Cartagine, 195 o 185 ca. - in viaggio, 159 a.C.
Sulla vita di T. abbiamo una biografia risalente
a Svetonio. A questa attinse Donato, che la premise al suo commento
delle commedie del nostro. T. nacque a Cartagine e giunse a Roma
come schiavo del senatore T. Lucano, dal quale fu affrancato "ob
ingenium et formam", per il suo ingegno e la sua bellezza. Divenne
intimo di Scipione Emiliano e di Gaio Lelio; entrò a far parte
dell’entourage scipionico e fu portavoce dell’ideale di humanitas da
esso elaborato. Questa sua posizione di prestigio suscitò l’invidia
dei suoi contemporanei, soprattutto degli altri letterati. Sul conto
di T. sorsero calunnie e pettegolezzi: lo si accusava di essere un
prestanome dei suoi importanti protettori che sarebbero i veri
autori delle commedie terenziane. Era, infatti, considerato
disdicevole per un civis Romanus, impegnato politicamente, dedicare
il proprio tempo alla composizione di commedie (l’unica attività che
era concesso coltivare era l’oratoria o la storiografia).
Da questa accusa T. si difende nel prologo della
sua ultima commedia, l’"Adelphoe" (da adelfoi fratelli). Nel
prologo, l’autore afferma che ciò che gli altri ritengono una colpa
e di cui lo accusano, è per lui motivo di vanto e di orgoglio:
ritiene un merito essere aiutato dagli uomini più importanti di
Roma, delle cui imprese tutto il popolo si serviva. La difesa di T.
risulta debole, forse perché non voleva urtare la suscettibilità dei
protettori, a cui le calunnie e le dicerie non dispiacevano affatto.
Amareggiato dal complessivo insuccesso della sua
produzione, T. lasciò Roma nel 160 a.C. e volle fare un viaggio in
Grecia e in Asia Minore, da cui non fece più ritorno. Morì qualche
anno più tardi, o a causa di una malattia, o a causa di un
naufragio, oppure per il dolore procuratogli dalla perdita dei
bagagli che contenevano molte commedie che aveva tradotto da
originali menandrei reperiti in Grecia.
OPERE
T. compose in tutto 6 commedie, pervenuteci
interamente con le didascalie relative alla rappresentazione. La sua
carriera drammaturgica non fu facile come per Plauto: non ebbe lo
stesso successo perché la sua commedia non rispondeva ai gusti del
grosso pubblico romano. Quella di T. era una commedia che voleva
trasmettere un messaggio morale estraneo alla mentalità romana
abituata al teatro plautino che interpretava i rapporti
interpersonali come basati sull’inganno, sulla violenza e sulle
prevaricazioni.
Il circolo scipionico tendeva ad imporre diversi
modelli di comportamento, ispirati al costume greco, e il messaggio
terenziano risulta emblematicamente contenuto nella famosa frase
dell’"Heautontimorumenos" (da timoreo, ossia il punitore di se
stesso): "homo sum humani nihil a me alienum puto", "sono uomo e
niente di ciò che è umano considero a me estraneo". T. esordì nel
166 a.C. con una commedia, l’"Andria" (la ragazza dell’isola di
Andrio).
Nel 165 a.C. fece rappresentare una seconda
commedia, l’"Hecyra" (la suocera). Il pubblico dopo le prime scene
abbandonò il teatro preferendo assistere ad una manifestazione di
pugili e funamboli; fu un fiasco clamoroso.
Nel 163 a.C. fece rappresentare l’"Heautontimorumenos".
Nel 169 a.C. furono rappresentate 2 commedie, l’"Eunucus"
e il "Phormio". L’"Eunucus" fu il più grande successo di T., perché
è la commedia terenziana più simile alla comicità plautina.
Nel 160, durante i giochi funebri per celebrare
la morte di Lucio Emilio Paolo, padre di Scipione Emiliano, T. fece
rappresentare la sua ultima commedia, l’"Adelphoe", nella stessa
occasione tentò una seconda rappresentazione dell’"Hecyra", ma anche
questa volta il pubblico abbandonò il teatro preferendo i
gladiatori. Una terza rappresentazione avvenne durante i Ludi Romani
dello stesso anno e, finalmente, fu rappresentato dall’inizio alla
fine, il pubblico rimase in teatro grazie alla presenza di Ambivio
Turpione, attore molto celebre.
*L’"Hecyra". Il protagonista dell’"Hecyra" è il
giovane Pamfilo, tormentato e patetico, in perenne conflitto fra
amore e pudore. È innamorato di Bacchide, una cortigiana, ma il
padre lo costringe a sposare Filumena, una ragazza perbene. Pamfilo
è combattuto fra la passione per Bacchide e il rispetto della
volontà paterna. Sposa Filumena senza amarla e si rifiuta di avere
rapporti intimi con la moglie, scarica su di lei le sue delusioni.
Filumena accetta con umiltà i torti del marito che, dopo averla
conosciuta meglio e confrontata con le altre donne, impara ad
apprezzare il pudore della moglie e dalla stima nasce l’amore; un
sentimento più profondo dell’attrazione per Bacchide. Ad un certo
punto, Pamfilo parte per un viaggio di affari; la moglie lascia la
casa del marito, dove viveva con la suocera Sostrata, e torna a
vivere dai genitori. Nessuno sa con precisione le cause di questo
allontanamento. Un servo riferisce che Filumena ha giustificato il
suo allontanamento con motivi di salute, una malattia l’avrebbe
costretta a tornare a casa. Tutti gli altri personaggi ritengono che
la causa dell’allontanamento siano stati i conflitti con la suocera.
