Terenzio

 

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Cartagine, 195 o 185 ca. - in viaggio, 159 a.C.

Sulla vita di T. abbiamo una biografia risalente a Svetonio. A questa attinse Donato, che la premise al suo commento delle commedie del nostro. T. nacque a Cartagine e giunse a Roma come schiavo del senatore T. Lucano, dal quale fu affrancato "ob ingenium et formam", per il suo ingegno e la sua bellezza. Divenne intimo di Scipione Emiliano e di Gaio Lelio; entrò a far parte dell’entourage scipionico e fu portavoce dell’ideale di humanitas da esso elaborato. Questa sua posizione di prestigio suscitò l’invidia dei suoi contemporanei, soprattutto degli altri letterati. Sul conto di T. sorsero calunnie e pettegolezzi: lo si accusava di essere un prestanome dei suoi importanti protettori che sarebbero i veri autori delle commedie terenziane. Era, infatti, considerato disdicevole per un civis Romanus, impegnato politicamente, dedicare il proprio tempo alla composizione di commedie (l’unica attività che era concesso coltivare era l’oratoria o la storiografia).

Da questa accusa T. si difende nel prologo della sua ultima commedia, l’"Adelphoe" (da adelfoi fratelli). Nel prologo, l’autore afferma che ciò che gli altri ritengono una colpa e di cui lo accusano, è per lui motivo di vanto e di orgoglio: ritiene un merito essere aiutato dagli uomini più importanti di Roma, delle cui imprese tutto il popolo si serviva. La difesa di T. risulta debole, forse perché non voleva urtare la suscettibilità dei protettori, a cui le calunnie e le dicerie non dispiacevano affatto.

Amareggiato dal complessivo insuccesso della sua produzione, T. lasciò Roma nel 160 a.C. e volle fare un viaggio in Grecia e in Asia Minore, da cui non fece più ritorno. Morì qualche anno più tardi, o a causa di una malattia, o a causa di un naufragio, oppure per il dolore procuratogli dalla perdita dei bagagli che contenevano molte commedie che aveva tradotto da originali menandrei reperiti in Grecia.

OPERE

T. compose in tutto 6 commedie, pervenuteci interamente con le didascalie relative alla rappresentazione. La sua carriera drammaturgica non fu facile come per Plauto: non ebbe lo stesso successo perché la sua commedia non rispondeva ai gusti del grosso pubblico romano. Quella di T. era una commedia che voleva trasmettere un messaggio morale estraneo alla mentalità romana abituata al teatro plautino che interpretava i rapporti interpersonali come basati sull’inganno, sulla violenza e sulle prevaricazioni.

Il circolo scipionico tendeva ad imporre diversi modelli di comportamento, ispirati al costume greco, e il messaggio terenziano risulta emblematicamente contenuto nella famosa frase dell’"Heautontimorumenos" (da timoreo, ossia il punitore di se stesso): "homo sum humani nihil a me alienum puto", "sono uomo e niente di ciò che è umano considero a me estraneo". T. esordì nel 166 a.C. con una commedia, l’"Andria" (la ragazza dell’isola di Andrio).

Nel 165 a.C. fece rappresentare una seconda commedia, l’"Hecyra" (la suocera). Il pubblico dopo le prime scene abbandonò il teatro preferendo assistere ad una manifestazione di pugili e funamboli; fu un fiasco clamoroso.

Nel 163 a.C. fece rappresentare l’"Heautontimorumenos".

Nel 169 a.C. furono rappresentate 2 commedie, l’"Eunucus" e il "Phormio". L’"Eunucus" fu il più grande successo di T., perché è la commedia terenziana più simile alla comicità plautina.

Nel 160, durante i giochi funebri per celebrare la morte di Lucio Emilio Paolo, padre di Scipione Emiliano, T. fece rappresentare la sua ultima commedia, l’"Adelphoe", nella stessa occasione tentò una seconda rappresentazione dell’"Hecyra", ma anche questa volta il pubblico abbandonò il teatro preferendo i gladiatori. Una terza rappresentazione avvenne durante i Ludi Romani dello stesso anno e, finalmente, fu rappresentato dall’inizio alla fine, il pubblico rimase in teatro grazie alla presenza di Ambivio Turpione, attore molto celebre.

*L’"Hecyra". Il protagonista dell’"Hecyra" è il giovane Pamfilo, tormentato e patetico, in perenne conflitto fra amore e pudore. È innamorato di Bacchide, una cortigiana, ma il padre lo costringe a sposare Filumena, una ragazza perbene. Pamfilo è combattuto fra la passione per Bacchide e il rispetto della volontà paterna. Sposa Filumena senza amarla e si rifiuta di avere rapporti intimi con la moglie, scarica su di lei le sue delusioni. Filumena accetta con umiltà i torti del marito che, dopo averla conosciuta meglio e confrontata con le altre donne, impara ad apprezzare il pudore della moglie e dalla stima nasce l’amore; un sentimento più profondo dell’attrazione per Bacchide. Ad un certo punto, Pamfilo parte per un viaggio di affari; la moglie lascia la casa del marito, dove viveva con la suocera Sostrata, e torna a vivere dai genitori. Nessuno sa con precisione le cause di questo allontanamento. Un servo riferisce che Filumena ha giustificato il suo allontanamento con motivi di salute, una malattia l’avrebbe costretta a tornare a casa. Tutti gli altri personaggi ritengono che la causa dell’allontanamento siano stati i conflitti con la suocera. È soprattutto il marito di Sostrata ad accusarla di aver reso la vita impossibile a Filumena e di averla costretta ad allontanarsi da casa. Sostrata si ritiene innocente e in un monologo lungo e toccante si dichiara vittima dei pregiudizi che vogliono tute le suocere ostili alle proprie nuore. Nessuno conosce i motivi reali che l’hanno indotta a lasciare la casa, ma tutti i personaggi avanzano supposizioni infondate. Il messaggio che T. vuol trasmettere è che non bisogna giudicare dalle apparenze e lasciarsi guidare dai soliti pregiudizi. La realtà è spesso ben diversa dalle apparenze. Ritorna Pamfilo dal viaggio e viene informato dell’accaduto; si reca a casa dei genitori della moglie per constatare di persone le condizioni di salute di Filumena. A casa di Filumena, Pamfilo scopre la verità, ben diversa da ciò che gli altri pensavano. Filumena ha lasciato la casa perché sta per partorire un figlio non di Pamfilo, ma che è stato concepito prima del matrimonio, frutto di una violenza notturna subita da Filumena durante una festa, ad opera di uno sconosciuto. In un monologo lungo e patetico, Pamfilo rivela al pubblico questa verità e mette a nudo i suoi sentimenti, il conflitto che si agita in lui fra amore e pudore. Sa che la sua vita senza la moglie sarà una vita vuota, però sa che l’onore e la società lo costringono a separarsi dalla moglie e a non considerare come suo l’alienus puer. Pamfilo non rivela però il vero motivo per cui divorzia per non compromettere il buon nome di Filumena. I due suoceri, all’oscuro della verità, pensano che pamfilo voglia ancora Bacchide e che abbia ripreso la relazione con lei. Vanno a parlare con Bacchide che rivela ai due che non ha più rapporti con Pamfilo dal giorno del matrimonio. Pur essendo una cortigiana, Bacchide accetta un compito che nessun’altra al suo posto avrebbe accettato: andare da Filumena per dirle che Pamfilo la ama. Bacchide è uno dei personaggi più peculiari del teatro di T., si contrappone allo stereotipo della cortigiana, agisce contro i suoi interessi perché affezionata a Pamfilo e vuole la sua felicità.

Bacchide va da Filumena e la madre nota al dito della cortigiana un anello che apparteneva alla figlia e che Filumena portava la notte in cui aveva subito la violenza e che le era stato strappato dal giovane. Bacchide rivela che l’anello le era stato dato da Pamfilo, il giovane stupratore era quindi il marito. La commedia si conclude con il ristabilimento dell’unione che una serie di equivoci avevano minato.

