopravvive inglobata nelle fabbriche dell’attuale cattedrale e dell’episcopio; gli altri monumenti sono andati perduti nelle risistemazioni dell’area succedutisi nel tempo, ne resta memoria solamente dalle fonti e dagli scavi effettuati in loco. Alla fine del XVII secolo risalgono delle annotazioni del canonico Carlo Celano. Questi scrisse che durante la preparazione del cenotafio del Cardinale Antonio Pignatelli (1686-1691), diventato papa con il nome di Innocenzo XII, dietro suo invito, nel 1687, scavando tra il pulpito e il trono marmoreo dal lato del transetto sinistro, si rinvenne a quattro palmi di profondità un pavimento "di lapilli battuti, che da noi viene detto astrico". Scavando ancora per tre palmi si rinvenne un’altra pavimentazione a mattoni, e dopo altri cinque palmi all’incirca "un pavimento di marmo cipollazzo e bianco" , inoltre osservò tracce di murature in laterizio e una pavimentazione in opus vermiculatum ricoperta poi dalla ripavimentazione del duomo. L’intera insula del duomo ha subito nel corso della sua storia molti e non sempre riusciti restauri, seguiti alle numerose eruzioni del Vesuvio o a disastrosi terremoti.

Come esempio basti pensare alla Cronaca del Villani: questa ci rende noto che il cantiere del duomo si era chiuso da pochi decenni, quando nel 1349 un grave sisma fece crollare la primitiva facciata di epoca angioina con la torre campanaria. Angelo di Costanzo ci narra che nel 1456, durante il periodo del regno degli Aragonesi, un nuovo terremoto "fece cadere in Napoli l’arcivescovado". San Giacomo della Marca, popolare predicatore francescano e testimone oculare dell’evento, ci ragguaglia intorno alla gravità dell’evento e alle conseguenze sulla vita cittadina: 62.000 case lesionate o distrutte e circa 130.000 vittime. Inoltre crollò nuovamente la torre del duomo e si ruppero moltissime suppellettili sacre; solo le ampolle del sangue di San Gennaro miracolosamente scamparono: furono salvate da una trave che cadendo obliquamente andò a creare una sorta di architrave sopra di loro. L’arcivescovo Alessandro Carafa (1484-1505) congiuntamente al Pontefice Innocenzo VIII (1484-1492), appartenente alla famiglia Capece Minutolo, ne patrocinarono il restauro: per rafforzare e consolidare la struttura muraria: furono ristretti le grandi finestre e furono divisi alcuni vani. Il terremoto del 1688 ebbe effetti devastanti sulla cattedrale. I cerimonieri della chiesa trascrissero nelle loro note che "cascò tutto il pulpito, buona parte del muro e della croce nella parte sinistra, si spaccarono ambedue le lamie delle navi, nella chiesa non si poteva officiare". A ogni sisma seguivano lavori di restauro più o meno accurati, tuttavia spesso questi non impedivano il riaprirsi delle lesioni in occasione dei successivi terremoti, come puntualmente si verificò nel 1732, nel 1805, nel 1930 e persino nel 1980.

La fabbrica del Duomo

La costruzione della cattedrale durante il dominio degli angioini intaccò in varia misura le due preesistenti basiliche: Santa Restituta fu notevolmente accorciata dall’eliminazione di alcune campate, la Stefania venne completamente demolita, perché coincise con lo sviluppo architettonico del transetto del nuovo edificio sacro. I rimanenti terreni ed edifici su cui andò a prendere corpo la fabbrica erano di proprietà della famiglia Capece Minutolo, al tempo ancora conosciuta come famiglia Capece, poi dall’arrivo degli Anjou Minutolo, proprietaria di gran parte dell’insula interessata dall’imponente edificio; gli alti prelati della famiglia, Sommi Pontefici, Cardinali e arcivescovi, contribuirono in maniera decisiva alla realizzazione del Duomo finanziandone la realizzazione per buona parte con risorse personali. In un documento del 1299 Carlo II di Anjou rivendicava al Suo Regno la fondazione della nuova cattedrale di Napoli. Sappiamo infatti che per la costruzione della nuova fabbrica impose il tributo di un 44° di grano alla settimana per ogni famiglia. Ma verosimilmente essa fu iniziata precedentemente durante il Regno del fondatore della dinastia angioina, Carlo I. Le parti più antiche della chiesa forse risalgono agli anni Settanta del XIII secolo: la tribuna e le cappelle vicine. Tali ambienti, sebbene rimaneggiati più volte, mostrano ancora la felice mano dei maestri del gotico transalpino venuti a Napoli a seguito degli Anjou. La costruzione proseguì durante il regno di Carlo II (1285-1309) e di Roberto (1309-1343), sotto cui probabilmente va attribuito il completamento dell’edificio.

Gli artisti ed architetti impiegati furono all’inizio prevalentemente di origine francese, ma nel corso degli anni vennero sostituiti da locali o italiani in genere. Nel 1314 la Cattedrale fu solennemente dedicata all’Assunta ad opera dell’arcivescovo Umberto d’Ormont (1308-1320), originario della Borgogna. Tale dedica fu confermata nella consacrazione della chiesa, avvenuta il 28 aprile 1644 ad opera del Cardinale Ascanio Filomarino (1641-1666). É da segnalare però che il canonico Carlo Celano riteneva plausibile che i lavori fossero iniziati durante il regno degli Svevi

La facciata

Le origini

Questa è la parte del duomo che nel corso dei secoli, attraverso successivi rimaneggiamenti e restauri, è stata oggetto delle trasformazioni più radicali. L’originaria facciata trecentesca del duomo andò quasi completamente perduta probabilmente già dal terremoto del 1349. Ne sopravvivono solamente alcune decorazioni: i leoni stilofori del portale maggiore, che però forse provengono dalla distrutta tomba di Carlo Martello, e la marmorea Madonna con Bambino (Mater orbis) nella lunetta centrale, opera dello scultore senese Tino di Camaino, attivo a Napoli dal 1323 fino alla morte, avvenuta nel 1337. Il completamento della parte inferiore avvenne durante il regno di Ladislao di Durazzo su commissione del Cardinale Enrico Minutolo (1389-1412) e di suo cugino il Pontefice Bonifacio IX, come attestano le numerose armi di famiglia scolpite nel marmo sia esternamente che internamente. Ne fu artefice Antonio Baboccio da Piperno, che lavorò alla facciata fino al 1407. Questi realizzò tutte le altre parti che compongono il portale maggiore: la cuspide, i gruppi di angeli in rilievo, le figure dei Santi Pietro e Gennaro con il Cardinale Enrico Capece Minutolo e il clipeo superiore con l’Incoronazione della Madonna. La parte superiore non trovò un definitivo completamento a causa della morte tanto dei committenti quanto del Baboccio e subì inoltre gravi danni durante il terremoto del 1456: tutte le vedute successive mostrano la parte sovrastante della facciata del duomo incompleta, completamente spoglia di qualsiasi decorazione.

Un tentativo di intervento di abbellimento della facciata fu operato nel 1788 dall’architetto Tommaso Senese su incarico del Cardinale Giuseppe Capece Zurlo (1781-1801). L’intervento si limitò però solamente alla messa in opera di cornicioni che stilisticamente andavano ad imitare il gotico della parte bassa.

Il completamento

Per vedere la facciata completata si dovette aspettare Enrico Alvino che ricevette l’incarico dal Cardinale Sisto Riario Sforza (1845-1877), avendo vinto il bando di concorso per il completamento della stessa nel 1876 subito prima di morire. La data della posa della prima pietra viene ricordata da una incisione alla base della colonnina del torrione di sinistra e fu benedetta dall’arcivescovo il 7 luglio 1877. L’epigrafe venne in parte danneggiata il 4 agosto 1943 da un bombardamento alleato. Alvino basò il suo progetto nell’avvolgere i monumenti tre-quattrocenteschi della facciata in una svettante cornice neo gotica, arricchendo la struttura di guglie, edicole e cuspidi. Sfortunatamente non fece in tempo ad abbellire il retro della stessa nella sua parte somitale: ancora oggi guardando la facciata dall’arcivescovado sembra ancora che il cantiere non sia stato completamente chiuso. L’opera fu completata, a causa della morte dell’artista, da Giuseppe Pisanti, che anche apportò alcune lievi modifiche al progetto iniziale. Sebbene mancante ancora delle guglie laterali e di altre decorazioni fu benedetto dal Cardinale Giuseppe Prisco (1898-1923) il 18 giugno 1905 per festeggiare il XV centenario del martirio di San Gennaro

Descrizione

La facciata del duomo è larga m 46,50 ed è alta circa m 50. È dotata di tre portali: uno centrale e due laterali. Il portale di sinistra ha sulla cuspide San Giovanni IV lo Scriba, nelle edicole i Santi vescovi Pomponio e Nostriano, sculture di Domenico Jollo. Nel medaglione vi è il busto del Salvatore in ricordo della Stefania a cui era dedicata. Nella lunetta è posta una statua raffigurante Sant’Atanasio attribuita ad Antonio Baboccio. Il portale di destra ha sulla cuspide Sant’Eustazio, nelle edicole i Santi vescovi Fortunato e Massimo, sculture di Alberto Ferrer. Nella lunetta è posta una statua raffigurante Sant’Aspreno attribuita ad Antonio Baboccio. Entrambi i portali sono in asse con le navate laterali e le cappelle absidali dedicate ai Santi raffigurati dalle statue. La porta di destra viene aperta solamente per le festività inerenti il culto di San Gennaro; deve essere aperta anche nei seguenti casi eccezionali: la fruizione di una funzione religiosa da parte di un membro della famiglia reale regnante o il matrimonio di un Capece Minutolo. L’ultima apertura eccezionale autorizzata ufficialmente risale al primo luglio del 2000, in occasione delle nozze dell’attuale detentrice del titolo di Principessa di Canosa Irma Capece Minutolo, nipote di sua maestà Farouk di Egitto. Queste sono state officiate congiuntamente dal Parroco del Duomo Don Domenico Felleca e da Monsignor Vittorio Formenti in rappresentanza della Curia del Vaticano e del Santo Padre Giovanni Paolo II che ha benedetto personalmente l’unione. Nel torrione di sinistra, sulla bifora, gli angeli ai lati della cuspide sono di Salvatore Irdi. Nel tondo vi è un busto raffigurante Santa Restituta di Michele Busciolani.

Sul fianco Tommaso Solari scolpì il bassorilievo dell’imperatore Costantino, che fece costruire Santa Restituta: la prima cattedrale napoletana. Nel torrione di destra, gli Angeli con i simboli di San Gennaro sono di Stanislao Lista. Nel tondo vi è il busto di San Gennaro di Antonio Busciolano. Sul fianco, di Tommaso Solari, il bassorilievo del vescovo Stefano I, fondatore della seconda cattedrale napoletana.

Interno

Introduzione

La navata centrale è larga 15 metri, le navate laterali 7,25 metri ciascuna. Guardando l’interno della cattedrale ci si accorge immediatamente che è stata rimaneggiata frequentemente nel corso dei secoli. Non solo i restauri seguiti a eventi calamitosi ne hanno modificato più volte l’impianto originario, ma anche numerosi ammodernamenti realizzati nel corso dei secoli hanno concorso a offrire una immagine spesso disarticolata ma incredibilmente affascinante. L’interno si presenta a croce latina a tre navate con una profondità di circa 100 metri; esattamente secondo l’impianto trecentesco originario. Le navate sono separate da sedici pilastri, otto per lato, su cui poggiano gli archi ogivali; nei pilastri sono incorporate 110 colonne di granito orientale e africano, spoliate dalla demolita Stefania. Il soffitto originariamente si presentava a capriate lignee. Nel 1621 il Cardinale Decio Carafa (1613-1626) fece realizzare il soffitto a cassettoni, che ancora oggi copre la navata centrale e il transetto. Sul finire del XVII secolo il Cardinale Innico Caracciolo (1667-1685) fece rivestire di stucchi barocchi le strutture gotiche. Dopo il terremoto del 1732 il Cardinale Giuseppe Spinelli (1734-1754) risistemò l’area dell’abside. E dopo di lui il Cardinale Antonino Sersale (1754-1775) ricoprì di marmi i basamenti dei pilastri gotici. L’ultimo rimaneggiamento di ampio respiro fu eseguito nel XIX secolo. Nelle intenzione dei promotori questa trasformazione doveva riportare il duomo all’originale splendore gotico.