È soprattutto il marito di Sostrata ad accusarla di aver reso la
vita impossibile a Filumena e di averla costretta ad allontanarsi da
casa. Sostrata si ritiene innocente e in un monologo lungo e
toccante si dichiara vittima dei pregiudizi che vogliono tute le
suocere ostili alle proprie nuore. Nessuno conosce i motivi reali
che l’hanno indotta a lasciare la casa, ma tutti i personaggi
avanzano supposizioni infondate. Il messaggio che T. vuol
trasmettere è che non bisogna giudicare dalle apparenze e lasciarsi
guidare dai soliti pregiudizi. La realtà è spesso ben diversa dalle
apparenze. Ritorna Pamfilo dal viaggio e viene informato
dell’accaduto; si reca a casa dei genitori della moglie per
constatare di persone le condizioni di salute di Filumena. A casa di
Filumena, Pamfilo scopre la verità, ben diversa da ciò che gli altri
pensavano. Filumena ha lasciato la casa perché sta per partorire un
figlio non di Pamfilo, ma che è stato concepito prima del
matrimonio, frutto di una violenza notturna subita da Filumena
durante una festa, ad opera di uno sconosciuto. In un monologo lungo
e patetico, Pamfilo rivela al pubblico questa verità e mette a nudo
i suoi sentimenti, il conflitto che si agita in lui fra amore e
pudore. Sa che la sua vita senza la moglie sarà una vita vuota, però
sa che l’onore e la società lo costringono a separarsi dalla moglie
e a non considerare come suo l’alienus puer. Pamfilo non rivela però
il vero motivo per cui divorzia per non compromettere il buon nome
di Filumena. I due suoceri, all’oscuro della verità, pensano che
pamfilo voglia ancora Bacchide e che abbia ripreso la relazione con
lei. Vanno a parlare con Bacchide che rivela ai due che non ha più
rapporti con Pamfilo dal giorno del matrimonio. Pur essendo una
cortigiana, Bacchide accetta un compito che nessun’altra al suo
posto avrebbe accettato: andare da Filumena per dirle che Pamfilo la
ama. Bacchide è uno dei personaggi più peculiari del teatro di T.,
si contrappone allo stereotipo della cortigiana, agisce contro i
suoi interessi perché affezionata a Pamfilo e vuole la sua felicità.
Bacchide va da Filumena e la madre nota al dito
della cortigiana un anello che apparteneva alla figlia e che
Filumena portava la notte in cui aveva subito la violenza e che le
era stato strappato dal giovane. Bacchide rivela che l’anello le era
stato dato da Pamfilo, il giovane stupratore era quindi il marito.
La commedia si conclude con il ristabilimento dell’unione che una
serie di equivoci avevano minato.
Altre commedie interessanti sono l’"Heautontimorumenos"
e gli "Adelphoe". In queste commedie, il tema principale è il
problema pedagogico del rapporto fra genitori e figli e di quale sia
il migliore metodo per educare i giovani. Protagonista della prima,
è un vecchio genitore, Meneremo, che con la sua severità ha
costretto il figlio a lasciare la sua città e ad arruolarsi come
soldato, iniziando così una vita di pericoli e di disagi. Dopo
essersi reso conto di ciò che ha fatto, il genitore si pente e
decide di autopunirsi, vende tutti i suoi beni, va in campagna
sottoponendosi a lavori massacranti. Un altro anziano, Cremete, che
ha un campo vicino al suo, nota il comportamento di Menedemo e lo
invita ad aprirsi con lui, a confidarsi. È Cremete a pronunciare il
famoso verso"homo sum humani nihil a me alienum puto".
Negli "Adelphoe" sono protagonisti 2 fratelli,
Demea e Micione. Il primo è un uomo all’antica, rigido e austero che
ha due figli, uno dei due lo educa personalmente secondo i sistemi
tradizionali, l’altro, invece, lo affida al fratello Micione, che,
non sposato, vive in città e ha idee moderne. È padre per libera
scelta e decide di educare il figlio adottivo con indulgenza e
liberalità. Secondo lui i giovani devono instaurare un rapporto
basato sul dialogo con i genitori. Non bisogna costringerli a fare
il bene solo per paura di una punizione, ma per una scelta
personale, sua spunte e non per metus (Timore).
CONSIDERAZIONI
Quattro delle 6 commedie terenziane si rifanno ad
originali menandrei: solo l’"Hecyra" ed il "Phormio" riprendono
commedie di Apollodoro di Caristo, un altro commediografo greco che
non conosciamo.
Cesare definì T. "Dimidiatus Menander", ossia un
Menandro dimezzato; giudizio questo che svalutava T. rispetto al
greco. Rispetto a Plauto, le commedie di T. presentano maggiore
fedeltà ai modelli greci, ma si tratta sempre di una fedeltà
relativa: anche T., come Plauto, ricorreva alla contaminazione,
ovvero non traduceva alla lettera i testi greci. Rispetto a Plauto,
T. mantiene un’ambientazione rigorosamente greca, senza surreali
intrusioni di usi e costumi romani. T. elimina quasi completamente i
cantica, facendo invece uso abbondante dei versi lunghi. Altra
notevole differenza con Plauto è quella relativa allo stile e al
linguaggio: non troviamo in T. l’esuberanza, le acrobazie verbali, i
giochi di parole e le parodie dello stile tragico; evita
vigorosamente espressioni popolari e volgari; segue, stilizzandolo,
il linguaggio della conversazione ordinaria. Quello di T. è insomma
uno stile sobrio, naturale, all’insegna della compostezza, della
semplicità.
Anche in T., al centro della vicenda comica
troviamo amori ostacolati che, alla fine si realizzano felicemente.
I personaggi sono quelli della commedia nea, giovani innamorati,
ragazze oneste ecc.; troviamo anche qui i soliti stereotipi della
nea equivoci, inganni ecc. Il topos del riconoscimento conclude 5
commedie su 6, mancando solo negli " Adelphoe ". Sempre 5 su 6 si
concludono con uno o più matrimoni: solo nell’"Hecyra " troviamo il
ristabilimento di una unione matrimoniale che era entrata in crisi a
causa di equivoci e sospetti infondati.
T. tende a complicare gli intrecci menandrei,
inserendo nella commedia, accanto alla coppia principale, una
seconda coppia. Gli adulescens sono quindi 2 e sono 2 i senex.
Rispetto a Plauto, T. costruisce i suoi intrecci con coerenza
maggiore e con più credibilità, caratteristiche queste mancanti
nell’altro, che puntava sull’efficacia comica della singola scena.
Altra differenza importante con Plauto e Menandro, è l’abolizione
del prologo informativo. T. trasforma il prologo informativo in un
prologo a carattere letterario; nel prologo parla di sè, del suo
modo di poetare e si difende dalle accuse che i suoi avversari gli
rivolgono. Plauto e Menandro si servono del prologo per informare il
pubblico dell’antefatto e anticipano spesso la conclusione; ciò
metteva il pubblico nella condizione di seguire meglio la vicenda,
il cui intreccio era spesso complesso. Ciò rendeva il pubblico
superiore ai personaggi della commedia. T. elimina il prologo
informativo, perché punta su effetti di suspense, vuole che lo
spettatore si immedesimi nel personaggio, vuole che il pubblico sia
coinvolto emotivamente nelle vicende, provi le stesse emozioni dei
personaggi. T. vuole mascherare l’aspetto fittizio dell’evento
teatrale, vuole che non venga mai interrotta l’illusione scenica.