Altre commedie interessanti sono l’"Heautontimorumenos" e gli "Adelphoe". In queste commedie, il tema principale è il problema pedagogico del rapporto fra genitori e figli e di quale sia il migliore metodo per educare i giovani. Protagonista della prima, è un vecchio genitore, Meneremo, che con la sua severità ha costretto il figlio a lasciare la sua città e ad arruolarsi come soldato, iniziando così una vita di pericoli e di disagi. Dopo essersi reso conto di ciò che ha fatto, il genitore si pente e decide di autopunirsi, vende tutti i suoi beni, va in campagna sottoponendosi a lavori massacranti. Un altro anziano, Cremete, che ha un campo vicino al suo, nota il comportamento di Menedemo e lo invita ad aprirsi con lui, a confidarsi. È Cremete a pronunciare il famoso verso"homo sum humani nihil a me alienum puto".

Negli "Adelphoe" sono protagonisti 2 fratelli, Demea e Micione. Il primo è un uomo all’antica, rigido e austero che ha due figli, uno dei due lo educa personalmente secondo i sistemi tradizionali, l’altro, invece, lo affida al fratello Micione, che, non sposato, vive in città e ha idee moderne. È padre per libera scelta e decide di educare il figlio adottivo con indulgenza e liberalità. Secondo lui i giovani devono instaurare un rapporto basato sul dialogo con i genitori. Non bisogna costringerli a fare il bene solo per paura di una punizione, ma per una scelta personale, sua spunte e non per metus (Timore).

CONSIDERAZIONI

Quattro delle 6 commedie terenziane si rifanno ad originali menandrei: solo l’"Hecyra" ed il "Phormio" riprendono commedie di Apollodoro di Caristo, un altro commediografo greco che non conosciamo.

Cesare definì T. "Dimidiatus Menander", ossia un Menandro dimezzato; giudizio questo che svalutava T. rispetto al greco. Rispetto a Plauto, le commedie di T. presentano maggiore fedeltà ai modelli greci, ma si tratta sempre di una fedeltà relativa: anche T., come Plauto, ricorreva alla contaminazione, ovvero non traduceva alla lettera i testi greci. Rispetto a Plauto, T. mantiene un’ambientazione rigorosamente greca, senza surreali intrusioni di usi e costumi romani. T. elimina quasi completamente i cantica, facendo invece uso abbondante dei versi lunghi. Altra notevole differenza con Plauto è quella relativa allo stile e al linguaggio: non troviamo in T. l’esuberanza, le acrobazie verbali, i giochi di parole e le parodie dello stile tragico; evita vigorosamente espressioni popolari e volgari; segue, stilizzandolo, il linguaggio della conversazione ordinaria. Quello di T. è insomma uno stile sobrio, naturale, all’insegna della compostezza, della semplicità.

Anche in T., al centro della vicenda comica troviamo amori ostacolati che, alla fine si realizzano felicemente. I personaggi sono quelli della commedia nea, giovani innamorati, ragazze oneste ecc.; troviamo anche qui i soliti stereotipi della nea equivoci, inganni ecc. Il topos del riconoscimento conclude 5 commedie su 6, mancando solo negli " Adelphoe ". Sempre 5 su 6 si concludono con uno o più matrimoni: solo nell’"Hecyra " troviamo il ristabilimento di una unione matrimoniale che era entrata in crisi a causa di equivoci e sospetti infondati.

T. tende a complicare gli intrecci menandrei, inserendo nella commedia, accanto alla coppia principale, una seconda coppia. Gli adulescens sono quindi 2 e sono 2 i senex. Rispetto a Plauto, T. costruisce i suoi intrecci con coerenza maggiore e con più credibilità, caratteristiche queste mancanti nell’altro, che puntava sull’efficacia comica della singola scena. Altra differenza importante con Plauto e Menandro, è l’abolizione del prologo informativo. T. trasforma il prologo informativo in un prologo a carattere letterario; nel prologo parla di sè, del suo modo di poetare e si difende dalle accuse che i suoi avversari gli rivolgono. Plauto e Menandro si servono del prologo per informare il pubblico dell’antefatto e anticipano spesso la conclusione; ciò metteva il pubblico nella condizione di seguire meglio la vicenda, il cui intreccio era spesso complesso. Ciò rendeva il pubblico superiore ai personaggi della commedia. T. elimina il prologo informativo, perché punta su effetti di suspense, vuole che lo spettatore si immedesimi nel personaggio, vuole che il pubblico sia coinvolto emotivamente nelle vicende, provi le stesse emozioni dei personaggi. T. vuole mascherare l’aspetto fittizio dell’evento teatrale, vuole che non venga mai interrotta l’illusione scenica. Elimina tutti i procedimenti metateatrali a cui spesso ricorreva Plauto. Tutto ciò ha uno scopo preciso: mentre Plauto non perseguiva nessun fine morale o politico, ma tendeva solo a divertire, T., con le sue commedie, vuole trasmettere un messaggio morale.

T., inoltre, attenua i tratti caricaturali dei personaggi della nea e ne fa delle figure delicate, tenere, sensibili (ma più "tipi" che individui). Protagonista del suo teatro non è più il servus callidus, ma padri e figli. Non ridicolizza i sentimenti d’amore dei giovani, ma li segue con partecipazione e simpatia. I padri terenziani sono differenti da quelli plautini, sono disponibili al dialogo con i figli e si preoccupano della loro felicità più che del loro patrimonio e del veder affermata la loro autorità. Nel teatro di T. non esistono personaggi del tutto negativi. Anche i servi sono spesso vicini ai padroni e partecipano ai problemi familiari; non tutte le cortigiane pensano ai propri interessi. Il messaggio che vuole trasmettere è quello di aprirsi agli altri, rinunciare all’egoismo, comprendere i propri limiti ed essere indulgenti nei confronti degli errori altrui, essere tolleranti e solidali. Chi si apre agli altri vive veramente da uomo fra gli uomini.

N. Castaldi

 

"ADELPHOE[1], vv. 26/80

ATTO I - SCENA I[2]

  Metro: senari giambici

  Micione illustra il suo metodo educativo[3]

  vv. 26-49

  MICIONE: Storace![4] Questa notte Eschino non è tornato dal banchetto e (non si è fatto vedere) nessuno dei servi[5] che gli erano andati incontro[6].

   (E’) proprio vero quello (che) dicono: se te ne stai lontano da casa in qualche luogo e[7] se colà indugi troppo, è meglio[8] che ti capiti ciò che tua moglie nell’ira dice contro di te e quello che pensa nel suo animo, piuttosto che[9] quello che (dicono) i genitori indulgenti.

   Se ritardi, tua moglie sospetta o che tu sia preso dall’amore (per un’altra) o che (un’altra donna) sia presa d’amore per te[10] o che ti dai al bere[11] e te la godi e che tu solo ti dai al bel tempo, mentre[12] a lei (solo) tocca tribolare.

   Poiché mio figlio non è ritornato, quali pensieri io ho e da quali preoccu­pazioni sono ora agitato[13]!

   O che[14] abbia preso freddo[15] o che sia caduto in qualche luogo o che si sia rotto le ossa[16].

   Perbacco! (Ma è mai possibile) che un uomo si metta[17] in testa di procu­rarsi[18] ciò (= di adottare un figlio) che gli sia più caro di se stesso[19]!

   Eppure[20] non è figlio mio, ma di mio fratello[21], che[22] fin dall’adolescenza è di un carattere[23] così[24] diverso (dal mio): io mi son dato a questa comoda vita di città[25], senza pensieri, e, ciò che costoro considerano una fortuna, una moglie non l’ho avuta mai.