Il tentativo però non andò a buon fine ma rese ancora più difficile la lettura del monumento. Fu iniziato dagli architetti Curcio e Cappelli su incarico del Cardinale Filippo Giudice Caracciolo (1833-1844) e consisté nella rimozione degli stucchi e degli intonachi con cui nel XVII secolo si erano coperte le colonne e nell’applicazione di marmi e stucchi ai pilastri. Continuò poi l’architetto Iaccarino su incarico del Cardinale Sisto Riario Sforza (1847-1855). La struttura gotica primitiva è visibile nella prima campata della navata di sinistra. Nel corso dell’ultimo restauro, eseguito dall’ingegnere Roberto Di Stefano nel 1969, sono stati messi in luce i vari livelli di intervento

La controfacciata

Sul portale maggiore all’interno della facciata si vedono: in alto è collocato il monumento sepolcrale di Carlo I d’Anjou (morto nel 1285), nel centro a destra il monumento di Carlo Martello re d’Ungheria (morto nel 1296), mentre a sinistra è posta la sua consorte Clemenza d’Asburgo (morta nel 1295). Questi monumenti sono un ottimo esempio della scultura tardo manieristica napoletana e rappresenta l’unico elemento di spicco della controfacciata. Originariamente le tombe erano collocate nell’area dell’abside, esattamente nella cappella di San Ludovico (la sacrestia maggiore), quindi poi erano state spostate nei depositi della cattedrale. L’attuale sistemazione monumentale fu eseguita da Domenico Fontana nel 1599 su incarico del viceré di Napoli Enrico di Gusman conte di Olivares e del suo successore il viceré Fernando Ruiz de Castro. A ricordo del restauro venne posta una epigrafe in latino. Unici altri elementi di spicco nella controfacciata sono gli stemmi dei Principi Capece Minutolo e l’epigrafe commemorativa della visita del Santo Padre Giovanni Paolo II.

La pavimentazione e le lastre tombali

L’attuale sistemazione del pavimento della cattedrale risale al 1952 e fu voluta dal Cardinale Alessio Assalesi (1924-1952), Il fatto è ricordato da una epigrafe marmorea posta nei pressi della porta centrale. All’ingresso della chiesa è posta la pietra tombale della famiglia Guindazzi, sostituita nel 1633. Al centro della navata è una posta una grande epigrafe circoscritta da una cornice ottagonale in marmo grigio. In essa si afferma che donna Ciarletta Caracciolo nel 1433 fornì alla cattedrale un pavimento a mattoni, rifatto dai discendenti nel 1603 durante l’episcopato del Cardinale Alfonso Gesualdo (1596-1603); fu nuovamente sistemato dal Cardinale Innico Caracciolo nel 1681, con marmi bianchi e lavagnoni grigi di Carrara. La famiglia Caracciolo accampava diritti di giuspatronato sull’intero pavimento del duomo, rivendicando il privilegio di collocarvi lapidi e stemmi di famiglia. Per frenare tale invadenza il Cardinale Spinelli fece eseguire a sue spese, nel 1744, una risistemazione del pavimento del coro e del transetto ai piedi della tribuna; nella circostanza furono rimossi numerosi altari di patronato laicale che ingombravano gli ambienti, addossati alle pareti o ai pilastri. Questa ripavimentazione non andò a toccare le lapidi ed il giuspatronato esercitato dei principi Capece Minutolo nella zona antistante la Cappella di famiglia. Segue l’antico sepolcro degli ebdomadari della cattedrale, risalente al 1414, rifatto e abbellito dal Cardinale Spinelli nel 1744 con l’intarsio delle figure di tre ecclesiastici con abiti corali del tempo. Spostata sul lato sinistro vi è, poi, la sepoltura del duca di Popoli, fratello del Cardinale Giacomo Cantelmo (16911702).

Al centro è posta la lapide sepolcrale con lo stemma del Cardinale Alfonso Gesualdo (1596-1603). Segue, spostata sulla destra, la sepoltura del Cardinale Giacomo Cantelmo (2 dìcembre 1702), con un epigrafe dettata da Carlo Maiello. All’incrocio del transetto, fra il trono e il pulpito, vi è la sepoltura con ornamenti in ottone allestita dal Cardinale Antonio Pignatelli (1686-1691), ma poi concessa al successore Cardinale Cantelmo, il quale la mise a disposizione della famiglia Pignatelli.

Il soffitto e le pareti

Il soffitto ligneo cassettonato sorge a m 45 dal pavimento. É decorato con grandi tele raffiguranti: la Natività e l’Epifania di Fabrizio Santafede, la Visita a Sant’Elisabetta e la Presentazione al tempio di Girolamo Imparato, l’Annunciazione di Giovanni Vincenzo da Forlì. I dipinti che decorano la sommità delle pareti della navata e del transetto e che si intercalano con le finestre raffiguranti gli Apostoli, i Padri della Chiesa e i Dottori della Chiesa, furono eseguiti da Luca Giordano e dalla sua bottega tra il 1676 e il 1678 su commissione del Cardinale Innico Caracciolo (1667-1685). Questi realizzò anche le tele circolari raffiguranti i Santi patroni di Napoli collocate sui pennacchi fra le grandi arcate a ogiva. Le tele nel transetto destro raffiguranti San Giovanni Crisostomo e San Cirillo furono realizzate da Francesco Solimena nel biennio 1701-1702 su commissione del Cardinale Giacomo Cantelmo. Nello spazio sopra i pilastri della navata centrale si aprono 14 edicole ove trovano posto dei busti raffiguranti Vescovi; questi furono collocati su commissione del Cardinale Spinelli nel 1745, e sono nell’ordine dall’ingresso verso l’altare, sul lato sinistro: Sant’Efebo, Sant’Eustazio, Sant’Agrippino, San Paolo I, San Marone, Sant’Epitimito, Sant’Aspreno; sul lato destro: San Marciano, San Cosma, San Fortunato, San Massimo, San Severo, Sant’Orso, San Giovanni I. Alcune di queste statue decoravano un tempo il coro della cattedrale che era posto al centro della navata. Le più antiche sono opera di Tommaso Montani, Cristoforo Monterossi e Cafari e datano agli inizi del XVII secolo; le altre invece risalgono al secolo successivo e sono di Carlo D’Adamo.

Sotto l’arco trionfale ai piedi del transetto, sulla sinistra, si conserva ancora il basamento del trono episcopale tardo gotico collocato nel 1376 e voluto dal Cardinale Bernardo III de Rhodez (1368-1379); si presenta con colonnine a spirali, scanalature infiorite, le insegne del Cardinale e dello stemma di Papa Gregorio XI. La parte terminale della cuspide fu danneggiata nel 1652, quando il Cardinale Filomarino vi fece collocare al di sopra l’organo dei fratelli napoletani Pompeo e Martino Franco (i due antichi portelli dell’organo dipinti da Luca Giordano sono collocati nel transetto di sinistra, in alto, sulla sacrestia maggiore). L’organo secentesco fu sostituito nel 1845. Un ulteriore organo, voluto dal Cardinale Ranuccio Farnese (1544-1549) e costruito da Gianfranco da Palma, era collocato al di sopra del pulpito. I due maestosi portelli dipinti da Giorgio Vasari sono collocati accanto a quelli di Luca Giordano nei pressi della sacrestia maggiore. Di fronte vi è il pulpito marmoreo del XVI secolo, attribuito ad Antonio Caccavello. Il bassorilievo frontale raffigura Gesù predicante. Sotto la seconda arcata di sinistra vi è un fonte battesimale, sistemato dal Cardinale Decio Carafa come cornice barocca dell’antica vasca scolpita di basalto egiziano di origine pagana con basamento in porfido. La piccola cupola semisferica di copertura poggia mediante quattro colonnine marmoree in verde e intarsi policromi ed è sormontata da un gruppo bronzeo che raffigura Il battesimo di Gesù. Il fonte battesimale è circondato da due scalette a semicerchio con balaustra.

Navata Sinistra

Introduzione

All’inizio della navata, partendo dalla controfacciata, si apre l’accesso alla scala del torrione: il Tesoro Vecchio. In quegli ambienti è ospitata la Compagnia della morte, o confraternita di Santa Restituta dei Neri; i confratelli, che vestivano il "sacco" nero, assumevano l’impegno di dare sepoltura agli indigenti morti improvvisamente non in grado di provvedere alla propria sepoltura. Fondata dall’arcivescovo Mario Carafa (1565-1576), era originariamente sistemata nel battistero di San Giovanni in Fonte. Il Cardinale Ascanio Filomarino concesse questa sede nel Seicento, quando le reliquie del santo patrono furono traslate nella nuova Cappella del Tesoro. Nell’oratorio della confraternita il quadro che è posto sull’altare raffigura la Nascita di Gesù; opera di Fabrizio Santafede. Intorno vi sono vari dipinti di Paolo di Maio. Nella sacrestia si conservano i ritratti del viceré Fernando Alvarez di Toledo duca d’Alba e della moglie donna Maria, benefattori della confraternita. Le ampolle del sangue di San Gennaro erano conservate ancora nel Tesoro Vecchio quando parte del duomo e dei torrione crollò per il terremoto del 1456. Sembrò un miracolo che non subissero danno alcuno. Nella Cronaca di Notar Giacomo si legge che "dove era il sangue del glorioso S. Iennaro, foro trovati due travi sopra le carrafelle, che non subirono lesione alcuna". Le ampolle furono coinvolte anche in un altro grave incidente, da cui scamparono fortunosamente.

Nel 1557, infatti, il tesoriere Mariano Catalano, reggendo la reliquia del sangue, sdrucciolò per l’antica scala lignea a chiocciola che menava giù in duomo, ma le ampolle non subirono danno. La navata sinistra è composta da quattro cappelle:

  • Cappella famiglia Filomarino o Santa Maria Francesca delle Cinque Piaghe

  • Cappella famiglia Teodoro già famiglia Gambacorta

  • Cappella famiglia Brancaccio

  • Cappella famiglia Sacripando

Santa Restituta

Introduzione

La basilica di Santa Restituta è accessibile dalla navata sinistra della cattedrale da una porta che corrisponde alla terza cappella. Rappresenta un’interessante testimonianza dell’arte paleocristiana a Napoli in particolare e nell’Impero romano in generale. Fondata dall’imperatore Costantino I nella prima metà del IV secolo per via di numerosi rimaneggiamenti stilistici mostra pochi elementi della originaria struttura paleocristiana. Fu costruita a cinque navate seguendo lo stile in voga al tempo; era molto più lunga dell’attuale estensione, prolungandosi per tutta la larghezza della navata centrale della cattedrale di epoca angioina. Questa parte oggi mancante fu demolita per cedere spazio alla nuova costruzione medievale. É ipotizzabile che avesse all’origine cinque ingressi corrispondenti alle altrettante navate, ma i due più estremi dovettero essere murati precedentemente al rafforzamento dell’edificio dopo il terremoto del 1456, quando le navate estreme furono adattate a cappelle. Una epigrafe posta nel frontespizio del portale ci informa che fu ridimensionato come lo vediamo ancora oggi nel 1742, quando il Cardinale Spinelli murò i due ingressi laterali per consolidare le pareti sistemando nella navata sinistra i monumenti funerari dei suoi predecessori Alfonso Carafa e Alfonso Gesualdo.