Elimina tutti i procedimenti metateatrali a cui spesso ricorreva
Plauto. Tutto ciò ha uno scopo preciso: mentre Plauto non perseguiva
nessun fine morale o politico, ma tendeva solo a divertire, T., con
le sue commedie, vuole trasmettere un messaggio morale.
T., inoltre, attenua i tratti caricaturali dei
personaggi della nea e ne fa delle figure delicate, tenere,
sensibili (ma più "tipi" che individui). Protagonista del suo teatro
non è più il servus callidus, ma padri e figli. Non ridicolizza i
sentimenti d’amore dei giovani, ma li segue con partecipazione e
simpatia. I padri terenziani sono differenti da quelli plautini,
sono disponibili al dialogo con i figli e si preoccupano della loro
felicità più che del loro patrimonio e del veder affermata la loro
autorità. Nel teatro di T. non esistono personaggi del tutto
negativi. Anche i servi sono spesso vicini ai padroni e partecipano
ai problemi familiari; non tutte le cortigiane pensano ai propri
interessi. Il messaggio che vuole trasmettere è quello di aprirsi
agli altri, rinunciare all’egoismo, comprendere i propri limiti ed
essere indulgenti nei confronti degli errori altrui, essere
tolleranti e solidali. Chi si apre agli altri vive veramente da uomo
fra gli uomini.
N. Castaldi
"ADELPHOE”,
vv. 26/80
ATTO
I - SCENA I
Metro:
senari giambici
Micione
illustra il suo metodo educativo
vv.
26-49
MICIONE:
Storace!
Questa notte Eschino non è tornato dal banchetto e (non si è
fatto vedere) nessuno dei servi
che gli erano andati incontro.
(E’)
proprio vero quello (che) dicono: se te ne stai lontano da casa in
qualche luogo e
se colà indugi troppo, è meglio
che ti capiti ciò che tua moglie nell’ira dice contro di te e
quello che pensa nel suo animo, piuttosto che
quello che (dicono) i genitori indulgenti.
Se
ritardi, tua moglie sospetta o che tu sia preso dall’amore (per
un’altra) o che (un’altra donna) sia presa d’amore per te
o che ti dai al bere
e te la godi e che tu solo ti dai al bel tempo, mentre
a lei (solo) tocca tribolare.
Poiché
mio figlio non è ritornato, quali pensieri io ho e da quali
preoccupazioni sono ora agitato!
O
che
abbia preso freddo
o che sia caduto in qualche luogo o che si sia rotto le ossa.
Perbacco!
(Ma è mai possibile) che un uomo si metta
in testa di procurarsi
ciò (= di adottare un figlio) che gli sia più caro di se stesso!
Eppure
non è figlio mio, ma di mio fratello,
che
fin dall’adolescenza è di un carattere
così
diverso (dal mio): io mi son dato a questa comoda vita di città,
senza pensieri, e, ciò che costoro considerano una fortuna, una
moglie non l’ho avuta mai.
Egli,
invece, (ha fatto) tutto il contrario: trascorre
la vita in campagna, tira a campare sempre tra strettezze e
privazioni; ha preso moglie, gli son nati due figli; di essi
il maggiore
l’ho adottato io,
l’ho tirato su da piccolo;
l’ho sempre tenuto con me, gli ho voluto bene come se fosse mio;
nell’educarlo è il mio godimento, solo ciò mi è caro.
vv. 50-63
Mi do da fare
con cura affinché da parte sua egli abbia verso di me (gli stessi
sentimenti): lo fornisco (di denaro), lascio passare le sue
stranezze, ritengo che non è necessario che egli faccia ogni cosa
secondo il mio diritto;
insomma ho abituato mio figlio a non tenermi nascoste quelle
(scappatelle) che comporta con sé la giovinezza e che gli altri
(giovani) fanno di nascosto dai padri.
Chi,
infatti, si sarà abituato a mentire o avrà il coraggio di
ingannare il padre, tanto più avrà il coraggio (di ingannare)
gli altri.
Credo
che sia meglio tenere a freno i figli (facendo leva) sulla
vergogna
(delle loro colpe) e sull’indulgenza piuttosto che (facendo
leva) sul timore (che i padri incutono).
Questo
mio (principio) non va a genio a mio fratello né gli piace.
Viene
spesso da me a rimproverarmi:
“Che fai, o Micione? Perché mi
mandi in rovina il giovane? Perché si dà agli amori? Perché si
dà al bere? Perché tu gli fornisci denaro
per queste cose e l’accontenti troppo nel vestire? Tu non sei
fatto (per educare un giovane)”.
vv.
64-80
Egli è troppo rigido,
al di là del giusto e del ragionevole,
d’altra parte sbaglia di molto, secondo il mio punto di vista,
chi crede che l’autorità che si consegue con la forza sia più
forte o più duratura di quella che si consegue con l’affetto.
Questa
è la mia norma (di vita) e di questo sono convinto: chi compie il
suo dovere spinto dal (timore del) castigo, starà in guardia
tanto tempo finchè crede che sarà scoperto; se invece spera
che (la sua colpa) resterà nascosta, ricade nella sua
inclinazione.
Colui
che tu cerchi di conquistartelo con le buone maniere, fa di buon
grado (il suo dovere), cerca di ricambiarti (la sua gratitudine) e
sarà sempre lo stesso sia che tu gli stia accanto sia che gli
stia lontano.
Questo
è il dovere di un padre, abituare il figlio ad agire bene
spontaneamente più che per timore di altri: in ciò
differiscono il padre e il padrone.
Chi
non è capace (di fare) ciò, confessi di non saper governare i
figli.
Ma
questo
(che viene) è forse quello stesso di cui parlavo?
Si,
è proprio lui.
Lo
vedo preoccupato, non so di che cosa: credo che ormai mi farà dei
rimproveri, secondo il solito.
Sono
lieto che tu giunga in buona salute,
Demea.
E’,
leggiamo in Garbarino, la commedia più matura e più riuscita di Terenzio: l’ultima da lui
composta, derivata da un originale menandreo e rappresentata
durante i giochi funebri in onore di Lucio Emilio Paolo, padre
di Scipione Emiliano, nel 160 a.C.. Dopo un prologo la
commedia si apre con un monologo di Micione (sicuramente “portavoce”
dell’Autore), che vive in città e già per questo
rappresentante di una mentalità più aperta (secondo la
visione di Menandro condivisa da Terenzio), uno dei due vecchi
protagonisti, in cui il personaggio presenta se stesso, il suo
metodo educativo (che punti non sulla paura della punizione,
ma sull’indulgenza, la comprensione e la generosità) e la
sua visione della vita, contrapponendola a quella del fratello
Démea; e imposta in modo chiaro il tema centrale della
commedia: il problema dell’educazione dei figli.