   Egli, invece, (ha fatto) tutto il contrario: trascorre[26] la vita in campagna, tira a campare sempre tra strettezze e privazioni; ha preso moglie, gli son nati due figli; di essi[27] il maggiore[28] l’ho adottato io[29], l’ho tirato su da pic­colo[30]; l’ho sempre tenuto con me, gli ho voluto bene come se fosse mio; nell’educarlo è il mio godimento, solo ciò mi è caro.

  vv. 50-63[31]

     Mi do da fare[32] con cura affinché da parte sua egli abbia verso di me (gli stessi sentimenti): lo fornisco (di denaro), lascio passare le sue stranezze, ritengo che non è necessario che egli faccia ogni cosa secondo il mio diritto[33]; insomma ho abituato mio figlio a non tenermi nascoste quelle (scappatelle) che comporta con sé la giovinezza e che gli altri (giovani) fanno di nascosto dai padri[34].

   Chi, infatti, si sarà abituato a mentire o avrà il coraggio di ingannare il pa­dre, tanto più avrà il coraggio (di ingannare) gli altri.

   Credo che sia meglio tenere a freno i figli (facendo leva) sulla vergogna[35] (delle loro colpe) e sull’indulgenza piuttosto che (facendo leva) sul timore (che i padri incutono).

   Questo mio (principio) non va a genio a mio fratello né gli piace.

   Viene spesso da me a rimproverarmi[36]: “Che fai, o Micione? Perché mi[37] mandi in rovina il giovane? Perché si dà agli amori? Perché si dà al bere? Perché tu gli fornisci denaro[38] per queste cose e l’accontenti troppo nel ve­stire? Tu non sei fatto (per educare un giovane)”[39].

  vv. 64-80

     Egli è troppo rigido, al di là del giusto e del ragionevole[40], d’altra parte sbaglia di molto, secondo il mio punto di vista, chi crede che l’autorità che si consegue con la forza sia più forte o più duratura di quella che si conse­gue con l’affetto[41].

   Questa è la mia norma (di vita) e di questo sono convinto: chi compie il suo dovere spinto dal (timore del) castigo, starà in guardia tanto tempo fin­chè crede che sarà scoperto; se invece spera che (la sua colpa) resterà na­scosta, ricade nella sua inclinazione[42].

   Colui che tu cerchi di conquistartelo con le buone maniere, fa di buon grado (il suo dovere), cerca di ricambiarti (la sua gratitudine) e sarà sempre lo stesso sia che tu gli stia accanto sia che gli stia lontano.

   Questo[43] è il dovere di un padre, abituare il figlio ad agire bene sponta­nea­mente più che per timore di altri: in ciò differiscono il padre e il pa­drone.

   Chi non è capace (di fare) ciò, confessi di non saper governare i figli.

   Ma questo[44] (che viene) è forse quello stesso di cui parlavo?

   Si, è proprio lui.

   Lo vedo preoccupato, non so di che cosa: credo che ormai mi farà dei rimproveri, secondo il solito.

   Sono lieto che tu giunga in buona salute[45], Demea.


 


[1]E’, leggiamo in Garbarino, la commedia più matura e più riuscita di Terenzio: l’ultima da lui composta, derivata da un originale menandreo e rappresentata durante i giochi funebri in onore di Lucio Emilio Paolo, padre di Scipione Emiliano, nel 160 a.C.. Dopo un prologo la commedia si apre con un monologo di Micione (sicuramente “portavoce” dell’Autore), che vive in città e già per questo rappresentante di una mentalità più aperta (secondo la visione di Menandro condivisa da Terenzio), uno dei due vecchi protagonisti, in cui il personaggio presenta se stesso, il suo metodo educativo (che punti non sulla paura della punizione, ma sull’indulgenza, la comprensione e la generosità) e la sua visione della vita, contrapponendola a quella del fratello Démea; e imposta in modo chiaro il tema centrale della commedia: il problema dell’educazione dei figli.

[2]Nei primi vv. 25 della commedia parla “il prologo”: a differenza di Plauto, che nel prologo espone l’antefatto della commedia, questo in Terenzio è polemico. In esso il poeta si difende contro i suoi detrattori, specialmente contro chi lo accusa di plagio e contro chi sostiene che nel suo lavoro è aiutato da illustri personaggi.

[3]Il tema della commedia, ci dice il Sandbach, è quello del contrasto tra due metodi per educare un figlio, l’uno permissivo e l’altro restrittivo. Nessuno dei due si dimostra del tutto privo di inconvenienti, ma Micione, il padre che pratica il primo sistema, è, fino all’ultimo atto, presentato in una luce favorevole come generoso, realista ed uomano; quando egli ha occasione di impartire al figlio un comprensivo rimprovero, il giovane lo accetta riflettendo sul fatto che la loro relazione è più simile a quella tra amici o tra fratelli che a quella abituale tra padre e figlio, e decide di non far nulla che possa andare contro i desideri del vecchio. L’altro, Demea, fratello di Micione, aspro e privo di gioia di vivere, viene a trovarsi in situazioni ridicole ed è indeciso di fronte ad un problema morale a proposito del quale Micione non ha esitazioni: pur non essendo quello il matrimonio che personalmente avrebbe scelto, egli non dubita neppure per un momento che il figlio debba sposare la fanciulla povera che ama e che gli dato un erede.

[4]Storax: è uno schiavo che avrebbe dovuto rientrare con il figlio: non ottenendo risposta, ha la conferma che Eschino è ancora fuori casa; il nome è un grecismo e corrisponde ad un albero resinoso da cui si estraeva un profumo: lo schiavo, evidentemente, era profumato!

[5]servulorum: è diminutivo di “servus

[6]advorsum: = “obviam”; si riferisce agli schiavi “adversitores” (uno è Storace) che scortavano con fiaccole accese i loro padroni

[7]aut: non ha valore disgiuntivo, ma indica una “gradatio” rispetto alla proposizione precedente

[8]satius: = “melius

[9]quam: secondo termine di paragone

[10]tete: accusativo del pronome di seconda persona rafforzato da “-te

[11]potare: intensivo di “bibo

[12]quom: = “cum”, con valore avversativo

[13]Sono frequenti nella lettura alcuni fenomeni linguistici: l’aferesi, cioè la caduta di un fonema o di un gruppo di fonemi ad inizio della parola, in “es” ed in “est” ed il loro appoggiarsi al termine precedente [es.: “comoediast” = “comoedia est”]; l’enclisi, cioè la caduta della “s” finale che viene sostituita da un apostrofo [es.: “quibu’” = “quibus”]; fusione di aferesi ed enclisi [“usust” = “usus est”]; associazione di enclisi ed apocopi nell’enclitica successiva [“sanun” = “sanus” + “ne” apocopato].

[14]ne: dipende dal verbo “sollicitor”, inteso come “verbum timendi”: da qui il “ne + cong.” perchè si teme che accada ciò che non si vuole

[15]alserit: perf. cong. da “algeo, es, alsi, ere, 2

[16]praefregerit: perf. cong. da “praefringo (prae + frango), is, fregi, fractum, ere, 3

[17]instituere: infin. esclamativo a cui il “-ne” dà anche un tono interrogativo

[18]parare: = “ut paret

[19]Si riferisce al figlio, che Micione è andato a cercarsi, perchè l’ha adottato, e poi gli si è affezionato tanto da stare in ansia per lui: Micione scopre quasi con stupore l’affetto enorme che ha nel suo cuore per questo giovane che non è neanche suo figlio e per il quale è disposto a preoccuparsi e soffrire; l’”humanitas” trova in lui un esempio assai valido di come l’uomo si faccia coinvolgere dai senti­menti per gli altri.

[20]Atque: = “atqui

[21]Nota lo Schiesaro: I personaggi di Demea e Micione agitano l’uno contro l’altro temi che sono rilevanti per la società romana di allora: tradizionalismo ed apertura, parsimonia e lusso, legalità formale ed ideali di giustizia, educazione permissiva ed educazione tollerante.