L’abside

Arcangelo Guglielmelli durante il restauro a seguito del  terremoto del 1688 trasformò l’abside nell’attuale stile barocco, ricoprì la capriata con un soffitto a tavolato decorato e dorato con pitture su carta e su tela. Al centro fu sistemata una tela attribuita a Luca Giordano raffigurante Santa Restituta in barca guidata dagli angeli verso l’isola d'Ischia. Il coro che sorgeva al centro della navata maggiore fu portato nell’area del presbiterio insieme all’altare sul finire del XVI secolo. L’ampio arco trionfale paleocristiano a tutto sesto, poggiante su due antiche colonne corinzie scanalate, fu ricoperto con un drappeggio scenografico di stucco sorretto dagli angeli, opera di Antonio Disegna, mentre Nicola Vaccaro vi dipinse su tavola sagomata un Salvatore in gloria con evidenti suggestioni apocalittiche nella rappresentazione. Rimase nel catino absidale l’immagine del Salvatore tra gli angeli del 1592, che copriva affreschi del duecento. Al centro dell’abside è posta una tavola con Madonna in trono tra San Michele e Santa Restituta, opera cinquecentesca attribuibile o al salernitano Andrea Sabatini o a Stefano Sparano di Caiazzo. Il monumentale altare barocco, in cui furono conservate le reliquie di Santa Restituta e del vescovo napoletano San Giovanni IV lo Scriba, fu smontato nel 1949, lasciando a vista l’antica mensa retta da grifi trapezofori: i due rivolti al popolo sono antichi, di origine pagana; quelli sul retro sono imitazione simmetrica di epoca recente. La "nuova" basilica fu riaperta al culto nel 1692.

Le navate

All’interno vi sono 27 colonne di cipollazzo e granito con capitelli corinzi di diverso disegno e misura, sovrapposti a rozzi pulvini, sicuramente elementi di spoglio forse provenienti dal tempio di Apollo sulle cui rovine pare sorgesse la basilica costantiniana. Gli archi a sesto acuto e l’innalzamento del pavimento risalgono al trecento. Le basi delle colonne sono fittizie e rappresentano un espediente a cui ricorse Arcangelo Guglielmelli; le vere basi furono interrate nella realizzazione del nuovo pavimento. Lungo la navata vi sono diciotto tondi di Francesco De Mura, raffiguranti Gesù Cristo, la Madonna e alcuni Santi; furono donati dal canonico Fortunato Mauro nel 1734. Invece, le sedici tele situate tra i finestroni furono commissionate a Santolo Cirillo dal canonico Gennaro Maiello. Arcangelo Guglielmelli realizzò il ricercato gioco di prospettive a colonne della cantoria sulla controfacciata della basilica. Il pavimento è costellato di numerose lapidi sepolerali di varie epoche. Al centro si apre la sepoltura dei canonici della cattedrale, riprodotti in abiti corali in un bassorilievo marmoreo del 1475. Sulle pareti, nelle immediate vicinanze dell’ingresso, figurano numerose sepolture o monumenti funebri di uomini illustri.

Le cappelle poste a sinistra

Nella cappella sulla sinistra dell’ingresso è posto l’altare marmoreo di Andrea Vaccaro, dal quale è stata recentemente rimossa la statua di San Gennaro, collocata nell’ultima cappella della navata sinistra della cattedrale. L’altare fu sistemato in Santa Restituta nel 1887. Originariamente era stato eretto nel Succorpo nel 1737 come dono del primo dei Borbone. Nella navata di sinistra la prima cappella, dedicata a San Nicola, era di patronato della famiglia de Gennaro. É adornata dei busti del vescovo Matteo de Gennaro e del condottiero Marc’Antonio de Gennaro. Nel pavimento si trova una pietra tombale posta nel 1654 dal canonico Matteo de Gennaro. La mensa ovale dell’altare è retta da una coppia di leoncini in marmo di gradevole fattura. La seconda cappella, dedicata a Sant’Elena, era patronato della famiglia Polverino. Alle pareti sono sistemati un San Francesco di Paola a destra e un lacerato Tradimento di Giuda a sinistra. La seguente cappella era di patronato della famiglia de Rossi. A sinistra è posta un’iscrizione lapidaria in memoria di Felice de Rossi (morto nel 1568), vescovo di Potenza e di Tropea. A terra è collocata la sepoltura di famiglia. Sull’altare una secentesca Assunzione della Vergine. La cappella di Sant’Aspreno presenta sull’altare una Predicazione di San Pietro a Napoli di Santolo Cirillo. Davanti è la tomba del dotto canonico Carlo Maiello (morto nel 1738), prefetto della biblioteca vaticana. A sinistra monumento funebre per il canonico Giuseppe Maria Pulci (morto nel 1758). A destra quadro di San Nicola. Ultima della navata sinistra è la Cappella di Santa Maria del Principio, e sembra essere stata la prima dedicata alla Madonna sotto questo titolo. Lello da Orvieto nel 1322 realizzò, firmandolo, il luminoso mosaico che campeggia nel catino absidale la Vergine coronata e nimbata è assisa in trono e regge in grembo il Bambino; accanto sono raffigurati San Gennaro in abiti episcopali e Santa Restituta reggenti tra le mani dei libri aperti. In alto lo Spirito Santo sotto forma di colomba osserva la scena. Si colgono influssi di arte senese. E verosimile che al posto del mosaico sorgesse in origine un affresco con analogo tema iconografico. In un’urna sotto l’altare sono conservate le reliquie di Santa Restituta e di San Giovanni IV lo Scriba. Santa Restituta, venerata a Napoli e a Ischia, era forse originaria di Cartagine. Subì il martirio ad Abitine il 12 febbraio del 304. Secondo un’antica passio fu condannata a essere arsa viva in una barca carica di pece; invece confortata da una visione angelica, spirò dolcemente, mentre i carnefici cadevano in mare, colpiti dalla vendetta divina. La barca, spinta verso i lidi campani, approdava sulla spiaggia dell’isola d’Ischia, dove il corpo trovò una onorevole sepoltura. Con le reliquie che portarono con loro, i profughi della persecuzione del Vandalo Genserico (439) diffusero nella regione il culto di questa santa e di numerosi altri santi africani. San Giovanni IV lo Scriba fu vescovo di Napoli dall’842 all’849; apparteneva verosimilmente alla famiglia Capece Minutolo. Seguì fedelmente il vescovo Tiberio perseguitato dal duca usurpatore Bono (832-834). Gli successe alla guida della Chiesa di Napoli, prendendosi cura di far trasportare nella Stefania i resti dei vescovi suoi predecessori sepolti nelle catacombe di Capodimonte.

Con il passare del tempo la memoria di questo presule fu confusa con altre figure omonime, facendo cadere il suo culto quasi nell’oblio fino alla fine dello scorso secolo quando fu rivitalizzato dall’interesse storico e liturgico dei dotti canonici Gennaro Aspreno Galante e Domenico Mallardo. Ai piedi dell’altare è posta la sepoltura dal canonico Giuseppe Vinaccia (morto nel 1819) e un’epigrafe del canonico Giuseppe Pelella (morto nel 1898). Vi è poi il sepolcro del canonico Gian Giacomo Cangiano (morto nel 1705), archivista del capitolo. Si notano pure le epigrafi commemorative del canonico Pietro Marco Gizzio (morto nel 1741) e del canonico Francesco Verde (morto nel 1706). Ai lati della cappella sono collocati due plutei marmorei di pregevole fattura artistica riutilizzati come lastre pavimentali, attualmente sistemati alle pareti. Sono lastre marmoree partite in quindici riquadri, la seconda è priva della cornice e ha quattro formelle della prima fila mutile. Opere dell’inizio del XIII secolo, segnano la piena affermazione del romanico in Napoli. Nella lastra di sinistra è riprodotto il ciclo biblico di Giuseppe venduto dai fratelli: le immagini si leggono da destra a sinistra. Nella lastra di destra Storie di San Gennaro. di Sansone e altri santi. Ai due pannelli si ricollegano due semi colonnine tortili con capitelli, collocate nella sacrestia a reggere un lavamano; non potevano far parte, dunque, come in passato si era supposto, degli amboni ancora visibili nel XVI secolo nel coro della basilica, né di quelli ugualmente scomparsi della Stefania. Sono soltanto resti di una transenna marmorea di incerta provenienza. Nella navata destra della basilica di Santa Restituta, le cappelle sono state recentemente restaurate con la riapertura delle antiche monofore.

Sul fondo della navata sono le sepolture della famiglia Intonti, con tomba di stile neoclassico, eretta nel 1857. Nell’ambiente vi sono tracce delle finestre e degli ingressi antichi, murati dopo il taglio per l’edificazione del duomo. Nella basilica di Santa Restituta, in fondo alla navata sinistra, si apre l’accesso all’area archeologica sottostante il duomo, contenente interessantissimi resti della città greco-romana e paleocristiana. Si viene accolti da elementi di età greca, costituiti da un lungo muro e da una zona di pavimentazione stradale. Il muro è in corrispondenza della cappella di Santa Maria del Principio. Alto circa 5 metri e visibile per circa 3 metri (prosegue al di sotto della pavimentazione della basilica costantiniana ed è accessibile calandosi dalle tombe sovrastanti), termina all’esterno di Santa Restituta. Data la natura monumentale dei blocchi del muro si può ipotizzare che fosse parte di un edificio pubblico, forse un tempio. Data l’ubicazione è da escludere che si possa trattare di un tratto del perimetro della cinta muraria. Subito a ridosso di questo primo muro, a circa 2 metri dal pavimento della sovrastante basilica, se ne sviluppa un altro ad opus reticulatum di epoca romana. Prosegue, svoltando ad angolo retto sulla sinistra, per oltre 12 metri. Per tutta la sua estensione, su cui non mancano tracce di graffiti, mostra grandi zone di intonaco dipinte in rosso. Sono visibili alcuni tronchi di colonne in laterizio, che reggevano una grondaia, come si può intuire dalla sottostante cunetta per la raccolta di acque pluviali. Questa procede in pendenza fin verso l’esterno del perimetro di Santa Restituta; all’altezza della pavimentazione stradale greca si biforca, proseguendo fino al cortile del palazzo arcivescovile. Accanto all’ultimo tratto di parete è anche un piccolo corsetto in muratura contenente una tubazione in piombo recante un marchio a sbalzo: AURELIE UTICIAN. Sul lato occidentale dello scavo, verso destra accanto a una cunetta per la raccolta di acque pluviali, si trovano degli ambienti seminterrati. Si tratta di quattro grandi sale, con pareti in muratura di tufo a opus reticulatum e volte a botte. L’accesso era consentito attraverso una scala che scendeva a partire da un vano aperto sul lato occidentale; dalla stessa parte si accede all’ultima delle quattro stanze, verso nord, che presenta pavimentazione in coccio pesto; questo fa presumere che ci si trovi in un ambiente destinato a deposito alimentare. Nel corso dello scavo questi ambienti furono ritrovati pieni di materiali di rifiuto (frammenti di stoviglie, valve di ostriche, frammenti vitrei, ecc.) tali da far pensare alla presenza di una taverna nei locali sovrastanti. All’esterno di Santa Restituta, in direzione del cortile della curia arcivescovile, è stata rinvenuta una strada romana, oggi esposta per una lunghezza di circa 12 metri, formata da basoli in pietra lavica. Il diverso livello di quota rispetto agli altri rinvenimenti di epoca romana, la presenza di manufatti di spoglio, tra cui una bella stipe funeraria, e l’avanzato grado di usura dei basoli, lasciano datare la strada al IV o V secolo. É ipotizzabile che si tratti di una strada interna all’insula. Dall’altro lato di questa strada, a circa 2 metri al di sotto di Santa Restituta, è stato rinvenuto un grande ambiente di circa 15 per 7 metri. La parete divisoria verso la strada ha ampi tratti di intonaco, su cui vi sono almeno due strati pittorici. Sul piano del calpestio, invece, si trovano tracce di pavimentazione musiva a grandi tessere e con disegni geometrici, che richiamano motivi ornamentali forse del V secolo. Particolarmente ben conservato un riquadro con un motivo stellare contenente una croce greca.