Nei
primi vv. 25 della commedia parla “il
prologo”: a differenza di Plauto, che nel prologo espone
l’antefatto della commedia, questo in Terenzio è polemico.
In esso il poeta si difende contro i suoi detrattori,
specialmente contro chi lo accusa di plagio e contro chi
sostiene che nel suo lavoro è aiutato da illustri personaggi.
Il
tema della commedia,
ci dice il Sandbach,
è quello del contrasto
tra due metodi per educare un figlio, l’uno permissivo e l’altro
restrittivo. Nessuno dei due si dimostra del tutto privo di
inconvenienti, ma Micione, il padre che pratica il primo
sistema, è, fino all’ultimo atto, presentato in una luce
favorevole come generoso, realista ed uomano; quando egli ha
occasione di impartire al figlio un comprensivo rimprovero, il
giovane lo accetta riflettendo sul fatto che la loro relazione
è più simile a quella tra amici o tra fratelli che a quella
abituale tra padre e figlio, e decide di non far nulla che
possa andare contro i desideri del vecchio. L’altro, Demea,
fratello di Micione, aspro e privo di gioia di vivere, viene a
trovarsi in situazioni ridicole ed è indeciso di fronte ad un
problema morale a proposito del quale Micione non ha
esitazioni: pur non essendo quello il matrimonio che
personalmente avrebbe scelto, egli non dubita neppure per un
momento che il figlio debba sposare la fanciulla povera che
ama e che gli dato un erede.
Storax:
è uno schiavo che avrebbe dovuto rientrare con il figlio: non
ottenendo risposta, ha la conferma che Eschino è ancora fuori
casa; il nome è un grecismo e corrisponde ad un albero
resinoso da cui si estraeva un profumo: lo schiavo,
evidentemente, era profumato!
servulorum:
è diminutivo di “servus”
advorsum:
= “obviam”; si riferisce agli schiavi “adversitores” (uno è Storace) che scortavano con fiaccole accese
i loro padroni
aut:
non ha valore disgiuntivo, ma indica una “gradatio”
rispetto alla proposizione precedente
quam:
secondo termine di paragone
tete:
accusativo del pronome di seconda persona rafforzato da “-te”
potare:
intensivo di “bibo”
quom:
= “cum”, con valore avversativo
Sono
frequenti nella lettura alcuni fenomeni linguistici: l’aferesi, cioè la caduta di un fonema o di un gruppo di fonemi ad
inizio della parola, in “es”
ed in “est” ed
il loro appoggiarsi al termine precedente [es.: “comoediast”
= “comoedia est”];
l’enclisi, cioè la caduta della “s”
finale che viene sostituita da un apostrofo [es.: “quibu’” = “quibus”];
fusione di aferesi ed
enclisi [“usust”
= “usus est”]; associazione di
enclisi ed apocopi nell’enclitica successiva [“sanun” = “sanus” +
“ne” apocopato].
ne:
dipende dal verbo “sollicitor”,
inteso come “verbum
timendi”: da qui il “ne
+ cong.” perchè si teme che accada ciò che non si
vuole
alserit:
perf. cong. da “algeo,
es, alsi, ere, 2”
praefregerit:
perf. cong. da “praefringo
(prae + frango),
is, fregi, fractum, ere, 3”
instituere:
infin. esclamativo a cui il “-ne”
dà anche un tono interrogativo
Si
riferisce al figlio, che Micione è andato a cercarsi, perchè
l’ha adottato, e poi gli si è affezionato tanto da stare in
ansia per lui: Micione scopre quasi con stupore l’affetto
enorme che ha nel suo cuore per questo giovane che non è
neanche suo figlio e per il quale è disposto a preoccuparsi e
soffrire; l’”humanitas”
trova in lui un esempio assai valido di come l’uomo si
faccia coinvolgere dai sentimenti per gli altri.
Nota
lo Schiesaro: I personaggi di Demea e Micione agitano l’uno contro l’altro temi
che sono rilevanti per la società romana di allora:
tradizionalismo ed apertura, parsimonia e lusso, legalità
formale ed ideali di giustizia, educazione permissiva ed
educazione tollerante.
Is:
nella traduzione il pronome dimostrativo è risolto in
relativo
studio:
compl. di qualità
La
città in cui si svolge l’azione della commedia è Atene
agere...habere:
infin. storici
maiorem:
il comparativo perchè i figli sono due
parvolo:
= “parvulo”, diminutivo di “parvus”
All’affermazione
di un ideale di educazione liberale ed umana,
nota il Casali, ed
alla creazione di un personaggio che si presentasse non solo
come il banditore di questo ideale, ma come un esemplare di
umanità aperta, cordiale, sensibile, Terenzio era indotto,
oltre che dalla sua indole, dai suggerimenti che gli venivano
dall’ambiente colto e raffinato nel quale viveva (il Circolo
degli Scipioni), dove i valori della tradizione romana si
fondevano, attraverso la mediazione di filosofi e filologi
greci, con l’eredità spirituale dell’Ellenismo, ed i modi
del vivere si conformavano ad una nuova concezione dell’uomo
come libera personalità aperta ad ogni esperienza di vita, di
pensiero e di arte, capace quindi di intendere meglio se
stessa e gli altri, e perciò più disposta alla tolleranza ed
alla comprensione.
Secondo
l’inglese Goldberg
il monologo di Micione
avrebbe fiunzione simile a quello della “Sàmia”
di Menandro, lacunosamente giunto fino a noi. In questo,
il giovane Moschione racconta d’esser stato allevato dal
padre adottivo con grande liberalità, cioè nel modo in cui
Micione ha tirato su Eschino. Ma mentre rende di sè l’immagine
complessivamente positiva di un giovane bene educato, insinua
nello spettatore il dubbio che non sia tutto oro quello che
luccica: c’è un accenno fuggevole al fatto che ha messo
incinta la figlia del vicino, che poi sposa (proprio come
farà Eschino). E poi si avverte, nell’enumerazione
compiaciuta dei meriti personali, l’egocentrismo del figlio
di papà. Sono segnali sufficienti a far dubitare della
positività del personaggio, a inaugurare l’attesa di un
esito della sua azione che potrebbe anche risultare, come di
fatto risulterà, deludente. Nelle due commedie, dunque, il
monologo serve a preparare il rovesciamento del finale, che in
parte è a sorpresa, in parte prevedibile a partire da alcuni
indizi.