[22]Is: nella traduzione il pronome dimostrativo è risolto in relativo

[23]studio: compl. di qualità

[24]adeo: = “nimium

[25]La città in cui si svolge l’azione della commedia è Atene

[26]agere...habere: infin. storici

[27]inde: = “ex his

[28]maiorem: il comparativo perchè i figli sono due

[29]mihi: dativo etico

[30]parvolo: = “parvulo”, diminutivo di “parvus

[31]All’affermazione di un ideale di educazione liberale ed umana, nota il Casali, ed alla creazione di un personaggio che si presentasse non solo come il banditore di questo ideale, ma come un esemplare di umanità aperta, cordiale, sensibile, Terenzio era indotto, oltre che dalla sua indole, dai suggerimenti che gli venivano dall’ambiente colto e raffinato nel quale viveva (il Circolo degli Scipioni), dove i valori della tradizione romana si fondevano, attraverso la mediazione di filosofi e filologi greci, con l’eredità spirituale dell’Ellenismo, ed i modi del vivere si conformavano ad una nuova concezione dell’uomo come libera personalità aperta ad ogni esperienza di vita, di pensiero e di arte, capace quindi di intendere meglio se stessa e gli altri, e perciò più disposta alla tolleranza ed alla comprensione.

[32]Secondo l’inglese Goldberg il monologo di Micione avrebbe fiunzione simile a quello della “Sàmia” di Menandro, lacunosamente giunto fino a noi. In questo, il giovane Moschione racconta d’esser stato allevato dal padre adottivo con grande liberalità, cioè nel modo in cui Micione ha tirato su Eschino. Ma mentre rende di sè l’immagine complessivamente positiva di un giovane bene educato, insinua nello spettatore il dubbio che non sia tutto oro quello che luccica: c’è un accenno fuggevole al fatto che ha messo incinta la figlia del vicino, che poi sposa (proprio come farà Eschino). E poi si avverte, nell’enumerazione compiaciuta dei meriti personali, l’egocentrismo del figlio di papà. Sono segnali sufficienti a far dubitare della positività del personaggio, a inaugurare l’attesa di un esito della sua azione che potrebbe anche risultare, come di fatto risulterà, deludente. Nelle due commedie, dunque, il monologo serve a preparare il rovesciamento del finale, che in parte è a sorpresa, in parte prevedibile a partire da alcuni indizi.

[33]Cioè quello conseguente alla “patria potestas”, che Micione ha assunto adottando Eschino

[34]clanculum: diminutivo parlato di “clam” e l’accusativo è comune nei comici

[35]E’ il sentimento di vergogna che trattiene dal fare il male, mentre “liberalitas” è la nobiltà del cuore che nasce da un’educazione saggia. E’ da notare che Terenzio ha messo uno vicino all’altro due termini che hanno la stessa radice: “liberalitate” e “liberos”, ad indicare che una delle prerogative del figlio è proprio di essere un uomo libero e nobile, a differenza dei servi.

[36]Il frequentativo “clamito” esprime sia l’iterazione sia l’intensità delle rozze proteste del fratello villano

[37]nobis: dativo etico

[38]sumptum suggeris: allitterazione

[39]In effetti, afferma il Tumscitz, nel finale ambiguo e problematico Micione rivelerà i limiti del suo carattere e della sua ideologia progressista. Fin da questo monologo iniziale egli non convince del tutto. La sua accondiscendenza al limite del permissivismo, la rinuncia alla “patria potestas” per un rapporto paritario basato sull’”amicitia” dovevano lasciar perplesso lo spettatore romano, il quale, alla fine della commedia, non si sarebbe poi stupito che, seguendo questi precetti, si potesse andare in rovina.

[40]I due termini indicano il primo l’equità giuridica, il secondo la norma morale. Ora, se è vero che Dèmea con la sua severità applica la norma giuridica della “patria potestas”, non tiene conto però di altri principi che rientrano nella concezione dell’”humanitas” sostenuta da Terenzio.

[41]Secondo il Barchiesi, la nascita di un’ideologia dell’imperialismo romano è un dato importante nell’età di Terenzio: si fa luce l’idea che il potere è più efficace se si fa amare, quindi se è temperato ed illuminato.

[42]Si consideri la consonanza delle idee di Terenzio con la pedagogia più attuale; ma queste teorie in Roma dovevano risuonare assai pericolose, perchè mettevano in discussione il principio dell’educazione severa e dell’autorità paterna.

[43]La triplice anàfora del pronome scandisce l’esposizione del modello pedagogico di Micione, per il quale “dominus” e “pater” non coincidono, ma si oppongono. Questa contrapposizione era piuttosto rivoluzionaria nel mondo romano.

[44]Entra in scena Demea. Provenendo dalla campagna è passato per il foro, dove ha saputo del rapimento della cortigiana da parte di Eschino e per questo è infuriato.

[45]E’ una comune formula di saluto.


 

ADELPHOE”, vv. 81/154

  ATTO I - SCENA II

  Metro: senari giambici

  Il dissenso di Demea con Micione[1]

  DEMEA: Oh, proprio a proposito! Vado in cerca proprio di te.

MICIONE: Perché sei preoccupato?

D: E me lo domandi dal momento che a noi è (un figlio come) Eschino? Perché io sono preoccupato?

M: Non dicevo che così sarebbe finita? Cosa ha combinato[2]?

D: Che cosa ha combinato egli che non si vergogna di nulla, non teme nes­suno né crede di essere soggetto a nessuna legge? Infatti non considero ciò che (da lui) è stato commesso prima: che cosa di vergognoso non ha combi­nato poco fa!

M: Di che cosa mai si tratta?

D: Ha sfondato una porta e si è precipitato a forza in casa di altri; ha battuto fino ad ucciderli il padrone e tutta la servitù; ha portato via la donna che amava: tutti gridano che è stata commessa un’azione molto vergognosa[3].

   Quanti, o Micione, me lo hanno detto mentre venivo qua!

   (La notizia) è sulla bocca di tutti.

   Insomma, se bisogna portare un esempio, non si accorge che suo fratello bada agli interessi di casa e vive in campagna modestamente e frugalmente?

   Quello (non ha commesso) nessuna azione simile a questa.

   E quando dico queste cose a lui, le dico a te, o Micione: (sei proprio) tu (che) lasci che egli si guasti.

M: Non c’è mai nulla più ingiusto di un uomo privo di esperienza, il quale non considera ragionevole se non quello che ha fatto lui.

D: A che cosa (mira) questo (discorso)?

M: Perché tu, o Demea, giudichi male queste cose[4].

   Non è un delitto, credi a me, che un giovane frequenti le donne e beva: (no), non è (delitto); né (è delitto) sfondare una porta[5].

   Queste cose se non le abbiamo fatte né io né tu, (fu) la povertà (che) non ci permise di farle.

   E tu ora ti fai un merito di ciò che allora facesti costretto dalla miseria?

   Non è giusto; infatti se noi avessimo avuto i mezzi per farlo, l’avremmo fatto (anche noi).

   Anche tu, se fossi (veramente) un uomo, permetteresti a quell’altro tuo (figliuolo) di fare (lo stesso) ora finché l’età glielo permette piuttosto che farlo poi, in età non adatta, quando ti avrà portato a seppellire dopo aver (a lungo) atteso (la tua morte).

D: Per Giove, tu, (che sei) uomo (di giudizio), mi fai diventare pazzo! Non è forse vergogna che un giovane faccia queste cose?

M: Ah, dammi retta, non infastidirmi spesso con questa questione: mi hai affidato tuo figlio perché lo adottassi[6].

   Ormai è diventato mio. Se sbaglia in qualche cosa, o Demea, sbaglia a spese mie; in ciò io sopporto la maggior parte (del danno).

   (Se) banchetta, (se) si ubriaca, (se) odora di profumi, (spende) del mio; va a donne: gli sarà dato da me denaro finché ne avrò la possibilità; quando poi non ne avrò le possibilità, forse gli si chiuderà in faccia l’uscio.

   Ha rotto una porta: sarà riparata; ha strappato un vestito: sarà risarcito; e, grazie agli dei, ho il denaro per farlo, ed ancora non è scarso.