Pare evidente la destinazione a uso religioso dell’ambiente, ma è difficile individuare con certezza in esso un consignatorium, ossia il luogo in cui si amministrava l’unzione crismale. Non è da escludere in situ la presenza di terme. Questo dato è confermato da vaghe tracce di vari condotti in terracotta al di sotto del livello del pavimento che mostrano chiaramente la canalizzazione di acqua calda, mentre le numerose "tegole mammarie" attestano la presenza di pareti adattate al passaggio del vapore caldo per il riscaldamento degli ambienti. L’area che segue fin verso l’uscita dal lato della sacrestia maggiore è parzialmente occupata da un grande blocco murario (forse si tratta del basamento di uno dei tanti contrafforti costruiti in età medievale a sostegno della torre angolare del transetto). Dal lato che confina con l’edificio della curia arcivescovile, invece, si ritrovano altri frammenti musivi pavimentali. Accanto si scorge anche un tronco di colonna su base scolpita: un manufatto di probabile origine classica. Procedendo verso l’uscita, appare una piccola abside semicircolare dal diametro di circa 4 metri. Lungo il perimetro presenta un sedile di pietra intonacato e dipinto, interrotto al centro da un passaggio verso un piccolo ambiente cieco situato alle spalle. La pavimentazione è perfettamente conservata ed è costituita da una decorazione musiva, in cui quale si legge l’iscrizione: "Vincentius votum solbit". Salendo le scale che portano all’esterno, nel cortile dell’ex Seminario Urbano, oggi sede dell’Archivio Storico Diocesano, si passa accanto all’ingresso del conditorium, ossia dell’ipogeo sepolcrale voluto agli inizi del XIX secolo dal Cardinale Luigi Ruffo Scilla come luogo di sepoltura degli arcivescovi di Napoli.

Tuttavia, la realizzazione dell’ipogeo comportò la distruzione di preziosi materiali archeologici, i quali, stando alle ottocentesche notizie fornite da Lorenzo Loreto, che fu testimone dello scavo, avrebbero consentito di individuare il cosiddetto battistero vincenziano o ad fontes minores, ricordato nelle fonti letterarie, fatto erigere dal vescovo Vincenzo, nella seconda metà del VI secolo, insieme all’accubitum, ossia all’ambiente in cui si riposava e rifocillava il clero durante le liturgie solenni. Percorrendo il vicolo che conduce al largo Donnaregina, si passa accanto a un’alta vetrata, che copre e protegge i resti di un quadriportico, che potrebbe essere identificato con l’atrio della Stefania di cui parlano le fonti letterarie. Anche qui colonne e capitelli provengono dallo spoglio di monumenti di origine classica. È plausibile che fosse integralmente decorato, ne sono testimonianza le poche tracce musive e ad affresco poste sotto alcune volte. Altre notizie sono di difficile reperibilità, dal momento che l'edificio della curia arcivescovile impedisce qualsiasi altro scavo e limita la lettura del monumento. Esso si presenta alto, arioso, sorretto da colonne di vario livello, aggiunte anche in tempi posteriori per rafforzare il solaio sul quale si sviluppavano le stanze del palazzo arcivescovile. Sulla parete di fondo del quadriportico è collocato il "calendario marmoreo". É un manufatto su lastre di marmo incise intorno alla metà del IX secolo. Si tratta di un documento decisivo della storia religiosa di Napoli, perché in esso si conservano le costumanze liturgiche della Chiesa napoletana, specie di quella parte del clero legata agli ambienti greci. Il calendario, inoltre, ha il pregio di indicare l’antichità del culto reso ad alcuni santi, e in particolare la data di sepoltura di ben ventitré vescovi di Napoli.

Il ritrovamento del calendario avvenne in maniera fortuita nel 1742, quando i marmi furono rimossi dall’ingresso secondario della chiesa di San Giovanni Maggiore. Salvati fortuitamente dalla distruzione, furono valorizzati dal Cardinale Giuseppe Spinelli, che ne affidava lo studio al canonico Alessio Simmaco Mazzocchi e ne dava una prima sistemazione nella cappella dell’episcopio. Il monumento è costituito da due plutei marmorei incisi su ambedue le facciate: da un lato leoni alati, pegasi e ippogrifi; dall’altro l’elenco delle festività liturgiche partite per mesi. Le due lastre sono lunghe poco più di 6 metri ciascuna e alte circa 90 centimetri. Il "calendario marmoreo", rappresenta forse in maniera più eloquente la continuità di una ininterrotta tradizione religiosa della Chiesa locale, che si perpetua nella vitalità del monumento: dall’antica memoria dei primi santi venerati a Napoli all’attuale chiesa cattedrale, cuore pulsante della vita religiosa dell’arcidiocesi.

Le cappelle poste a destra

Sull’altare della prima cappella è collocato un Martirio di San Giovanni Battista opera di anonimo. La cappella dei Ricciardi o del Crocifisso risale al XIII secolo e ospita degli armadi contenenti numerosi reliquiari. Sul pavimento è posta un’epigrafe del 1603 raffigurante l’insegna di famiglia. Segue la cappella della famiglia Piscicelli restaurata nel 1915. Sulla parete destra sono stati recentemente sistemati tre dipinti su tavola raffiguranti il Salvatore sul sole (del 1484) al centro e, di epoca più recente, San Gennaro e Sant’Atanasio ai lati; le tre tavole provengono dalla cappella Galeota nel transetto sinistro della cattedrale. Nella successiva cappella esercitava il diritto di giuspatronato laicale la famiglia dei Caracciolo Guindazzi. La lapide a destra, del 1732, ricorda che l’altare era dedicato alla Vergine dei Sette Gaudii. Sopra, quadro di Sant’Anna con la Vergine e il Bambino. A sinistra, la Madonna tra San Giovanni Battista e San Gennaro attribuito alla scuola del Sabatini. A terra, lastra quattrocentesca in memoria di Giannone Caracciolo raffigurato con elegante veste cavalleresca. Nella cappella Forma è evidente nella parete di sinistra l’epigrafe commemorativa di Giovanni e Marino Forma, patrizi napoletani legati alla dinastia aragonese. Un’iscrizione sulla parete opposta, tuttavia, scandisce i vari passaggi di patronato della cappella, che successivamente appartenne ai Caracciolo, ai del Pezzo, ai Longo e ai Severino. Nell’ultima cappella, già dedicata a San Giuseppe, è collocata la tomba del canonico Marco Celentano (morto nel 1764). Sull’altare è posta una Pietà di Hendrick Van Somer su tela riutilizzata (ai bordi del quadro sono visibili tracce di preesistenti decorazioni pittoriche).

Ai lati, quadri di Giovanni Balducci raffiguranti Sant’Agnello che scaccia i Saraceni, a destra, e San Gennaro che protegge Napoli dal Vesuvio, a sinistra. Un ampio vano separa le cappelle del lato orientale dall’ingresso al battistero di San Giovanni in Fonte. In esso furono raccolte pregevoli testimonianze delle antichità cristiane napoletane. Sulla parete esterna del battistero si scorgono, in alto, tracce di affreschi del XIV secolo, che forse decoravano l’intera basilica prima dell’intervento manieristico del XVII secolo. Vi è raffigurato forse un Giudizio universale con qualche suggestione di Pietro Cavallini; sono visibili solo una crocifissione e una serie di apostoli e santi. La tomba del canonico Galante (morto nel 1923) è sormontata da un medaglione di Francesco Ierace e accompagnata da un’epigrafe commemorativa. Accanto alla porta del battistero vi sono frammenti di una transenna del IX secolo proveniente dalla chiesa di Santa Maria a Piazza. Sul pavimento è collocata un’epigrafe cinquecentesca che ricorda il canonico Luca Cagiano e alcuni suoi familiari. Dalla cappella dei Piscicelli proviene la tomba di Riccardo (morto nel 1331) con figura giacente su di un sarcofago classico. In un altro sarcofago decorato con scene di baccanali, è posta la sepoltura di Alfonso. Al di sopra è visibile un delicato ciborio quattrocentesco rappresentante la scena dell’Annunciazione della scuola di Tommaso Malvito. Sulla parete laterale vi sono tre frammenti della lapide dedicata all’arcidiacono Teofilatto morto nel 671 a poco più di ventinove anni. La lapide era incassata nella predella dell’altare maggiore della basilica e fu rinvenuta nel 1862 in occasione dei lavori di sistemazione dell’abside.

Accanto è posta una tavola marmorea con un carme sepolcrale acrostico in quindici distici inneggiante all’usurpatore Duca Bono (giustiziato nel 834), già sistemata nella chiesa di Santa Maria a Piazza. L’epitaffio distorce palesemente la verità storica in quanto ne elogia le inesistenti virtù; in realtà il duca usurpatore Bono fu un despota che si impadronì del potere assassinando il duca Stefano III Capece Minutolo, perseguitando il vescovo Tiberio, e tentò anche di provocare uno scisma nella Chiesa napoletana. Al di sopra e accanto alle antiche iscrizioni vi sono epigrafi secentesche, che celebrano i Piscicelli.

Il Battistero

Quadro storico

In fondo alla navata destra della basilica di Santa Restituta è collocato il battistero di San Giovanni in Fonte. La sua fondazione viene generalmente attribuita al vescovo Severo (363-412); le fonti presentano discordanze in proposito. Viene attribuita all’imperatore Costantino, in contemporanea con la basilica di Santa Restituta dalla leggendaria Cronaca di Santa Maria del Principio, opera del XIII-XIV secolo. L’epigrafe moderna, in volgare, collocata nei pressi dell’antico ingresso deriva da questa cronaca: "[Questa cappella la edificai lo Imperatore] Constatino [sic] ali ani CCCXXXXIII poy la Nativi. de XPO et la consacrai S. Silvestro et ave nome S. loanne ad Fonte et ave indulgentia infinita [sic]". Il Liber pontificalis ci informa brevemente che il vescovo Sotere (465) fece costruire un battistero. La carenza di dettagli, l’assoluta mancanza di ulteriori scritti inerenti la presenza di due battisteri all’interno dell’area nonché l’assenza di resti fa pensare che deve trattarsi di un rimaneggiamento dello stesso edificio. Inoltre nel corso di recenti restauri è emerso che nel V secolo si consolidarono la struttura muraria, si ridussero le dimensioni delle finestre, si ampliarono e vennero decorati tre dei quattro pennacchi a cuffia in cui sono raffigurati i simboli degli evangelisti, si restaurarono i mosaici nella fascia inferiore della cupola. La struttura architettonica del monumento e l’analisi stilistica della decorazione musiva fanno datare con certezza alla fine del IV secolo la costruzione del battistero.

San Severo (364-410) costruì il battistero, San Sotere (465) ne curò una ristrutturazione con l’aggiunta di nuove decorazioni musive. San Giovanni in Fonte è senza ombra di dubbio il battistero più antico della Cristianità occidentale: anteriore di oltre trenta anni al battistero lateranense fatto erigere da Sisto III (432-440).

Evoluzione nei secoli

Originariamente l’edificio, che si presenta a pianta quadrata, era isolato, dotato di un ingresso che si apriva nella parete occidentale. La struttura di base è raccordata al tamburo ottagonale mediante quattro nicchie angolari. La copertura della volta è costituita da una piccola cupola a calotta. Costruito in tufo, prendeva luce da quattro bifore collocate nel tamburo; queste furono modificate in seguito, forse durante la ristrutturazione del vescovo Sotere, e furono eseguiti mosaici raffiguranti santi martiri sopra la nuova muratura. Entrando, sulla parete di sinistra si scorgono i due ingressi originari, oggi collocati a ridosso dell’abside della basilica costantiniana. Al centro è posta la vasca battesimale di forma circolare realizzata in coccio pesto (opus sexstile): ha un diametro di 2 metri e una profondità di 61 centimetri; da tracce persistenti si può evincere che originariamente il bordo fosse circondato da transenne. Presenta un foro per la fuoriuscita dell’acqua ma è mancante di una condotta di adduzione. L’acqua veniva versata con recipienti, prassi comune documentata dagli antichi testi liturgici dei primi secoli. Il lato settentrionale dell’edificio fu modificato con l’aggiunta di un piccolo portico in occasione dei lavori di apertura della porta che collegava direttamente la cattedrale al palazzo arcivescovile, durante l’episcopato del Cardinale Filomarino (1644); le colonne e i capitelli appartengono a un restauro successivo datato alla fine del XIX secolo. In concomitanza con la conclusione della costruzione del duomo, nel XIV secolo, i mosaici subirono un restauro.