Cioè
quello conseguente alla “patria
potestas”, che Micione ha assunto adottando Eschino
clanculum:
diminutivo parlato di “clam”
e l’accusativo è comune nei comici
E’
il sentimento di vergogna che trattiene dal fare il male,
mentre “liberalitas”
è la nobiltà del cuore che nasce da un’educazione saggia.
E’ da notare che Terenzio ha messo uno vicino all’altro
due termini che hanno la stessa radice: “liberalitate” e “liberos”,
ad indicare che una delle prerogative del figlio è proprio di
essere un uomo libero e nobile, a differenza dei servi.
Il
frequentativo “clamito”
esprime sia l’iterazione sia l’intensità delle rozze
proteste del fratello villano
sumptum
suggeris:
allitterazione
In
effetti,
afferma il Tumscitz,
nel finale ambiguo e problematico Micione rivelerà i limiti del suo
carattere e della sua ideologia progressista. Fin da questo
monologo iniziale egli non convince del tutto. La sua
accondiscendenza al limite del permissivismo, la rinuncia alla
“patria potestas” per un rapporto paritario basato sull’”amicitia”
dovevano lasciar perplesso lo spettatore romano, il quale,
alla fine della commedia, non si sarebbe poi stupito che,
seguendo questi precetti, si potesse andare in rovina.
I
due termini indicano il primo l’equità giuridica, il
secondo la norma morale. Ora, se è vero che Dèmea con la sua
severità applica la norma giuridica della “patria
potestas”, non tiene conto però di altri principi che
rientrano nella concezione dell’”humanitas” sostenuta da Terenzio.
Secondo
il Barchiesi, la nascita di un’ideologia dell’imperialismo romano è un dato
importante nell’età di Terenzio: si fa luce l’idea che il
potere è più efficace se si fa amare, quindi se è temperato
ed illuminato.
Si
consideri la consonanza delle idee di Terenzio con la
pedagogia più attuale; ma queste teorie in Roma dovevano
risuonare assai pericolose, perchè mettevano in discussione
il principio dell’educazione severa e dell’autorità
paterna.
La
triplice anàfora del pronome scandisce l’esposizione del
modello pedagogico di Micione, per il quale “dominus”
e “pater” non
coincidono, ma si oppongono. Questa contrapposizione era
piuttosto rivoluzionaria nel mondo romano.
Entra
in scena Demea. Provenendo dalla campagna è passato per il
foro, dove ha saputo del rapimento della cortigiana da parte
di Eschino e per questo è infuriato.
E’
una comune formula di saluto.
“ADELPHOE”,
vv. 81/154
ATTO I - SCENA II
Metro:
senari giambici
Il
dissenso di Demea con Micione
DEMEA:
Oh, proprio a proposito! Vado in cerca proprio di te.
MICIONE:
Perché sei preoccupato?
D:
E me lo domandi dal momento che a noi è (un figlio come)
Eschino? Perché io sono preoccupato?
M:
Non dicevo che così sarebbe finita? Cosa ha combinato?
D:
Che cosa ha combinato egli che non si vergogna di nulla, non
teme nessuno né crede di essere soggetto a nessuna legge?
Infatti non considero ciò che (da lui) è stato commesso prima:
che cosa di vergognoso non ha combinato poco fa!
M:
Di che cosa mai si tratta?
D:
Ha sfondato una porta e si è precipitato a forza in casa di
altri; ha battuto fino ad ucciderli il padrone e tutta la
servitù; ha portato via la donna che amava: tutti gridano che è
stata commessa un’azione molto vergognosa.
Quanti,
o Micione, me lo hanno detto mentre venivo qua!
(La
notizia) è sulla bocca di tutti.
Insomma,
se bisogna portare un esempio, non si accorge che suo fratello
bada agli interessi di casa e vive in campagna modestamente e
frugalmente?
Quello
(non ha commesso) nessuna azione simile a questa.
E
quando dico queste cose a lui, le dico a te, o Micione: (sei
proprio) tu (che) lasci che egli si guasti.
M:
Non c’è mai nulla più ingiusto di un uomo privo di
esperienza, il quale non considera ragionevole se non quello che
ha fatto lui.
D:
A che cosa (mira) questo (discorso)?
M:
Perché tu, o Demea, giudichi male queste cose.
Non
è un delitto, credi a me, che un giovane frequenti le donne e
beva: (no), non è (delitto); né (è delitto) sfondare una porta.
Queste
cose se non le abbiamo fatte né io né tu, (fu) la povertà (che)
non ci permise di farle.
E
tu ora ti fai un merito di ciò che allora facesti costretto dalla
miseria?
Non
è giusto; infatti se noi avessimo avuto i mezzi per farlo, l’avremmo
fatto (anche noi).
Anche
tu, se fossi (veramente) un uomo, permetteresti a quell’altro
tuo (figliuolo) di fare (lo stesso) ora finché l’età glielo
permette piuttosto che farlo poi, in età non adatta, quando ti
avrà portato a seppellire dopo aver (a lungo) atteso (la tua
morte).
D:
Per Giove, tu, (che sei) uomo (di giudizio), mi fai diventare
pazzo! Non è forse vergogna che un giovane faccia queste cose?
M:
Ah, dammi retta, non infastidirmi spesso con questa questione:
mi hai affidato tuo figlio perché lo adottassi.
Ormai
è diventato mio. Se sbaglia in qualche cosa, o Demea, sbaglia a
spese mie; in ciò io sopporto la maggior parte (del danno).
(Se)
banchetta, (se) si ubriaca, (se) odora di profumi, (spende) del
mio; va a donne: gli sarà dato da me denaro finché ne avrò la
possibilità; quando poi non ne avrò le possibilità, forse gli
si chiuderà in faccia l’uscio.
Ha
rotto una porta: sarà riparata; ha strappato un vestito: sarà
risarcito; e, grazie agli dei, ho il denaro per farlo, ed ancora
non è scarso.
Insomma
o smettila o dammi un giudice, chiunque vuoi: dimostrerò che tu
in questa faccenda sbagli di più.
D:
Ahimè! Impara ad essere padre da quelli che sul serio sanno
(esserlo).
M:
Tu sei padre per (vincolo di) natura, io per i (buoni)
consigli.
D:
Tu coi tuoi consigli (gli fai) qualcosa (di buono)?
M:
Ah, se continui, me ne andrò.
D:
Così tratti tu?
M:
Dovrei forse sentire tante volte la tua musica?
D:
(Eschino) mi sta a cuore.