   Insomma o smettila o dammi un giudice, chiunque vuoi: dimostrerò che tu in questa faccenda sbagli di più.

D: Ahimè! Impara ad essere padre da quelli che sul serio sanno (esserlo).

M: Tu sei padre per (vincolo di) natura, io per i (buoni) consigli.

D: Tu coi tuoi consigli (gli fai) qualcosa (di buono)?

M: Ah, se continui, me ne andrò.

D: Così tratti tu?

M: Dovrei forse sentire tante volte la tua musica?

D: (Eschino) mi sta a cuore.

M: Anche a me sta a cuore. Ma, o Demea, ciascuno di noi si prenda cura della parte che gli spetta: tu dell’uno, io egualmente dell’altro; infatti il prenderti cura di entrambi è come un ridomandarmi quel (figlio) che mi hai dato.

D: Ah, Micione!

M: Così mi sembra.

D: Che cosa si deve dire? Se ti piace proprio questo, scialacqui, sperperi, vada alla malora[7]; (la cosa) non mi riguarda per nulla.

   Se ormai una sola parola[8] d’ora in poi...[9]

M: Di nuovo, Demea, ti adiri?

D: O non credi? Ti richiedo forse (il figlio) che ti ho affidato? Mi dispiace; non sono poi un estraneo; se mi oppongo... ecco, smetto (di parlare).

   Vuoi che mi occupi solo di uno: mi occupo (di uno); e ringrazio gli dei che è così come voglio (che sia)[10].

   Il tuo, invece, se ne accorgerà più tardi... no, non voglio dire contro di lui (parole) troppo dure.

M[11]: Ciò che egli dice non è una cosa da nulla, ma nemmeno è tutta la ve­rità: tuttavia un pò mi dispiacciono queste (sue parole)[12]; ma non ho voluto fargli capire che ne soffro.

   Quell’uomo, infatti, è (fatto) così: ogni volta che voglio calmarlo, mi ci metto di punta e lo smonto, tuttavia egli a stento sopporta pazientemente (le mie parole); se però io facessi crescere o se anche assecondassi la sua furia, senz’altro impazzirei con lui.

   D’altra parte Eschino in questa faccenda un pò di torto verso di noi ce l’ha[13].

   Quale è la cortigiana di cui egli non è stato l’amante o a cui non abbia dato qualche (dono)?

   Infatti, poco fa [credo che si sia ormai stancato di tutte] mi ha detto di vo­ler prendere moglie.

   Speravo che fossero ormai sbolliti (gli ardori della) giovinezza: ero con­tento.

   Invece, eccolo (cominciare) da capo!

   Ma, qualunque cosa ci sia, voglio vederci chiaro ed incontrarmi con lui, se si trova nel foro.


 


[1] Del carattere e delle idee di Demea, riassume il Piazzi, ci ha informato Micione nel monologo precedente; quindi non ci stupiamo nel vederlo irrompere in scena tutto imbronciato verso il fratello che accusa della pessima educazione di Eschino, uno scavezzacollo senza freni inibitori. Ecco l’ultima bravata del giovane, di cui Demea ha appena saputo: è entrato in casa altrui sfondando la porta, ha picchiato a sangue il padrone ed i servi e ha rapito la donna che amava. Un’azione da codice penale, anche se poi si verrà a sapere che il luogo lasciava a desiderare e la donna era una “meretrice” che Eschino rapiva per conto del fratello Ctesifone, innamorato di lei al punto da arruolarsi mercenario, se non l’avesse sposata. Micione minimizza però la gravità dell’accaduto: il passo è fondamentale perchè contiene un’implicita definizione di “humanitas”, intesa come capacità di comprendere con indulgenza e tolleranza le esigenze altrui diverse dalle proprie, senza assolutizzare il proprio punto di vista. Ma, uscito Demea, Micione esprime in un soliloquio la sua preoccupazione. Da buon filosofo egli ha il senso del relativo, della poliedricità e complessità delle cose umane, dunque sa bene che dopo tutto una parte di ragione ce l’ha anche Demea. Il ragazzo qualche pensiero glielo sta dando da tempo: non sarà che la pedagogia permissiva è buona solo in teoria?

Sempre sul concetto di “humanitas” ai tempi terenziani così continua l’Alfonsi: La consapevolezza individuale e morale del loro compito direttivo, come loro “dovere” anzi, fu nei Romani rafforzata, qualche anno dopo la morte di Terenzio, da Panezio, il filosofo mediostoico. Panezio crea un’etica che è un’estetica di vita: per cui ognuno deve realizzare in sè il proprio impegno morale. Ogni uomo diventa così una “persona”, quasi una maschera nobile di dignità, e l’insieme delle persone un’umanità eletta che deve attuare nel mondo l’ideale ellenico della “filantropìa”. Nasce così nel circolo scipionico il concetto di “humanitas”, destinato a tanto alto avvenire, per cui il “civis Romanus” si trasforma in “homo humanus”. E’ idea che implica non solo la “filantropìa” greca, ma anche giustizia verso gli altri e solidarietà con i propri simili in nome di un comune limite e di una comune dignità. Di quest’idea è largamente permeata tutta la commedia di Terenzio; da questa “humanitas” nasce in Roma la satira morale di Lucilio, la prima autobiografia di uomini politici di Rufo, anche la reazione polemica di Catone che contrappone all’ideale umanistico del circolo sci­pionico uno suo.

Bene sintetizza questo concetto in Terenzio lo Schadewaldt: Ciò che gli uomini sulla scena sentono e fanno, lo spettatore sente e fa con loro, e quello che dicono sembra provenire dalle profondità dell’animo ed è rivolto soprattutto al suo cuore.

[2] dissignavit: il verbo, secondo il Del Corno, ha il doppio valore di compiere un’azione straordina­ria, nel bene come nel male: l’esclamazione di Demea ha un tono amaramente ironico.

[3] in effetti Demea non dice che si tratta di una casa equivoca e, quindi, il reato ha l’apparenza d’essere ben più grave

[4] La difesa di Micione, dice il Barchiesi, ricalca la pacatezza illuminata e filosofica che abbiamo imparato a conoscere. In questa flemma c’è qualcosa di sorprendente, perchè le novità portate da Demea non sembrano irrilevanti scappatelle, e certamente il pubblico trova un pò leggerina questa pronta assoluzione

[5] Un’interpretazione suggestiva che si attaglia bene all’intera commedia ce la offre il Lentano: Nella commedia latina il ratto o l’esposizione delle fanciulle, il conseguente stato di cortigiana o schiava, l’agnizione finale simboleggiano tre fasi di un rito di passaggio dall’adolescenza alla condizione adulta, rispettivamente: la separazione anche violenta (rapimento, naufragio) dallo statuto di partenza; il momento di “marginalità”, di sospensione o rovesciamento delle regole vigenti, in cui la fanciulla sperimenta una condizione (meretricio, schiavitù) opposta a quella alla quale si viene pre­parando; il momento del reingresso, segnato dall’agnizione, nella società ad un livello qualitativamente superiore (matrimonio). La commedia, quindi, rispecchierebbe anche il passaggio del maschio dalla fase adolescenziale e presociale della marginalità a quella dell’integrazione nella società degli adulti.

[6] leggiamo in un saggio del Vitali: Che il problema del metodo da seguire nell’educazione dei figli, problema antico e moderno e sempre attuale, agitasse gli spiriti dei contemporanei di Terenzio non c’è naturalmente da dubitare; e c’è da credere anzi che esso fosse, più che in qualunque altro luogo, dibattuto in Roma, ove la “patria potestas” era tanto vasta e rigida, e, più che mai, nel tempo di Terenzio, tempo già ormai nuovo rispetto ai primi cinque secoli della vecchia età repubblicana, per ef­fetto appunto delle nuove condizioni di vita del nascente impero. Ad una gioventù che aveva dato prove sì mirabili su tanti campi di battaglia, allargando l’orizzonte politico romano non soltanto ol­tre l’agreste Lazio ma anche oltre le Alpi e oltre i mari, a una gioventù che aveva espresso dal suo seno comandanti supremi, per non citare altri, quale il poco più che adolescente Scipione l’Africano, l’inflessibile rigore della patria potestà doveva ormai apparire assurdo; e le affermazioni di diritto d’emancipazione dovevano sonare alte, perentorie, insistenti.