Le zone mancanti delle tessere musive furono integrate con affreschi che raffiguravano un’Annunciazione e la Cena di Emmaus con pittura imitante il mosaico. Inoltre furono chiuse e affrescate le due finestre sulle pareti di sinistra e di destra; queste raffigurazioni si ispirano agli stilemi di Pietro Cavallini, con le figure del Cristo e della Madonna. Oggi, a causa della riapertura delle finestre, questi due affreschi sono stati distaccati e collocati al di sotto delle stesse. Nel 1576 la confraternita di Santa Restituta dei Neri ricevette il battistero in uso temporaneo. L’antica cisterna della vasca battesimale fu adattata a sepoltura per i confratelli: la copertura marmorea del sepolcro è ancora visibile. Il Cardinale Filomarino trasferì la confraternita nel 1647 nell’attuale sede del Tesoro Vecchio. Da allora il monumento, perduta qualsiasi utilità pratica, andò lentamente degradandosi, ridotto quasi a semplice corridoio di passaggio. Solo sul finire del XIX secolo si effettuò un radicale intervento di consolidamento e restauro per la valorizzazione dell’edificio, attraverso l’eliminazione delle scene spurie della volta e il restauro dei mosaici più danneggiati.

I mosaici

Sulla volta sono rappresentati i temi dei sacramenti inerenti l’iniziazione cristiana della Chiesa dei primi secoli. Questi mosaici costituiscono un bellissimo esempio di arte musiva romana, con temi e raffigurazioni presenti anche nelle catacombe napoletane. I mosaici del battistero di San Giovanni in Fonte sono una delle rare decorazioni musive parietali superstiti dell’Italia meridionale, e costituiscono una delle più importanti opere paleocristiane in Italia. La volta del battistero è divisa in otto spicchi trapezoidali, delimitati da fasce trasversali che partono da un fregio posto intorno alla base. Queste fasce sono dorate e vengono raccordate al fregio tramite un vaso ansato, da cui si dipartono festoni ricchi di frutta, di fiori e di uccelli. Ogni riquadro è diviso in due parti raffiguranti scene evangeliche. Il centro della cupola contiene è la zona musiva più intatta. Una fascia anulare cinge un cielo azzurro trapunto di stelle d’oro, tra le quali campeggia una croce monogrammatica simbolo del Cristo glorioso, con le lettere  pendenti dalle braccia. La croce è sormontata dalla mano del Padre Eterno, che stringe una corona d’alloro e un filatterio. All’altezza della mano, ritta sopra una piccola altura, spicca una fenice posta fra due palme e due uccelli simmetrici. La raffigurazione rappresentava ciò che attendeva il neofita dopo aver preso il sacramento: il cielo stellato e la vegetazione lussureggiante indicano il regno del Cristo glorioso, in cui il neofita ha diritto di cittadinanza in virtù del sacramento del battesimo ricevuto, che gli faceva sperare anche nella risurrezione a vita nuova, di cui era simbolo la fenice.

Nei quattro pennacchi sono poste le raffigurazioni simboliche degli evangelisti: l’uomo alato (San Matteo), il leone alato (San Marco), il bue alato (San Luca) e l’aquila alata (San Giovanni), ormai quest’ultima è totalmente scomparsa. Sui pennacchi, scene pastorali con richiami a temi dei Salmi: il pastore tra due pecore e il pastore tra due cervi che si dissetano a sorgenti d’acqua. Di grande suggestione scenografica nonché di profondo contenuto religioso sono le scene bibliche. Nella zona di nord est sono abbinati i due episodi evangelici della Samaritana al pozzo e delle Nozze di Cana, con evidente riferimento simbolico al battesimo e all’eucaristia. Sulla parete orientale è rimasto il frammento di una scena che doveva rappresentare il Battesimo di Gesù al Giordano: resta la parte inferiore di un personaggio, di cui si scorgono il lembo della tunica e le gambe nude. A sud est, inquadrata tra due palme, è la scena della Traditio legis: il Cristo in piedi sull’universo raffigurato da un globo celeste consegna all’apostolo Pietro, posto alla sua sinistra, il rotolo della legge. Sulla parete meridionale, al di sopra dell’ingresso che porta alla basilica di Santa Restituta, sono poste due scene frammentarie: sopra Cristo che cammina sulle acque; sotto la pesca. A sud ovest, al margine estremo della zona coperta da mosaici, si intravede un personaggio vestito di tunica, coperto di pallio e con un piede calzato di sandalo, seduto su una pietra presso un’edicola monumentale, senz’altro una tomba; nella sinistra stringe un rotolo. Tutti i dettagli lasciano intendere che si tratti dell’Annunzio della risurrezione da parte dell’Angelo alle donne, secondo i canoni rappresentativi della risurrezione di Gesù nell’antichità cristiana.

Monumenti funebri

Subito dopo la basilica paleocristiana sono collocati altri monumenti funebri, che fanno pendant con quelli dei Filomarino e del Cardinale Carafa dall’altro lato. Quindi si trova il sepolcro del Cardinale Alfonso Gesualdo (1596-1603) dei Conti di Conza e Principi di Venosa, attribuito a Michelangelo Naccherino; la Vergine con il Bambino in alto è di Tommaso Montano. Il Cardinale giace adagiato sul fianco con il capo poggiato sulla mano destra; alle spalle è collocata la statua dell’apostolo Andrea. Il monumento fu qui collocato dal Cardinale Spinelli a seguito dei restauri effettuati nel 1744; precedentemente era posto nella tribuna centrale. A sinistra è posto il cenotafio di Giambattista Filomarino, deceduto nel 1526, opera di Giuliano Finelli o del carrarese Giulio Meneaglia. Alla base della parete trova posto la tomba di Andrea d’Ungheria, marito della regina Giovanna I. Fu inizialmente sistemata nella cappella di San Ludovico dal Vescovo Orso Capece Minutolo, quando questa poi fu trasformata in sacrestia venne collocata nel transetto. Da qui, in occasione di lavori di restauro, il Cardinale Francesco Pignatelli (1703-1734) dispose la sepoltura nel pavimento del transetto. La costruzione di vari monumenti funebri di arcivescovi napoletani in quel braccio del transetto costrinse alla traslazione della tomba presso l’attuale collocazione. L’iscrizione sepolcrale, dettata da Francesco Capece Minutolo, vuole conservare il pietoso ricordo del giovane sovrano, assassinato con l’inganno dalla moglie Giovanna.

L’ingresso settentrionale

Prima del transetto si apre la porta laterale del versante settentrionale; immette nel cortile della curia arcivescovile in un largo ove sono collocate numerose lapidi e stemmi provenienti dalla fabbrica della cattedrale e degli ambienti annessi. Poco distante dal portale minore, in una colonna del pilastro dell’arco è murato il cosiddetto "passo napoletano": antica unità di misura cittadina pari a 1,90 metri.

Navata Destra

La navata destra è composta da sei cappelle:

  • Cappella di San Nicola di Mira

  • Cappella del crocifisso dell’Addolorata o famiglia Caracciolo Pisquizi

  • Cappella del tesoro di San Gennaro

  • Cappella Galluccio o dello Spirito Santo o della Pentecoste o delle Reliquie

  • Oratorio dell’Arciconfraternita del Santissimo Sacramento

  • Cappella Santi Tiburzio e Susanna o famiglia Carbone

L’ingresso meridionale

L’ingresso meridionale della cattedrale si apre sulla piazzetta Sisto Riario Sforza, in cui svetta la guglia di 24 metri in onore di San Gennaro. La guglia è decorata con ampie volute, ricco capitello ionico e puttini che reggono i simboli del santo patrono. Fu disegnata da Cosimo Fanzago, il cui ritratto era posto alla base del monumento. La statua di San Gennaro in cima è opera di Tommaso Montani con la collaborazione di Cristoforo e Giandomenico Monterosso. La costruzione della guglia risale a un voto cittadino fatto dopo l’eruzione vesuviana del 16 dicembre 1631. Il monumento, iniziato nel 1637, fu completato nel 1660. Un tempo qui si ergeva il campanile crollato nel 1349. Fino all’apertura di via Duomo in epoca sabauda, l’ingresso meridionale della cattedrale, che dava sul decumano maggiore della città era il più frequentato. E la piazza antistante ospitava i festeggiamenti e le luminarie che accompagnavano e seguivano le processioni delle reliquie di San Gennaro alla presenza delle autorità e del popolo.

Cappella di San Gennaro

Introduzione

La cappella del Tesoro di San Gennaro si apre nella navata di destra al posto della terza cappella. San Gennaro fu il vescovo di Benevento, e venne fatto decapitare presso la Solfatara di Pozzuoli nel 305 durante la persecuzione voluta dall’imperatore Diocleziano. Venne sepolto in una località denominata Marciano, nei pressi del luogo del martirio, lungo la via collinare che collegava Pozzuoli a Napoli. Il vescovo di Napoli Giovanni I il 13 aprile di un anno imprecisato tra il 413 e il 431 trasferì il corpo del martire nella catacomba napoletana che già custodiva la tomba del Santo vescovo Agrippino, che resse la Chiesa di Napoli nel III secolo. La cripta del martire divenne centro di un culto assai vivo, che si diffuse rapidamente da Napoli in tutta l’Italia, raggiungendo l’Africa, l’Inghilterra e addirittura  l’Oriente. Intorno all’anno 831 il principe longobardo di Benevento Sicone, cinse d’assedio Napoli, penetrò poi nella catacomba extraurbana trafugando le ossa di San Gennaro e trasportandole solennemente a Benevento come spoglia di guerra per deporle nella Cattedrale di Santa Maria di Gerusalemme. Da Benevento, in epoca imprecisata, probabilmente a causa delle frequenti scorrerie militari che si verificarono in Campania tra il XII e il XIII secolo, le ossa furono trasferite nel Monastero di Montevergine e dimenticate. Furono rinvenute nel 1480 sotto l’altare maggiore della basilica abbaziale dal figlio di Ferdinando I Giovan Cardinal D’Aragona che decretò dovessero essere restituite immediatamente ai Napoletani.

L’arcivescovo napoletano Alessandro Carafa, dopo lunghe trattative con il papato, poté riportarle a Napoli nel 1497, deponendole nell’ipogeo della cattedrale detto Succorpo costruito da suo fratello il Cardinale Oliviero Carafa. Si conservavano comunque ancora due ampolle con una reliquia del sangue del santo martire. Il reliquiario era conservato con grande devozione nella cappella del Tesoro Vecchio della cattedrale. Di là partì la processione del 17 agosto 1389, nel corso della quale per la prima volta avvenne il fenomeno della liquefazione del sangue, poi costantemente documentato nelle ricorrenze consuete del santo patrono: il 19 settembre, memoria del martirio; il sabato precedente la prima domenica di maggio in ricordo della traslazione delle reliquie; il 16 dicembre, festa del patrocinio sulla città e sull’arcidiocesi.