M:
Anche a me sta a cuore. Ma, o Demea, ciascuno di noi si prenda
cura della parte che gli spetta: tu dell’uno, io egualmente dell’altro;
infatti il prenderti cura di entrambi è come un ridomandarmi quel
(figlio) che mi hai dato.
D:
Ah, Micione!
M:
Così mi sembra.
D:
Che cosa si deve dire? Se ti piace proprio questo, scialacqui,
sperperi, vada alla malora;
(la cosa) non mi riguarda per nulla.
Se
ormai una sola parola
d’ora in poi...
M:
Di nuovo, Demea, ti adiri?
D:
O non credi? Ti richiedo forse (il figlio) che ti ho affidato?
Mi dispiace; non sono poi un estraneo; se mi oppongo... ecco,
smetto (di parlare).
Vuoi
che mi occupi solo di uno: mi occupo (di uno); e ringrazio gli dei
che è così come voglio (che sia).
Il
tuo, invece, se ne accorgerà più tardi... no, non voglio dire
contro di lui (parole) troppo dure.
M:
Ciò che egli dice non è una cosa da nulla, ma nemmeno è tutta
la verità: tuttavia un pò mi dispiacciono queste (sue parole);
ma non ho voluto fargli capire che ne soffro.
Quell’uomo,
infatti, è (fatto) così: ogni volta che voglio calmarlo, mi ci
metto di punta e lo smonto, tuttavia egli a stento sopporta
pazientemente (le mie parole); se però io facessi crescere o se
anche assecondassi la sua furia, senz’altro impazzirei con lui.
D’altra
parte Eschino in questa faccenda un pò di torto verso di noi ce l’ha.
Quale
è la cortigiana di cui egli non è stato l’amante o a cui non
abbia dato qualche (dono)?
Infatti,
poco fa [credo che si sia ormai stancato di tutte] mi ha detto di
voler prendere moglie.
Speravo
che fossero ormai sbolliti (gli ardori della) giovinezza: ero
contento.
Invece,
eccolo (cominciare) da capo!
Ma,
qualunque cosa ci sia, voglio vederci chiaro ed incontrarmi con
lui, se si trova nel foro.
Del carattere e delle
idee di Demea, riassume il Piazzi, ci ha informato Micione nel monologo precedente; quindi non ci
stupiamo nel vederlo irrompere in scena tutto imbronciato
verso il fratello che accusa della pessima educazione di
Eschino, uno scavezzacollo senza freni inibitori. Ecco l’ultima
bravata del giovane, di cui Demea ha appena saputo: è entrato
in casa altrui sfondando la porta, ha picchiato a sangue il
padrone ed i servi e ha rapito la donna che amava. Un’azione
da codice penale, anche se poi si verrà a sapere che il luogo
lasciava a desiderare e la donna era una “meretrice” che
Eschino rapiva per conto del fratello Ctesifone, innamorato di
lei al punto da arruolarsi mercenario, se non l’avesse
sposata. Micione minimizza però la gravità dell’accaduto: il
passo è fondamentale perchè contiene un’implicita
definizione di “humanitas”, intesa come capacità di
comprendere con indulgenza e tolleranza le esigenze altrui
diverse dalle proprie, senza assolutizzare il proprio punto di
vista. Ma, uscito Demea, Micione esprime in un soliloquio
la sua preoccupazione. Da buon filosofo egli ha il senso del
relativo, della poliedricità e complessità delle cose umane,
dunque sa bene che dopo tutto una parte di ragione ce l’ha
anche Demea. Il ragazzo qualche pensiero glielo sta dando da
tempo: non sarà che la pedagogia permissiva è buona solo in
teoria?
Sempre
sul concetto di “humanitas” ai tempi
terenziani così continua l’Alfonsi:
La consapevolezza
individuale e morale del loro compito direttivo, come loro “dovere”
anzi, fu nei Romani rafforzata, qualche anno dopo la morte di
Terenzio, da Panezio, il filosofo mediostoico. Panezio crea un’etica
che è un’estetica di vita: per cui ognuno deve realizzare
in sè il proprio impegno morale. Ogni uomo diventa così una
“persona”, quasi una maschera nobile di dignità, e l’insieme
delle persone un’umanità eletta che deve attuare nel mondo
l’ideale ellenico della “filantropìa”. Nasce così nel
circolo scipionico il concetto di “humanitas”, destinato a
tanto alto avvenire, per cui il “civis Romanus” si
trasforma in “homo humanus”. E’ idea che implica non
solo la “filantropìa” greca, ma anche giustizia verso gli
altri e solidarietà con i propri simili in nome di un comune
limite e di una comune dignità. Di quest’idea è largamente
permeata tutta la commedia di Terenzio; da questa “humanitas”
nasce in Roma la satira morale di Lucilio, la prima
autobiografia di uomini politici di Rufo, anche la reazione
polemica di Catone che contrappone all’ideale umanistico del
circolo scipionico uno suo.
Bene
sintetizza questo concetto in Terenzio lo Schadewaldt:
Ciò che gli uomini sulla scena sentono e fanno, lo spettatore sente e
fa con loro, e quello che dicono sembra provenire dalle
profondità dell’animo ed è rivolto soprattutto al suo
cuore.
dissignavit: il
verbo, secondo il Del
Corno, ha il doppio valore di compiere un’azione
straordinaria, nel bene come nel male: l’esclamazione di
Demea ha un tono amaramente ironico.
in effetti Demea non dice che si tratta di una casa equivoca
e, quindi, il reato ha l’apparenza d’essere ben più grave
La
difesa di Micione, dice il Barchiesi, ricalca la pacatezza illuminata e filosofica che abbiamo imparato a
conoscere. In questa flemma c’è qualcosa di sorprendente,
perchè le novità portate da Demea non sembrano irrilevanti
scappatelle, e certamente il pubblico trova un pò leggerina
questa pronta assoluzione
Un’interpretazione suggestiva che si attaglia bene all’intera
commedia ce la offre il Lentano:
Nella commedia latina il
ratto o l’esposizione delle fanciulle, il conseguente stato
di cortigiana o schiava, l’agnizione finale simboleggiano
tre fasi di un rito di passaggio dall’adolescenza alla
condizione adulta, rispettivamente: la separazione anche
violenta (rapimento, naufragio) dallo statuto di partenza; il
momento di “marginalità”, di sospensione o rovesciamento
delle regole vigenti, in cui la fanciulla sperimenta una
condizione (meretricio, schiavitù) opposta a quella alla
quale si viene preparando; il momento del reingresso,
segnato dall’agnizione, nella società ad un livello
qualitativamente superiore (matrimonio). La commedia, quindi,
rispecchierebbe anche il passaggio del maschio dalla fase
adolescenziale e presociale della marginalità a quella dell’integrazione
nella società degli adulti.