[7] si notano: asìndeto (mancanza di congiunzioni), “climax” (un crescendo) e allitterazione (della “p”)

[8] è una formula di giuramento

[9] inizia qui una serie di aposiopesi (interruzione deliberata della frase) da parte di Demea per esprimere sdegno, nervosismo, minaccia

[10] il pubblico saprà che Eschino ha agito per conto del fratello solo successivamente e, quindi, al momento non ha ragione di dubitare che l’elogio di Demea riguardo a Ctesifone sia fondato

[11] Micione, lasciato solo, riflette sul suo modello educativo, della cui positività rimane convinto, anche se le ultime vicende insinuano nel suo animo qualche dubbio e perplessità

[12] c’è in queste parole di Micione il riconoscimento della poliedricità delle vicende umane, dell’impossibilità di definire con un giudizio netto ed univoco il senso degli avvenimenti o la complessità di un comportamento

[13] finchè era presente Demea, Micione ha dissimulato la sua preoccupazione per la condotta di Eschino, ora però che è solo manifesta la sua inquietudine e forse ha qualche dubbio sulla bontà di un credo pedagogico basato sulla fiducia e sulla tolleranza


 

ADELPHOE”, vv. 636/712

  ATTO IV - SCENA V

  Metro

                    636-637 settenari trocaici; 638-678 senari giambici; 679-706 settenari trocaici; 707-711 settenari giambici; 712 ottonario giambico

  Il chiarimento di Eschino con Micione

  MICIONE: Fate come ho detto, Sostrata; io andrò da Eschino per fargli sa­pere come si sono messe le cose.

   Ma chi ha bussato qui alla porta?

ESCHINO: Per Ercole! E’ mio padre: è finita per me.

M: Eschino...

E: Che affari ha costui qui?

M: ...hai bussato tu a questa porta?

   [Tace. Perché non prendermi gioco di lui per un pò? Lo merita, dal momento che non ha mai voluto confidarmi questo (suo segreto)].

   Non mi rispondi nulla?

E: In quanto a me, per quel ch’io sappia, non (ho bussato) a codesta (porta).

M: Sicuro? Infatti mi domandavo con meraviglia che cosa tu avessi a che fare qui.

   [E’ arrossito: la cosa si mette bene[1]].

E: Per piacere, padre, dimmi, che cosa hai tu da fare in questa casa?

M: Per conto mio nulla. Poco fa mi ha trascinato qui dal foro un amico per­ché lo assistessi (in una sua questione).

E: Quale?

M: Te lo dirò: abitano qui alcune povere donnette; tu non le conosci; anzi so bene (che non le conosci); infatti sono venute ad abitare qui da non molto tempo.

E: E poi che altro c’è?

M: C’è una ragazza con la madre.

E: Continua.

M: Questa ragazza è orfana del padre: il parente più stretto a lei è questo mio amico: le leggi[2] le impongono di sposarlo.

E: Per me è finita!

M: Che c’è?

E: Niente, bene, continua.

M: Egli è venuto per portarsela via con sè; infatti abita a Mileto.

E: Eh! Per portar via con sè la ragazza?

M: Proprio così.

E: In nome del cielo, fino a Mileto?

M: Si.

E: Mi sento male. Ma esse, che cosa, che cosa dicono?

M: Che cosa pensi che esse (possano dire)? Nulla davvero.

   La madre, però, ha inventato una storia, che cioè (alla ragazza) è nato un figlioletto da un altro uomo, non so da chi, ma non ne ha fatto il nome; (dice) che quello ha la precedenza e che (perciò la ragazza) non deve essere data in moglie a questo (suo parente).

E: Oh,  bella! Insomma, non ti pare questa una buona ragione?

M: No.

E: Perché no, di grazia? Forse, padre, costui se la porterà via da qui?

M: Perché non la dovrebbe portar via?

E: Avete agito con troppa durezza e senza pietà, anzi, o padre, e lascia che te lo dica, con troppa franchezza, (avete agito) in modo sconveniente[3].

M: Perché?

E: E me lo domandi? Quali sentimenti insomma pensate che proverà quell’infelice che è stato il primo a far l’amore con lei e che, poveretto, forse l’ama ancora perdutamente, quando sotto i propri occhi se la vedrà strappar via e portar lontano? Che brutta azione, padre!

M: Per quale ragione (dici) ciò? Chi gliel’ha promessa? Chi gliel’ha data? A chi è andata sposa lei e quando? Chi ha dato il consenso[4]? Perché sposò (una donna) destinata ad altri?

E: Doveva forse ammuffire in casa una ragazza (come lei) in età da marito attendendo finché questo suo parente venisse di là (da Micione) qui (da lei)?

   Queste cose, caro padre, avresti dovuto esporre e sostenere.

M: E’ proprio curiosa! Avrei dovuto parlare contro colui in difesa del quale ero venuto come avvocato? Ma che ci importa di queste cose, Eschino? O che interessi abbiamo con essi? Andiamocene; ma che hai? Perché piangi?

E: Ascoltami, padre, te ne prego.

M: Eschino, ho udito tutto e so (tutto)[5]; io ti amo davvero e perciò maggiormente mi sta a cuore (tutto) ciò che fai.

E: Vorrei che tu, o padre, finché vivrai, mi amassi così, per i miei meriti, per come mi addolora moltissimo di aver commesso questa mancanza e perciò provo vergogna davanti a te.

M: Lo credo veramente; infatti conosco la tua indole onesta; ma temo che tu sia troppo trascurato.

   Insomma; in quale città credi di vivere? Hai sedotto una ragazza che non avevi il diritto di toccare. Questa (è) la prima colpa, (colpa) grave, sì, tutta­via nella natura umana: l’hanno spesso commessa anche altri (che pur sono) galantuomini.

   Ma dimmi un pò: dopo che l’hai commessa, hai forse considerato la cosa in tutti i suoi aspetti? O hai forse pensato a ciò che dovevi fare ed in che modo? (Hai pensato) come avrei potuto saperlo, se tu stesso ti vergognavi di parlarmene?

   E mentre continuavi ad essere incerto, son passati dieci mesi.

   Per quanto almeno è dipeso da te, hai rovinato te, quella poveretta ed il bambino.

   Credevi forse che gli dei avrebbero fatto tutto per te, mentre te ne stavi a dormire[6]?

   E che essa ti sarebbe stata condotta a casa, nella tua camera da letto, senza che tu ti dessi da fare?

   Mi auguro che tu non sia allo stesso modo imprevidente (anche) nelle altre cose. Sta’ tranquillo, la sposerai[7].

E: Eh?

M: Sta’ tranquillo, te lo ripeto.

E: In nome del cielo, padre, (perché) ora vuoi prenderti gioco di me tu?

M: Io di te? Perché?

E: Non lo so: temo di più appunto perché desidero così fortemente che sia vero (tutto) quello (che dici).

M: Va’ a casa e prega gli dei che ti venga in casa la moglie: va’.

E: Che? Di già la moglie?

M: Di già.

E: Di già?

M: Ma si, al più presto.

E: Possano maledirmi gli dei tutti, o padre, se non è vero che io ora ti amo più dei miei occhi.

M: Che cosa? (Mi ami più) di lei?

E: Quanto lei.

M: Troppa grazia.

E: Ebbene, dove è l’uomo di Mileto?

M: Non esiste più, se ne è andato, si è imbarcato. Ma perché non ti muovi?

E: Va’, padre, pregali tu piuttosto gli dei; infatti so bene che essi daranno tanto più retta a te in quanto sei molto più buono di me.