Le Sacre Reliquie

Oltre alle ossa, custodite in una olla fittile nel Succorpo della cattedrale, i resti di San Gennaro sono custoditi in due artistici reliquiari nella cappella del Tesoro. Il busto a grandezza naturale rappresenta un capolavoro dell’oreficeria trecentesca dell’Italia meridionale. Questo poggia su una base di argento a forma di ellisse, eseguita su richiesta di Giovanni Tommaso Vespolo nel 1609. Sul davanti è effigiata la Decollazíone di San Gennaro; sul retro è raffigurato il Martirio di San Gennaro esposto alle fiere in uno sfondo poco realistico che dovrebbe rappresentare l’anfiteatro di Pozzuoli. Il busto, modellato dagli argentieri francesi Etienne Godefroyd, Guillaume de Verdelay e Millet d’Auxerre su commissione di Carlo II d’Anjou, è cavo per contenere le ossa del capo del santo martire; oggi, tuttavia, non restano che minute schegge ossee e pulviscolo, come si è constatato in occasione di una casuale ricognizione. L’opera fu completata nel 1305 e si ispira al busto marmoreo custodito nella chiesa dei cappuccini presso la Solfatara di Pozzuoli: il volto è giovanile con tratti realistici; i capelli stilizzati e spartiti in ciocche si raccolgono sotto una calotta di argento fissata con viti a protezione delle ossa del cranio; il busto veste la casula a collo alto, decorata con rosette, ornamenti smaltati, stemmi angioini e pietre preziose. Il sangue di San Gennaro è contenuto in due ampolle di vetro di diversa forma rinchiuse in una doppia teca. Quella interna, forse di epoca angioina, tiene le ampolle fissate con mastice scuro. Quella esterna risale al seicento ed è di forma circolare in argento, e contiene, tra due vetri, il reliquiario più antico delle ampolle.

La teca poggia in un grande reliquinario con base di ebano ricoperta di lamine di argento con lo stemma del Cardinale Ascanio Filomarino e la data del 1643. Il reliquiario è costituito da una parte antica, che riproduce una struttura architettonica gotica, e un florilegio circolare di età moderna che lo chiude in alto. Nella parte bassa più antica vi sono colonnine, guglie, pilastrini e un arco in cui si inserisce una piccola stata di San Gennaro raffigurato nell’atto di benedire, seduto con i paramenti episcopali. A questa base trecentesca furono aggiunti, nel XVII secolo, una raggiera con due angeli e un grande smeraldo incastonato. Una corona di fiori circonda la raggiera; questa fa riferimento alle corone di fiori con cui si ornavano il capo i partecipanti alla processione primaverile di San Gennaro, detta appunto degli "inghirlandati

La realizzazione della Cappella

A causa della peste nel 1527 gli Eletti della città emisero il voto popolare di fare erigere una nuova e più grandiosa cappella per ospitare le reliquie del sangue del santo patrono. Cessata l’epidemia si cominciò a dare compimento al voto. Nel 1606 si decise che la cappella dovesse sorgere di fronte all’ingresso della Basilica di Santa Restituta, sulla navata destra del duomo, al posto delle cappelle Filomarino, Zurlo e Cavaselice. La prima pietra, incisa da Michelangelo Naccherino e benedetta dal vescovo di Calvi Fabio Maranta a nome del Cardinale Ottavio Acquaviva, fu deposta nel 1608. Nel 1646, con la benedizione del vescovo di Giovinazzo Carlo Maranta a nome del Cardinale Ascanio Filomarino, la Cappella del Tesoro di San Gennaro veniva aperta al culto. La cappella del Tesoro dipende direttamente dalla Santa Sede; ne è delegato pontificio l’arcivescovo di Napoli. Per il culto è officiata da un collegio di dodici prelati, per la parte amministrativa dipende dal Ministero dell’Interno della Repubblica Italiana ed è retta da una deputazione laica di dodici membri, di cui è presidente il sindaco di Napoli pro tempore, secondo una disposizione del 1811 di Gioacchino Murat. La città, che vanta sulla cappella diritto di patronato perpetuo sancito da Urbano VIII nel 1635, concede annualmente sovvenzioni economiche per culto al santo patrono. L’architetto teatino Francesco Grimaldi ne fu il progettista e venne coadiuvato da Ceccardo Bernucci e Giovan Giacomo di Conforto, che ne continuarono l’opera dopo la morte avvenuta nel 1613. La vasta cappella è un rappresentativo esempio di architettura barocca; si presenta a schema centrale a croce greca, con cupola a doppia calotta formata da due cupole con intercapedine. Servì come modello anche a papa Innocenzo X Pamphili per la chiesa romana di Sant’Agnese a piazza Navona.

Descrizione architettonica e arredi

La facciata occupa lo spazio di tre campate. L’ingresso ha fronte a triplice arcata. É sormontato da una trabeazione di Francesco Vannelli realizzata nel 1626 e vi è incisa la seguente epigrafe: "Divo Ianuario e fame bello peste ac Vesaevi igne miri ope sanguinis erepta Neapolis civi patr. Vindici" (A San Gennaro, al cittadino salvatore della patria, Napoli salvata dalla fame, dalla guerra, dalla peste e dal fuoco del Vesuvio, per virtù del suo sangue prodigioso, consacra). Tra due enormi colonne monoliti di marmo nero venato di bianco e verde, con capitelli scolpiti da Donato Vannelli e Rinaldo Mele, spicca un maestoso cancello di ottone progettato tra il 1628 e il 1630 da Cosimo Fanzago, in parte realizzato da Orazio Scoppa e Biagio Monte, ma compiuto solo nel 1665 per l’intervento dell’ottonaro Gennaro Monte, a cui si deve anche il busto bifronte di San Gennaro che sormonta il cancello. All’esterno nelle due edicole con colonne di broccatello sono poste due grandi statue di San Pietro e San Paolo di Giuliano Finelli. L’interno della cappella mostra una variegata rassegna della migliore arte barocca napoletana. Ha sette altari, quarantadue colonne di broccatello, diciannove statue bronzee di santi patroni. L’altare maggiore è lievemente arretrato dal corpo centrale entro il breve ambiente della tribuna. Il pavimento policromo, con tasselli di marmo bianco, grigio e broccatello, fu disegnato da Fanzago. L’altare maggiore fu progettato da Solimena: è di porfido, con cornici, fregio, modanature di argento e rame indorato e puttini di argento sui lati, eseguiti da Nicola de Turris.

Sul davanti, capolavoro dell’argenteria napoletana del XVII secolo, un decoratissimo paliotto d’argento, disegnato da Dionisio Lazzaro nel 1683, e realizzato dall’orafo Giandomenico Vinaccia nel 1695. Viene raffigurato l’arrivo a Napoli delle reliquie di San Gennaro nel 1497: l’arcivescovo Alessandro Carafa, a cavallo, regge il cofanetto delle reliquie con il Santo che si libra in alto a protezione della città, raffigurata simbolicamente dalla sirena Partenope e dal fiume Sebeto; sulla sinistra del fondale è raffigurato il Vesuvio in eruzione. La peste, la fame e la guerra fuggono davanti alle reliquie del santo patrono, mentre l’eresia resta schiacciata dal cavallo dell’arcivescovo. Dietro l’altare sulla parete di fondo in una nicchia munita di cassaforte e di sportelli d’argento offerti dal viceré Pietro d’Aragona a nome del re Carlo Il nel 1667, sono custoditi il busto d’argento dorato e la reliquia del sangue di San Gennaro. In alto dietro l’altare campeggia la statua bronzea di San Gennaro di Giuliano Finelli. Il santo, dai lineamenti giovanili, è rappresentato in abiti episcopali. La statua fu collocata nel 1645 in sostituzione di quella di Tommaso Montani, che fu piazzata in cima alla guglia di piazzetta Riario Sforza. La balaustra del presbiterio fu realizzata nel 1618 da Giuliano Vannelli, ma sempre su disegno di Grimaldi. In alto si aprono le cantorie con balaustre marmoree. Opera ottocentesca è il rivestimento in argento dei paliotti degli altari delle cappelle laterali, che sono di Giuseppe e Gennaro del Giudice; i paliotti dei quattro altari negli angoli, di Luigi Magliulo, furono offerti da Francesco II per adempiere ad un voto del padre. Sono di grande effetto le numerose statue in bronzo o argento dei santi compatroni che arricchiscono l’intera cappella.

Queste sono 51: la prima fu quella di San Tommaso d’Aquino, dichiarato compatrono nel 1605, l’ultima è stata quella di Santa Rita, che è del 1928; raffigurano di San Tommaso, Sant’Agnello, San Severo, Sant’Agrippino, Sant’Eufebio, Sant’Andrea Avellino, San Giacomo della Marca, Santa Patrizia, San Francesco di Paola, San Domenico e San Biagio (poi trasformato in San Nicola), Santa Teresa d’Avila e Sant’Antonio, San Filippo Neri, San Gaetano, Sant’Aspreno.

Gli affreschi

La cappella è riccamente decorata da affreschi alle pareti e nella cupola. Le decorazioni della cappella furono eseguite dal bolognese Domenico Zampieri, detto il Domenichino, noto per le realizzazioni romane in San Luigi dei Francesi e in Sant’Andrea della Valle. Non riuscì però a decorare la cupola perché colto nel 1641 da morte improvvisa. Una Processione con le reliquie di San Gennaro in occasione dell’eruzione vesuviana del 1631 è raffigurata nella lunetta sopra il cancello d’ingresso. Sull’altare destro è raffigurato San Gennaro condotto al martirio con i compagni Festo e Desiderio, mentre sull’altare sinistro San Gennaro libera Napoli dai Saraceni. Nella volta sopra l’altare maggiore è raffigurato un ciclo di storie del martirio del santo. La decorazione della cupola fu affidata a Giovanni Lanfranco, che nel 1643 vi dipinse un affollato e luminoso Paradiso, con una moltitudine di figure in cerchi concentrici verso l’alto. Si distinguono i gruppi: San Gennaro in preghiera davanti al Cristo benedicente, la Vergine che implora protezione per Napoli, Dio al centro come polo d’attrazione dei santi in preghiera. Sull’altare di destra è posto un dipinto di Giuseppe Ribera, detto lo Spagnoletto, realizzato nel 1647, che a olio su rame dipinse San Gennaro che esce illeso dalla fornace di Nola. Sull’altare di sinistra, sempre su rame, Domenichino dipinse la Decollazione di San Gennaro. Del Domenichino sono pure i dipinti dei quattro altarini d’angolo; da sinistra: Infermi guariti con l'olio della lampada, la Risurrezione di un morto, gli Infermi al sepolcro e infine l’Ossessa liberata (incompiuta).

I rami della cappella furono completati mediante cornici in bronzo dorato e lapislazzuli, opera di Onofrio d’Alessio, successivamente autore anche dei cancelli delle cappelle. Nella cappella sulla sinistra del vestibolo, la volta è decorata a stucchi per mano di Andrea Falcone e Giambattista Adamo. Gli affreschi, iniziati da Luca Giordano, furono completati da Giacomo Farelli. Sull’altare Massimo Stanzione dipinse su rame il miracolo dell’Ossessa liberata, che avrebbe dovuto sostituire nella cappella del Tesoro il dipinto incompiuto di Domenichino. Nella sala capitolare dei prelati della cappella si custodiscono un San Gennaro di Francesco Solimena del 1702 e due cimeli bellici: una bandiera strappata ai Turchi nella battaglia di Belgrado del 1717 e offerta al Tesoro dall’imperatore Carlo VI, e una bandiera vinta da Carlo di Borbone agli Austriaci nella battaglia di Velletri del 1744

Transetto

Introduzione

Il transetto misura 50 metri per 14,15 circa. È coperta da un soffitto a cassettoni posto ad un’altezza di circa 48 metri dal pavimento in posizione leggermente rialzata rispetto alla navata. I restauri alla navata centrale coinvolsero anche quest’area della Cattedrale, continuandone i motivi, le decorazioni e la serie di busti marmorei posti nelle edicole somitali; questi nella fattispecie rappresentano due vescovi napoletani divenuti Santi: San Nostriano e il Beato Paolo Burali d’Arezzo. L’illuminazione del transetto era affidata originariamente ad alti finestroni: si creava così un gioco di luci che convergeva sull’altare posto al centro. L’altare fu dedicato a San Michele e a San Gennaro, la sua consacrazione è ricordata nelle cronache cittadine come opera dell’arcivescovo Nicola de Diano l’otto maggio 1412. Subito accanto era posto un tabernacolo per la conservazione degli oli santi e dell’eucaristia. Di fronte si stendeva un grande coro ligneo, che si prolungava lungo la navata centrale per circa tre campate. L’attuale collocazione dell’altare risale alla fine del XVI secolo e fu attuata su commissione del Cardinale Gesualdo. Venne solennemente riconsacrato il 31 maggio 1597.