leggiamo in un saggio del Vitali:
Che il problema del
metodo da seguire nell’educazione dei figli, problema antico
e moderno e sempre attuale, agitasse gli spiriti dei
contemporanei di Terenzio non c’è naturalmente da dubitare;
e c’è da credere anzi che esso fosse, più che in qualunque
altro luogo, dibattuto
in Roma, ove la “patria potestas” era tanto vasta e
rigida, e, più che mai, nel tempo di Terenzio, tempo già
ormai nuovo rispetto ai primi cinque secoli della vecchia età
repubblicana, per effetto appunto delle nuove condizioni di
vita del nascente impero. Ad una gioventù che aveva dato
prove sì mirabili su tanti campi di battaglia, allargando l’orizzonte
politico romano non soltanto oltre l’agreste Lazio ma
anche oltre le Alpi e oltre i mari, a una gioventù che aveva
espresso dal suo seno comandanti supremi, per non citare
altri, quale il poco più che adolescente Scipione l’Africano,
l’inflessibile rigore della patria potestà doveva ormai
apparire assurdo; e le affermazioni di diritto d’emancipazione
dovevano sonare alte, perentorie, insistenti.
si notano: asìndeto (mancanza di congiunzioni), “climax” (un crescendo) e allitterazione (della “p”)
è una formula di giuramento
inizia qui una serie di aposiopesi (interruzione deliberata
della frase) da parte di Demea per esprimere sdegno,
nervosismo, minaccia
il pubblico saprà che Eschino ha agito per conto del fratello
solo successivamente e, quindi, al momento non ha ragione di
dubitare che l’elogio di Demea riguardo a Ctesifone sia
fondato
Micione, lasciato solo, riflette sul suo modello educativo,
della cui positività rimane convinto, anche se le ultime
vicende insinuano nel suo animo qualche dubbio e perplessità
c’è in queste parole di Micione il riconoscimento della
poliedricità delle vicende umane, dell’impossibilità di
definire con un giudizio netto ed univoco il senso degli
avvenimenti o la complessità di un comportamento
finchè era presente Demea, Micione ha dissimulato la sua
preoccupazione per la condotta di Eschino, ora però che è
solo manifesta la sua inquietudine e forse ha qualche dubbio
sulla bontà di un credo pedagogico basato sulla fiducia e
sulla tolleranza
“ADELPHOE”,
vv. 636/712
ATTO IV - SCENA V
Metro
636-637 settenari trocaici; 638-678 senari giambici; 679-706 settenari
trocaici; 707-711 settenari giambici; 712 ottonario giambico
Il
chiarimento di Eschino con Micione
MICIONE:
Fate come ho detto, Sostrata; io andrò da Eschino per fargli
sapere come si sono messe le cose.
Ma
chi ha bussato qui alla porta?
ESCHINO:
Per Ercole! E’ mio padre: è finita per me.
M:
Eschino...
E:
Che affari ha costui qui?
M:
...hai bussato tu a questa porta?
[Tace.
Perché non prendermi gioco di lui per un pò? Lo merita, dal
momento che non ha mai voluto confidarmi questo (suo segreto)].
Non
mi rispondi nulla?
E:
In quanto a me, per quel ch’io sappia, non (ho bussato) a
codesta (porta).
M:
Sicuro? Infatti mi domandavo con meraviglia che cosa tu avessi
a che fare qui.
[E’
arrossito: la cosa si mette bene].
E:
Per piacere, padre, dimmi, che cosa hai tu da fare in questa
casa?
M:
Per conto mio nulla. Poco fa mi ha trascinato qui dal foro un
amico perché lo assistessi (in una sua questione).
E:
Quale?
M:
Te lo dirò: abitano qui alcune povere donnette; tu non le
conosci; anzi so bene (che non le conosci); infatti sono venute ad
abitare qui da non molto tempo.
E:
E poi che altro c’è?
M:
C’è una ragazza con la madre.
E:
Continua.
M:
Questa ragazza è orfana del padre: il parente più stretto a
lei è questo mio amico: le leggi
le impongono di sposarlo.
E:
Per me è finita!
M:
Che c’è?
E:
Niente, bene, continua.
M:
Egli è venuto per portarsela via con sè; infatti abita a
Mileto.
E:
Eh! Per portar via con sè la ragazza?
M:
Proprio così.
E:
In nome del cielo, fino a Mileto?
M:
Si.
E:
Mi sento male. Ma esse, che cosa, che cosa dicono?
M:
Che cosa pensi che esse (possano dire)? Nulla davvero.
La
madre, però, ha inventato una storia, che cioè (alla ragazza) è
nato un figlioletto da un altro uomo, non so da chi, ma non ne ha
fatto il nome; (dice) che quello ha la precedenza e che (perciò
la ragazza) non deve essere data in moglie a questo (suo parente).
E:
Oh, bella!
Insomma, non ti pare questa una buona ragione?
M:
No.
E:
Perché no, di grazia? Forse, padre, costui se la porterà via
da qui?
M:
Perché non la dovrebbe portar via?
E:
Avete agito con troppa durezza e senza pietà, anzi, o padre, e
lascia che te lo dica, con troppa franchezza, (avete agito) in
modo sconveniente.
M:
Perché?
E:
E me lo domandi? Quali sentimenti insomma pensate che proverà
quell’infelice che è stato il primo a far l’amore con lei e
che, poveretto, forse l’ama ancora perdutamente, quando sotto i
propri occhi se la vedrà strappar via e portar lontano? Che
brutta azione, padre!
M:
Per quale ragione (dici) ciò? Chi gliel’ha promessa? Chi
gliel’ha data? A chi è andata sposa lei e quando? Chi ha dato
il consenso?
Perché sposò (una donna) destinata ad altri?
E:
Doveva forse ammuffire in casa una ragazza (come lei) in età
da marito attendendo finché questo suo parente venisse di là (da
Micione) qui (da lei)?
Queste
cose, caro padre, avresti dovuto esporre e sostenere.
M:
E’ proprio curiosa! Avrei dovuto parlare contro colui in
difesa del quale ero venuto come avvocato? Ma che ci importa di
queste cose, Eschino? O che interessi abbiamo con essi?
Andiamocene; ma che hai? Perché piangi?
E:
Ascoltami, padre, te ne prego.
M:
Eschino, ho udito tutto e so (tutto);
io ti amo davvero e perciò maggiormente mi sta a cuore (tutto)
ciò che fai.