M: Io entro in casa a far preparare ciò che occorre: tu, se hai giudizio, fa’ come ti ho detto.

E: Che affare è questo[8]? Questo significa essere padre o essere figlio? Se fosse un fratello o un amico, come potrebbe essere più compiacente verso di me[9]? Dovrei non voler bene a lui, ad un uomo tale, dovrei non averlo nel cuore? Oh! Appunto perciò con la sua indulgenza mi ha messo addosso un grande scrupolo[10] che io possa per caso fare imprudentemente ciò che egli non vorrebbe (che io facessi): sapendolo mi guarderò (dal farlo).

   Ma (perché) indugio ad entrare? (Forse temo) di far ritardare proprio io le mie nozze?


 


[1] Il rossore di Eschino è per Micione un segnale positivo: indica che il giovane non si è aperto con il padre non per paura, ma per pudore, per ritegno a dargli un dispiacere. Analogo concetto in Menandro.

[2] La legge ateniese a cui si allude era attribuita a Solone e prevedeva che un’orfana fosse sposata dal parente più prossimo: a questa stessa legge si fa riferimento anche nel “Phormio”.

[3] Ancora riferisce il Riverdito: Venendosi qui a scontrare la disumanità astratta del “ius” e la praticità problematica dell’”aequum”, Terenzio, per bocca di Eschino, attacca l’iniquità della rigida applicazione di ciò che è legge, cioè il fatto che il parente più prossimo voglia far valere il proprio diritto di prelazione matrimoniale sull’orfana senza mezzi materiali, in nome del sentimento di umanità e dei verdetti istintivi del cuore.

[4] Perchè il matrimonio fosse formalmente valido i genitori avrebbero dovuto dare il loro consenso: Micione continua a simulare di attenersi ad una linea di correttezza giuridica, indifferente alle ragioni del cuore.

[5] Garbarino: Quando finalmente il giovane si decide a gettare la maschera, il padre gli risparmia, con delicatezza e generosità, l’umiliazione della confessione; anzi, proprio nel momento in cui l’emozione del giovane culmina nelle lacrime, lo rassicura confermandogli il suo amore.

[6] A questa scena cruciale della commedia, riferisce la Rampioni, si è soliti annettere un particolare significato in rapporto alle convinzioni pedagogiche di Terenzio. Secondo alcuni, Micione non intenderebbe fare una predica o una lezione al figlio, ma un semplice esperimento per saggiare se esiste in lui il “pudor”, il senso morale. A noi pare che dalle parole di Micione si enucleino almeno tre imperativi ai quali secondo Terenzio dovrebbe uniformarsi un’esistenza autenticamente morale: il rispetto per ogni norma di convivenza civile, la confidenza verso il genitore-amico, il dovere di ri­spondere delle proprie azioni di fronte agli altri ed alla propria coscienza. Questo, almeno in linea di principio.

[7] Il Bo dubita che Micione anticipi più di tanto le moderne vedute pedagogiche: In realtà Micione non lascia neanche che Eschino chieda il suo intervento, interviene lui prima e provvede a tutto, di­venta lui il suo dio protettore, ma approfitta della circostanza e dell’occasione propizia per farlo ragionare sui fatti, fargliene trarre degli ammaestramenti per l’avvenire.

[8] Eschino, rimasto solo davanti alla porta di casa, sta riflettendo ad alta voce sul senso dell’esser padre e dell’esser figlio.

[9] Del Corno: Nella commedia, e nell’esperienza della vita, in Grecia e soprattutto a Roma, il padre rappresentava l’autorità più che la solidarietà affettiva, offerta piuttosto dai fratelli e dagli amici: di qui lo stupore di Eschino, pure assuefatto alla tenerezza di Micione.

[10] Micione con la sua indulgenza fa nascere in Eschino quasi un senso di colpa, che si esplica nel ti­more di commettere senza accorgersene qualcosa che il padre non voglia.


 

vv. 52 - 157

SIMONE:Poi, o Sosia, dopo che egli uscì dall’adolescenza, appena che ebbe modo di vivere con maggiore libertà (infatti prima come avresti potuto conoscere o comprendere la (sua) indole quando l’impedivano l’età, la soggezione, il maestro?).

SOSIA: Così è; di quelle cose che fanno quasi tutti i giovani, (che) cioè rivolgono l’animo a qualche occupazione, o allevare i cavalli, o cani da caccia, o studiare i filosofi, egli nessuna ne coltivava in modo particolare più delle altre, ma alla buona tutte quante; e ne avevo piacere.

SO: Non a torto: perchè penso questo che sopra ogni cosa è utile nella vita che non (si faccia) alcuna cosa di troppo.

SI: Così era il suo sistema di vita: sopportare e tollerare tutti di buon animo; con chiunque si trovasse insieme accordarsi con essi, non contrario ad alcuno: rispettare le loro inclinazioni, mai mettendosi innanzi agli altri: sicchè facilmente ti guadagni stima senza (destare) invidia e ti procuri amici.

SO: Si era fatta una vita veramente saggia: invero al giorno d’oggi la condiscendenza procura amici, la sincerità odio.

SI: Intanto tre anni fa una donna emigrò da Andro (e venne a stare) qui nel vicinato, costretta dalla povertà e dalla trascuratezza dei parenti, di bell’aspetto e nel fiore dell’età.

SO: Ahi!, temo che la donna d’Andro non ci porti qualche malanno.

SI: Dapprima costei viveva onestamente, con privazioni e stenti, guadagnandosi la vita con il filar la lana e con il tessere la tela.

Ma, dopo che le si mise intorno uno che l’amava offrendole un dono, uno e poi un altro, proprio com’è la natura umana proclive (a passare) dalla fatica al divertimento, (ella) accettò la proposta: e poi iniziò (a cercare) il guadagno.

Quelli che allora la praticavano, per caso, come succede, vi condussero per forza mio figlio, perchè stesse insieme con loro.

Ed io subito tra me: "E’ preso di sicuro: l’ha avuta".

La mattina osservavo i loro servi che venivano o andavano, (e) andavo chiedendo: "Ehi!, ragazzo, dimmi, se ti piace, chi mai ieri si trattenne con Criseide?", infatti questo nome avea quella ragazza d’Andro.

SO: Capisco bene.

SI: Fedro o Clinia o Nicerato [allora quei tre insieme la praticavano] (dicevano): "Ebbene, che ha fatto Panfilo?", "Che ha fatto? Ha pagato la (sua) quota (e) ha cenato": io ne ero contento.

Allo stesso modo mi informavo un altro giorno (e) venivo a sapere che proprio nulla si poteva attribuire a Panfilo.

A dire il vero, lo credevo abbastanza provato ed un grande esempio di continenza; infatti chi si trova a contatto con caratteri di tale natura senza che tuttavia il suo animo si corrompa in tale pratica, puoi dire che da sè costui già è riuscito a trovare la regola della sua vita.

Da una parte questo mi faceva piacere, dall’altra tutti ad una voce (ne) dicevano ogni bene e si compiacevano della mia sorte, perchè avevo un figlio fornito di tale carattere.

Che bisogno c’è di parole? Cremete spinto da questa fama venne spontaneamente da me, per offrire in moglie a (mio) figlio con una grossa dote la sua unica figlia.

(La proposta mi) piacque: detti la mia parola; questo è il giorno fissato per le nozze.

SO: Che cosa dunque si oppone perchè non si facciano?

SI: Sentirai. All’incirca nei pochi giorni nei quali queste cose furono fatte, Criside, questa (nostra) vicina, muore.

SO: Ben fatto! Mi hai consolato: temevo da Criside qualche danno.

SI: In quella casa allora (mio) figlio si trovava quasi sempre insieme con quelli che avevano praticato Criside: insieme (con questi ne) preparava il funerale: triste frattanto, di quando in quando prorompeva in singhiozzi.