L’angolo a sinistra

Il transetto è ricchissimo di memorie storiche e artistiche rievocanti avvenimenti succedutisi nel corso dei secoli. A sinistra si ammira il cenotafio di papa Innocenzo XII Pignatelli, pensato originariamente come semplice sepolcro da collocarsi nel pavimento della navata centrale; la statua della Carità regge il busto in rame dorato del papa ed è attorniata da piccoli  putti; in alto fu sistemato lo stemma di famiglia sormontato dalla tiara pontificia. Segue il monumento sepolcrale del Cardinale Giuseppe Prisco (1898-1923) e la porta che permette l’accesso alla sacrestia maggiore. Sul pavimento due lapidi ricordano il sepolcro del Cardinale Ostini e l’antica cappella gentilizia della famiglia Dentice del Pesce fatta demolire nel corso del restauro ottocentesco del transetto durante l’episcopato del Cardinale Filippo Giudice Caracciolo. Accanto alla porta della sacrestia trova collocazione la tomba di Enrico Spata Loffredo (morto nel 1431), favorito del re Ladislao di Durazzo, e di suo figlio Ciccio (morto nel 1468), primo canonico diacono della cattedrale. Sulla parete viene ricordato su di una lunga epigrafe marmorea il primo congresso eucaristico nazionale, celebrato a Napoli nel 1891. Al centro della parete sinistra del transetto il mausoleo del Cardinale Sisto Riario Sforza (deceduto nel 1877), con accanto la tomba di papa Innocenzo IV Fieschi, genovese, morto a Napoli nel 1254. Questo monumento subì notevoli rimaneggiamenti nel corso dei restauri succedutisi nel corso dei secoli: risalgono al cinquecento la statua del pontefice e la lunetta marmorea sovrastante, probabile opera giovanile del Malvisto, raffigurante la Madonna seduta con il Bambino tra Innocenzo IV e l’arcivescovo Annibale di Capua; le due epigrafi collocate tra la lunetta scolpita e il monumento sono anch’esse di epoche diverse: una originariamente trecentesca, composta di tredici esametri leonini, fu ritrascritta nel XVI secolo, e ricorda le benemerenze del pontefice nei confronti dei Napoletani; l’altra ricorda il restauro cinquecentesco del monumento. In alto, sulla parete di fondo del transetto sinistro, si ammirano grandi pitture di Giorgio Vasari: la Natività, i Sette santi patroni di Napoli (San Gennaro, Sant’Aspreno, Sant’Agrippino, Sant’Eufebio, San Severo, Sant’Agnello e Sant’Atanasio). I dipinti originariamente coprivano i portelli dell’organo che sorgeva al di sopra del pulpito. Nelle scene si scorgono vari personaggi appartenenti alla famiglia del committente: il Cardinale Ranuccio Farnese: nel primo vescovo e in San Giuseppe sarebbero da ravvisare le sembianze di papa Paolo III Farnese, mentre nel vescovo dalla figura più giovanile sarebbe raffigurato lo stesso committente. Anche i quadri collocati più in alto, l’Arcangelo Gabriele e l’Annunziata, opera di Luca Giordano, erano sportelli dell’altro organo collocato al di sopra del trono episcopale. Il transetto è composto da sette cappelle:

Cappella di San Lorenzo

Sulla parete del presbiterio si apre la cappella di San Lorenzo, detta anche di San Paolo de Humbertis dal vescovo Umberto d’Ormont (1308-1320), voluta per ospitarne i resti mortali, e detta anche "degli Illustrissimi", perché sede della congregazione sacerdotale delle apostoliche missioni. Vi si conservano numerose tracce di pittura trecentesca, fra cui l’affresco dell’Albero di Jesse sulla controfacciata, attribuito a Lello d’Orvieto, certamente della scuola di Pietro Cavallini.

Nella cappella si conservano lastre e frammentì marmorei di varie epoche. Il trittico posto sull’altare, raffigurante la Visita di Maria a Sant’Elisabetta tra i Santi Nicola e Restituta, è di Giovanni Antonio Santoro e risale al primo decennio del XVII secolo. Nell’arco sopra l’altare, vi sono degli affreschi opera di Giovanni Balducci. Tra la cappella degli Illustrissimi e quella dei Galeota trova sistemazione l’altare marmoreo della famiglia Loffredo, ricco di decorazioni barocche, sculture e intagli. E opera di Pietro e Bartolomeo Ghetti. La tela di San Giorgio che uccide il drago è di Francesco Solimena. L’altare originario era stato voluto da Enrico Spata dei Loffredo nel 1407; fu poi rimaneggiato nel 1689. A terra è collocata una pietra tombale di famiglia a intarsio policromo risalente al 1771. Sul pilastro che divide l’altare di San Giorgio dalla cappella Galeota è posta una tela raffigurante il Cardinale Sisto Riario Sforza che amministra la cresima a un ammalato di colera. L’opera è firmata da Giuseppe Mancinelli, ma nel corso del restauro è emersa la data (1855) e la sigla FS, che fa pensare al pennello di Francesco Sagliano.

  • Cappella famiglia Capece Galeotta

  • Cappella di Sant’Aspreno o famiglia Tocco di Montenifletto

  • Cappella famiglia Capace Minutolo

  • Cappella dell’Assunta o famiglia Milano

  • Cappella dell’Annunziata o famiglia Caracciolo Giosuè

  • Cappella della Maddalena

Abside

Al centro del transetto in corrispondenza con la navata centrale s’innalza la tribuna dell’abside. Della originaria struttura gotica non resta più nulla; anche all’esterno le strutture murarie, prima caratterizzate da cinque bifore, furono modificate con contrafforti e archi (due bifore furono chiuse, le altre furono rimodellate). Il piano fu lievemente innalzato alla fine del ‘500 durante i lavori di sistemazione voluti dal Cardinale Alfonso Gesualdo. Modifiche sostanziali si ebbero per opera del Cardinale Spinelli, che fece iniziare nel 1741 un radicale restauro su disegno del senese Paolo Posi. Fu demolita la volta gotica, ribassata di circa cinque metri e sostituita con un’incannucciata la curvatura del catino, che fu decorato con lacunari (poi rimossi nel 1871 dalle decorazioni di Ignazio Perricci). Nella trasformazione furono parzialmente coperti anche alcuni affreschi cinquecenteschi di Giovanni Balducci, oggi solo parzialmente visibili dalle sovrastrutture metalliche del sottotetto. Le bifore superstiti furono trasformate in grandi finestre sormontate da oculi ellittici che garantivano una migliore illuminazione dell’abside. Il presbiterio fu allungato, proiettandolo nel transetto con due sezioni di gradini e un ampio ripiano chiuso da una balaustra marmorea. Il coro, scolpito da Marc’Antonio Ferraro nel 1616-1617 nella navata maggiore su disposizione del Cardinale Decio Carafa, fu trasferito nella tribuna. L’altare fu rifatto in sostituzione di quello originale con gli stemmi degli arcivescovi di casa Orsini. Fu consacrato dal Cardinale Spinelli nel 1744. Il sarcofago con piccoli putti è opera di Pietro Bracci; le modanature e i fregi in rame dorato sono opera di Nicola de Blasio. Nel retro dell’altare furono sistemate le reliquie di Sant’Agrippino e l’urna con quelle dei martiri Acuzio ed Eutiche. Attualmente sull’altare è posto il Crocifisso romanico precedentemente collocato nella seconda cappella della navata destra, del primo Duecento, forse di ispirazione iberica (l’antica reliquia della croce sistemata nel retro della statua è oggi nella cappella delle reliquie). In luogo della pala dell’Assunta del Perugino, sul fondo fu sistemata una monumentale Assunta in gloria, in marmo e stucco, opera di Pietro Bracci, ispirata nel suo complesso alla Gloria del Bernini in Vaticano. Di Stefano Pozzi è il Coro degli angeli della volta e la grande tela di destra, raffigurante San Gennaro e Sant’Agrippino che proteggono Napoli dai Saraceni nel 937, ricordo di un episodio storico verificatosi durante l’episcopato di Atanasio III ed il ducato di Giovanni III Capece Minutolo nella prima metà del X secolo. Alla parete sinistra una preziosa tela del pugliese Corrado Giaquinto raffigurante la Traslazione delle reliquie dei martiri Acuzio ed Eutiche, in ricordo del passaggio, avvenuto nell’VIII secolo, dal sepolcro puteolano a quello monumentale nella Stefania. Le due colonne di diaspro rosso agli angoli del presbiterio, provenienti da uno scavo presso la diaconia di San Gennaro all’Olmo, erano originariamente scanalate e prima collocate in posizione più arretrata. Alla base dei due pilastri laterali della tribuna, due forbite epigrafi di Alessio Simmaco Mazzocchi ricordano i restauri del 1744, la consacrazione dell’altare e la nuova sistemazione dell’ingresso della cripta. Un successivo restauro ottocentesco, su progetto fu dell’architetto Michele Ruggiero e voluto dal Cardinale Sisto Riario Sforza, portò all’eliminazione delle decorazioni a cassettoni della volta e al rifacimento di stucchi e dorature con i due ovali in cui sono i busti di San Gennaro e Sant’Atanasio, opere, queste, di Ignazio Perricci. Infine due lapidi, collocate nel 1871 alle pareti laterali dell’abside, ricordano la visita di Pio IX al duomo in occasione dell’esilio napoletano del 1849.

Cripta di San Gennaro o Succorpo

Trafugate dal principe Sicone dal sepolcro napoletano nelle catacombe di Capodimonte, le Sacre reliquie di San Gennaro furono rinvenute nel monastero di Montevergine dal figlio di Ferdinando I Giovan Cardinal D’Aragona e traslate definitivamente a Napoli nel 1497 dall’arcivescovo Alessandro Carafa. Suo fratello, il Cardinale Oliviero Carafa, il primo dicembre dello stesso anno diede avvio alla creazione di una cripta sottostante l’altare maggiore al fine di creare nel duomo uno spazio adeguato per custodirle. La cripta o Succorpo fu commissionata a Tommaso Malvisto, architetto e scultore comasco. Questi vi lavorò con l’aiuto del figlio Giovan Tommaso e di altri artisti. Non potendo innalzare il soffitto della tribuna, già piuttosto alto rispetto al piano del transetto, si dovette scavare in profondità. Questo espediente consentì la realizzazione di un ambiente di ariose forme rinascimentali, che lascia trasparire come l’artista avesse a lungo osservato e studiato le soluzioni architettoniche e decorative proprie del Bramante. Ancora oggi si accede al Succorpo mediante due rampe ai lati della tribuna e un corridoio a ellisse. Le lampade all’ingresso furono disegnate da Francesco Jerace e realizzate dalla bottega dei Catello agli inizi del ‘900 in occasione del XVI centenario del martirio di San Gennaro. La cripta è costituita da un ambiente rettangolare di 12 per 9 metri, con un’altezza di 4, diviso in tre navate da dieci colonne, sulle quali poggia direttamente il soffitto. Questo è suddiviso in diciotto cassettoni marmorei, decorati ciascuno con la figura di un santo e quattro cherubini.

Nelle formelle sono raffigurati a bassorilievo i busti della Madonna con il Bambino, i Santi Pietro e Paolo, i quattro Evangelisti, i Dottori della Chiesa, i sette patroni della città di Napoli. Sul fondo è posto un vano quadrato, coperto da cupola e terminante con una piccola abside. Alle pareti laterali si aprono su ogni lato cinque nicchie che racchiudono un altare. All’inizio della navata centrale è la statua del Cardinale Oliviero Carafa genuflesso in preghiera attribuibile anch’essa alla mano di Malvito. Il pavimento di marmi policromi a scomparti geometrici fu studiato in modo tale da ricordare un mosaico con varietà cromatiche che richiamano echi cosmateschi. Il complesso, con le sue rifiniture in marmo e con l’armonia delle proporzioni, suscitò fin dai primi tempi della inaugurazione ammirazione e lodi; a ragione si può affermare che il Succorpo di San Gennaro rappresenta il più completo e unitario monumento del rinascimento napoletano. Il Sacello inoltre rappresenta il Sancta Sanctorum della devozione ianuariana, in quanto nell'altare al centro della piccola abside si conservano le ossa del santo patrono in un'olla fittile di età medievale.

La Sacrestia Maggiore

La sacrestia maggiore della cattedrale si apre sulla parete di fondo del transetto sinistro. Era in origine un oratorio fatto dedicare da Roberto d’Anjou al fratello San Ludovico di Tolosa, frate francescano, morto nel 1297. L’ambiente era stato pensato per accogliere le tombe dei sovrani della dinastia angioina. Era dotata di un ingresso autonomo che si apriva dove oggi è il cortile che conduce alla curia arcivescovile. Nel 1581 l’arcivescovo Annibale di Capua decidendo di adibire l’ambiente a sacrestia fece aprire l’attuale ingresso sul transetto. Nel 1732 fu gravemente danneggiata nella parte sinistra della crociera da un terremoto. I restauri furono prontamente eseguiti su commissione del Cardinale Francesco Pignatelli che ne autorizzò la trasformazione delle antiche linee architettoniche di stile gotico. Detta trasformazione fu eseguita dall’ingegnere Filippo Buonocore che ne murò le bifore, trasformandole in larghi finestroni con volute barocche, e tramutò la volta a crociera in soffitto a incannucciata arricchito da un affresco raffigurante San Gennaro che prega la SS. ma Trinità a favore della città di Napoli, opera di Santolo Cirillo. Inoltre le pareti perimetrali furono rafforzate a scapito degli affreschi trecenteschi del cielo di San Ludovico, che raccontavano gli episodi più salienti della vita del Santo. Una epigrafe in latino fu fatta incidere dal Cardinale Luigi Ruffo Scilla sull’architrave dell’ingresso agli inizi del XIX secolo, questa richiama i ritratti dei vescovi di Napoli dipinti in alto alle pareti interne della sacrestia da Alessandro Viola in ovali di stucco. Il resto dell’arredamento consiste in: massicci armadi lignei che vengono ancora oggi usati per conservare i paramenti Sacri e un altare.

Su questo è posta una pala di Giovanni Balducci raffigurante La Vergine tra San Gennaro e Sant’Agnello. Precedentemente la pala fungeva da porta per un armadio a muro in cui si custodivano varie reliquie. Il crocifisso d’avorio, di manifattura settecentesca, è alto circa 90 centimetri. Il pavimento presenta al centro lo stemma del Cardinale Alessio Assalesi ed alcune coperture marmoree che danno accesso a un vano sottostante destinato agli inizi dello scorso secolo dal Cardinale Ruffo Scilla come ipogeo sepolcrale degli arcivescovi napoletani. Nel retro della sacrestia è posto un lavabo del XVI secolo, un’uscita minore con archetti cinquecenteschi, varie epigrafi alle pareti infine ricordano la sepoltura dell’arcivescovo Annibale di Capua e le reliquie possedute dalla cattedrale. Attualmente il sacello cinquecentesco, dedicato a Santa Maria del Pozzo, è stato modificato e adibito a ufficio del vicario parrocchiale.

Area archeologica

Nella basilica di Santa Restituta, in fondo alla navata sinistra, si apre l’accesso all’area archeologica sottostante il duomo, contenente interessantissimi resti della città greco-romana e paleocristiana. Si viene accolti da elementi di età greca, costituiti da un lungo muro e da una zona di pavimentazione stradale. Il muro è in corrispondenza della cappella di Santa Maria del Principio. Alto circa 5 metri e visibile per circa 3 metri (prosegue al di sotto della pavimentazione della basilica costantiniana ed è accessibile calandosi dalle tombe sovrastanti), termina all’esterno di Santa Restituta. Data la natura monumentale dei blocchi del muro si può ipotizzare che fosse parte di un edificio pubblico, forse un tempio. Data l’ubicazione è da escludere che si possa trattare di un tratto del perimetro della cinta muraria. Subito a ridosso di questo primo muro, a circa 2 metri dal pavimento della sovrastante basilica, se ne sviluppa un altro ad opus reticulatum di epoca romana. Prosegue, svoltando ad angolo retto sulla sinistra, per oltre 12 metri. Per tutta la sua estensione, su cui non mancano tracce di graffiti, mostra grandi zone di intonaco dipinte in rosso. Sono visibili alcuni tronchi di colonne in laterizio, che reggevano una grondaia, come si può intuire dalla sottostante cunetta per la raccolta di acque pluviali. Questa procede in pendenza fin verso l’esterno del perimetro di Santa Restituta; all’altezza della pavimentazione stradale greca si biforca, proseguendo fino al cortile del palazzo arcivescovile. Accanto all’ultimo tratto di parete è anche un piccolo corsetto in muratura contenente una tubazione in piombo recante un marchio a sbalzo: AURELIE UTICIAN. Sul lato occidentale dello scavo, verso destra accanto a una cunetta per la raccolta di acque pluviali, si trovano degli ambienti seminterrati.

Si tratta di quattro grandi sale, con pareti in muratura di tufo a opus reticulatum e volte a botte. L’accesso era consentito attraverso una scala che scendeva a partire da un vano aperto sul lato occidentale; dalla stessa parte si accede all’ultima delle quattro stanze, verso nord, che presenta pavimentazione in coccio pesto; questo fa presumere che ci si trovi in un ambiente destinato a deposito alimentare. Nel corso dello scavo questi ambienti furono ritrovati pieni di materiali di rifiuto (frammenti di stoviglie, valve di ostriche, frammenti vitrei, ecc.) tali da far pensare alla presenza di una taverna nei locali sovrastanti. All’esterno di Santa Restituta, in direzione del cortile della curia arcivescovile, è stata rinvenuta una strada romana, oggi esposta per una lunghezza di circa 12 metri, formata da basoli in pietra lavica. Il diverso livello di quota rispetto agli altri rinvenimenti di epoca romana, la presenza di manufatti di spoglio, tra cui una bella stipe funeraria, e l’avanzato grado di usura dei basoli, lasciano datare la strada al IV o V secolo. É ipotizzabile che si tratti di una strada interna all’insula. Dall’altro lato di questa strada, a circa 2 metri al di sotto di Santa Restituta, è stato rinvenuto un grande ambiente di circa 15 per 7 metri. La parete divisoria verso la strada ha ampi tratti di intonaco, su cui vi sono almeno due strati pittorici. Sul piano del calpestio, invece, si trovano tracce di pavimentazione musiva a grandi tessere e con disegni geometrici, che richiamano motivi ornamentali forse del V secolo. Particolarmente ben conservato un riquadro con un motivo stellare contenente una croce greca. Pare evidente la destinazione a uso religioso dell’ambiente, ma è difficile individuare con certezza in esso un consignatorium, ossia il luogo in cui si amministrava l’unzione crismale. Non è da escludere in situ la presenza di terme.

Questo dato è confermato da vaghe tracce di vari condotti in terracotta al di sotto del livello del pavimento che mostrano chiaramente la canalizzazione di acqua calda, mentre le numerose "tegole mammarie" attestano la presenza di pareti adattate al passaggio del vapore caldo per il riscaldamento degli ambienti. L’area che segue fin verso l’uscita dal lato della sacrestia maggiore è parzialmente occupata da un grande blocco murario (forse si tratta del basamento di uno dei tanti contrafforti costruiti in età medievale a sostegno della torre angolare del transetto). Dal lato che confina con l’edificio della curia arcivescovile, invece, si ritrovano altri frammenti musivi pavimentali. Accanto si scorge anche un tronco di colonna su base scolpita: un manufatto di probabile origine classica. Procedendo verso l’uscita, appare una piccola abside semicircolare dal diametro di circa 4 metri. Lungo il perimetro presenta un sedile di pietra intonacato e dipinto, interrotto al centro da un passaggio verso un piccolo ambiente cieco situato alle spalle. La pavimentazione è perfettamente conservata ed è costituita da una decorazione musiva, in cui quale si legge l’iscrizione: "Vincentius votum solbit". Salendo le scale che portano all’esterno, nel cortile dell’ex Seminario Urbano, oggi sede dell’Archivio Storico Diocesano, si passa accanto all’ingresso del conditorium, ossia dell’ipogeo sepolcrale voluto agli inizi del XIX secolo dal Cardinale Luigi Ruffo Scilla come luogo di sepoltura degli arcivescovi di Napoli. Tuttavia, la realizzazione dell’ipogeo comportò la distruzione di preziosi materiali archeologici, i quali, stando alle ottocentesche notizie fornite da Lorenzo Loreto, che fu testimone dello scavo, avrebbero consentito di individuare il cosiddetto battistero vincenziano o ad fontes minores, ricordato nelle fonti letterarie, fatto erigere dal vescovo Vincenzo, nella seconda metà del VI secolo, insieme all’accubitum, ossia all’ambiente in cui si riposava e rifocillava il clero durante le liturgie solenni. Percorrendo il vicolo che conduce al largo Donnaregina, si passa accanto a un’alta vetrata, che copre e protegge i resti di un quadriportico, che potrebbe essere identificato con l’atrio della Stefania di cui parlano le fonti letterarie. Anche qui colonne e capitelli provengono dallo spoglio di monumenti di origine classica. È plausibile che fosse integralmente decorato, ne sono testimonianza le poche tracce musive e ad affresco poste sotto alcune volte. Altre notizie sono di difficile reperibilità, dal momento che l'edificio della curia arcivescovile impedisce qualsiasi altro scavo e limita la lettura del monumento. Esso si presenta alto, arioso, sorretto da colonne di vario livello, aggiunte anche in tempi posteriori per rafforzare il solaio sul quale si sviluppavano le stanze del palazzo arcivescovile. Sulla parete di fondo del quadriportico è collocato il "calendario marmoreo". É un manufatto su lastre di marmo incise intorno alla metà del IX secolo. Si tratta di un documento decisivo della storia religiosa di Napoli, perché in esso si conservano le costumanze liturgiche della Chiesa napoletana, specie di quella parte del clero legata agli ambienti greci. Il calendario, inoltre, ha il pregio di indicare l’antichità del culto reso ad alcuni santi, e in particolare la data di sepoltura di ben ventitré vescovi di Napoli. Il ritrovamento del calendario avvenne in maniera fortuita nel 1742, quando i marmi furono rimossi dall’ingresso secondario della chiesa di San Giovanni Maggiore. Salvati fortuitamente dalla distruzione, furono valorizzati dal Cardinale Giuseppe Spinelli, che ne affidava lo studio al canonico Alessio Simmaco Mazzocchi e ne dava una prima sistemazione nella cappella dell’episcopio.

Il monumento è costituito da due plutei marmorei incisi su ambedue le facciate: da un lato leoni alati, pegasi e ippogrifi; dall’altro l’elenco delle festività liturgiche partite per mesi. Le due lastre sono lunghe poco più di 6 metri ciascuna e alte circa 90 centimetri. Il "calendario marmoreo", rappresenta forse in maniera più eloquente la continuità di una ininterrotta tradizione religiosa della Chiesa locale, che si perpetua nella vitalità del monumento: dall’antica memoria dei primi santi venerati a Napoli all’attuale chiesa cattedrale, cuore pulsante della vita religiosa dell’arcidiocesi.

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Ultimo aggiornamento: 05-05-03

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