Ciò allora mi piacque. Così pensavo: "Questo (ragazzo), per affetto d’una relazione abbastanza breve, sopporta tanto intimamente l’amore di costei: che cosa (farebbe) se egli amasse (veramente)? Che cosa questo (ragazzo) farebbe per me (che sono suo) padre?".

Io credevo che tutte queste fossero manifestazioni di un’indole affettuosa e di un animo gentile. (Ma) perchè indugio con molte (parole)?

Io stesso anche, per amore di lui, prendo parte al funerale, niente ancora sospettando di male.

SO: Ahi!, che cosa è questo (che vuoi dire)?

SI: Lo saprai. Si porta fuori il cadavere: ci muoviamo. In questo mentre tra le donne che là sono presenti scorgo per caso una fanciulla di aspetto...

SO: Bella, forse?

SI: ...e di un volto, o Sosia, così modesto, così grazioso, che niente c’è di superiore. Quella allora mi parve che si lamentasse più delle altre: e poichè era d’aspetto dignitoso e nobile, più delle altre, mi accosto alle ancelle (che l’accompagnavano), domando chi sia.

Mi dicono che è la sorella di Criside. (La notizia) subito mi colpì l’animo.

Ah, ecco! Questo è quello (che non sapevo): di qui quelle lacrime, questa è (la causa) di quella (sua) afflizione.

SO: Quanto temo dove vada a finire!

SI: Intanto il corteo avanza; lo seguiamo; arriviamo alla tomba: (la morta) è posta sul rogo: si piange.

Frattanto questa sorella che ho detto si avvicinò alla fiamma con molta imprudenza con (suo) grande pericolo. A questo punto Panfilo sbigottito rivela l’amore (suo che era) ben dissimulato e nascosto: accorre, afferra la fanciulla a mezza vita; dice: "O mia Glicera, che fai? Perchè vai a morte sicura?".

Allora lei, così che facilmente avresti potuto riconoscere un amore divenuto consuetudine, piangendo si abbandonò a lui più che affettuosamente.

SO: Che (mi) dici?

SI: Ritorno di là sdegnato e mal sopportando (la cosa); ma non (c’era) abbastanza ragione per rimproverarlo.

(Mi) avrebbe detto: "Che cosa ho fatto? In che cosa ho mancato, o padre, o che cosa ho commesso di male? Trattenni (quella fanciulla) che volle gettarsi nelle fiamme: l’ho salvata".

Il ragionamento è (sarebbe) giusto.

SO: La pensi bene; infatti, se rimproveri colui che ha portato aiuto ad una vita (in pericolo) che cosa farai a quello che abbia recato danno o (fatto del) male?

SI: Il giorno dopo venne da me Cremete gridando che aveva scoperto un’azione indegna: (che cioè) Panfilo aveva come moglie codesta straniera.

(Eccomi) io con ogni calore a smentire quel fatto: egli insiste nel (dire che è tale il) fatto. Alla fine allora mi separo così da lui come se dicesse di non dare più (sua) figlia.

SO: E allora tu non rimproverasti tuo figlio?

SI: Neppure questa (era) una ragione abbastanza forte perchè lo rimproverassi.

SO: Come? Di grazia.

SI: "Tu stesso, o padre, hai posto un termine a queste cose: prossimo è il tempo in cui io dovrò vivere secondo il volere altrui: pertanto lascia che ora io viva a mio modo".

SO: Quale ragione di rimproverarlo allora è rimasta a te?

SI: Se per causa d’un capriccio non vuole prender moglie, tale colpa da parte sua sarà da punirsi per prima.


 

vv. 267 - 300

PANFILO: Chi mai parla qui? Ti saluto, Miside.

MISIDE: Oh, salve, Panfilo.

P: Che fa (Glicera)?

M: Me lo domandi? Spasima nei dolori (del parto) e per questo, poveretta, è in gran pena, perchè già le nozze furono stabilite per questo giorno.

Ora teme questo, che tu l’abbandoni.

P: Io potrei pensare una simile cosa? Io permetterei che sia ingannata per causa mia quella poveretta che mi ha donato il suo cuore e tutta la sua vita? Che io ebbi per moglie cara al mio animo sopra ogni altra cosa, io permetterei che il suo cuore educato ed allevato al bene ed al pudore, costretto dal bisogno, si avesse a mutare? Non lo farò mai.

M: Non temerei se (ciò) fosse posto solo in te; ma temo che tu possa sopportare la violenza.

P: Mi credi dunque così indifferente, anzi così ingrato o disumano o crudele, che nè la lunga relazione nè l’amore nè il sentimento dell’onore mi commuovano nè mi consiglino a mantenere la fede data?

M: Questo solo io so: che costei si è ben meritata che tu sia memore di lei.

P: Che sia memore (di lei)? O Miside, Miside, ancora mi restan scritte nel cuore le parole che Criside mi disse riguardo a Glicera.

(Ella) già quasi morente mi chiama; accorsi; voi eravate poco lontano, noi soli.

Comincia: "O mio Panfilo, tu vedi la sua bellezza e la sua età; nè ti è nascosto quanto ora quelle sue (qualità) le siano pericolose per difendere l’onestà e le sostanze. Quindi per questa destra prego te ed il tuo genio, ti scongiuro per la tua lealtà e per l’abbandono di lei (in cui costei si trova) che tu non allontani nè rigetti costei da te. Se ti ho amato come un fratello germano, se lei fece sempre il massimo conto solo di te, se ti fu obbediente in tutte le cose, a costei ti dò come marito, come amico, tutore, padre: ti affido questi miei beni e li raccomando alla tua onestà".

Pone (la mano di) costei nella (mia) mano; subito dopo la morte la porta via.

Io presi (quella mano): conserverò ciò che (da lei) ho accettato.

M: Così per lo meno spero.

P: Ma perchè ti allontani da lei?

M: Vado per la levatrice.

P: Fa’ presto. E... hai capito? Guardati dal dire una parola intorno alle nozze, perchè non si aggiunga alla malattia anche questa (disgrazia).

M: Starò attenta.


 

vv. 796 - 819

CRITONE: (Mi) è stato detto che in questa piazza ha abitato Criside, colei che preferì procurarsi qui ricchezze disonestamente piuttosto che vivere povera ma onesta, nella sua patria.

Per la sua morte quei (suoi) beni secondo la legge sono toccati a me.

Ma vedo persone a cui potrò chieder notizie. Buongiorno.

MISIDE: Per gli dei, chi vedo! Non è costui Critone, bis-cugino di Criside?

E’ lui.

C: Salute, o Miside.

M: Sii il benvenuto, o Critone.

C: E così... Criside... ma!

M: Ha gettato (in grande dolore), per Polluce, anche noi poverette.

C: E voi che (fate)? In qual modo qui (vivete)? (State) abbastanza bene?

M: Noi? Così e così. "Come si può", dicono, quando non è lecito dire "Come vogliamo".

C: Glicera che fa? Ha già trovato qui i suoi genitori?

M: Volessero gli dei!

C: Non ancora dunque? Non con buoni auguri sono venuto qui (allora); perchè, per Polluce, se avessi saputo questo, mai avrei messo qui il piede. Sempre costei (Glicera) si disse che era sorella di quella (Criside), e (come tale) è stata considerata; (giustamente ora) possiede le cose che furono di quella. Ora, far liti io straniero, quanto codesto per me sia facile e utile lo dicono gli esempi degli altri. Nello stesso tempo penso che già lei abbia qualche amico e protettore: infatti partì di là già quasi grandicella.

Mi chiamino pure imbroglione, che vado a caccia di eredità, pezzente: ebbene non mi piace privar di tutto costei.

DAVO: Oh, bravo, straniero!

M: Per Polluce, o Critone, conservi l’antico (carattere).

C: Conducimi da lei, poichè sono venuto qui, che la veda.

M: Volentieri.

D: Li seguirò: non voglio che mi veda il vecchio in questo momento.

 

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Ultimo aggiornamento: 05-05-03

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