E:
Vorrei che tu, o padre, finché vivrai, mi amassi così, per i
miei meriti, per come mi addolora moltissimo di aver commesso
questa mancanza e perciò provo vergogna davanti a te.
M:
Lo credo veramente; infatti conosco la tua indole onesta; ma
temo che tu sia troppo trascurato.
Insomma;
in quale città credi di vivere? Hai sedotto una ragazza che non
avevi il diritto di toccare. Questa (è) la prima colpa, (colpa)
grave, sì, tuttavia nella natura umana: l’hanno spesso
commessa anche altri (che pur sono) galantuomini.
Ma
dimmi un pò: dopo che l’hai commessa, hai forse considerato la
cosa in tutti i suoi aspetti? O hai forse pensato a ciò che
dovevi fare ed in che modo? (Hai pensato) come avrei potuto
saperlo, se tu stesso ti vergognavi di parlarmene?
E
mentre continuavi ad essere incerto, son passati dieci mesi.
Per
quanto almeno è dipeso da te, hai rovinato te, quella poveretta
ed il bambino.
Credevi
forse che gli dei avrebbero fatto tutto per te, mentre te ne stavi
a dormire?
E
che essa ti sarebbe stata condotta a casa, nella tua camera da
letto, senza che tu ti dessi da fare?
Mi
auguro che tu non sia allo stesso modo imprevidente (anche) nelle
altre cose. Sta’ tranquillo, la sposerai.
E:
Eh?
M:
Sta’ tranquillo, te lo ripeto.
E:
In nome del cielo, padre, (perché) ora vuoi prenderti gioco di
me tu?
M:
Io di te? Perché?
E: Non lo so: temo di più appunto
perché desidero così fortemente che sia vero (tutto) quello (che
dici).
M:
Va’ a casa e prega gli dei che ti venga in casa la moglie: va’.
E:
Che? Di già la moglie?
M:
Di già.
E:
Di già?
M:
Ma si, al più presto.
E:
Possano maledirmi gli dei tutti, o padre, se non è vero che io
ora ti amo più dei miei occhi.
M:
Che cosa? (Mi ami più) di lei?
E:
Quanto lei.
M:
Troppa grazia.
E:
Ebbene, dove è l’uomo di Mileto?
M:
Non esiste più, se ne è andato, si è imbarcato. Ma perché
non ti muovi?
E:
Va’, padre, pregali tu piuttosto gli dei; infatti so bene che
essi daranno tanto più retta a te in quanto sei molto più buono
di me.
M:
Io entro in casa a far preparare ciò che occorre: tu, se hai
giudizio, fa’ come ti ho detto.
E:
Che affare è questo?
Questo significa essere padre o essere figlio? Se fosse un
fratello o un amico, come potrebbe essere più compiacente verso
di me?
Dovrei non voler bene a lui, ad un uomo tale, dovrei non averlo
nel cuore? Oh! Appunto perciò con la sua indulgenza mi ha messo
addosso un grande scrupolo
che io possa per caso fare imprudentemente ciò che egli non
vorrebbe (che io facessi): sapendolo mi guarderò (dal farlo).
Ma
(perché) indugio ad entrare? (Forse temo) di far ritardare
proprio io le mie nozze?
Il rossore di Eschino è per Micione un segnale positivo:
indica che il giovane non si è aperto con il padre non per
paura, ma per pudore, per ritegno a dargli un dispiacere.
Analogo concetto in Menandro.
La legge ateniese a cui si allude era attribuita a Solone e
prevedeva che un’orfana fosse sposata dal parente più
prossimo: a questa stessa legge si fa riferimento anche nel
“Phormio”.
Ancora riferisce il Riverdito:
Venendosi qui a
scontrare la disumanità astratta del “ius” e la
praticità problematica dell’”aequum”, Terenzio, per
bocca di Eschino, attacca l’iniquità della rigida
applicazione di ciò che è legge, cioè il fatto che il
parente più prossimo voglia far valere il proprio diritto di
prelazione matrimoniale sull’orfana senza mezzi materiali,
in nome del sentimento di umanità e dei verdetti istintivi
del cuore.
Perchè il matrimonio fosse formalmente valido i genitori
avrebbero dovuto dare il loro consenso: Micione continua a
simulare di attenersi ad una linea di correttezza giuridica,
indifferente alle ragioni del cuore.
Garbarino:
Quando finalmente il giovane si decide a gettare la maschera, il padre
gli risparmia, con delicatezza e generosità, l’umiliazione
della confessione; anzi, proprio nel momento in cui l’emozione
del giovane culmina nelle lacrime, lo rassicura confermandogli
il suo amore.
A
questa scena cruciale della commedia, riferisce la Rampioni,
si è soliti annettere
un particolare significato in rapporto alle convinzioni
pedagogiche di Terenzio. Secondo alcuni, Micione non
intenderebbe fare una predica o una lezione al figlio, ma un
semplice esperimento per saggiare se esiste in lui il “pudor”,
il senso morale. A noi pare che dalle parole di Micione si
enucleino almeno tre imperativi ai quali secondo Terenzio
dovrebbe uniformarsi un’esistenza autenticamente morale: il
rispetto per ogni norma di convivenza civile, la confidenza
verso il genitore-amico, il dovere di rispondere delle
proprie azioni di fronte agli altri ed alla propria coscienza.
Questo, almeno in linea di principio.
Il Bo
dubita che Micione anticipi più di tanto le moderne vedute
pedagogiche: In realtà
Micione non lascia neanche che Eschino chieda il suo
intervento, interviene lui prima e provvede a tutto, diventa
lui il suo dio protettore, ma approfitta della circostanza e
dell’occasione propizia per farlo ragionare sui fatti,
fargliene trarre degli ammaestramenti per l’avvenire.
Eschino, rimasto solo davanti alla porta di casa, sta
riflettendo ad alta voce sul senso dell’esser padre e dell’esser
figlio.
Del
Corno: Nella commedia, e nell’esperienza della vita, in Grecia e soprattutto
a Roma, il padre rappresentava l’autorità più che la
solidarietà affettiva, offerta piuttosto dai fratelli e dagli
amici: di qui lo stupore di Eschino, pure assuefatto alla
tenerezza di Micione.
Micione con la sua indulgenza fa nascere in Eschino quasi un
senso di colpa, che si esplica nel timore di commettere
senza accorgersene qualcosa che il padre non voglia.
vv. 52 - 157
SIMONE:Poi, o
Sosia, dopo che egli uscì dall’adolescenza, appena che ebbe
modo di vivere con maggiore libertà (infatti prima come avresti
potuto conoscere o comprendere la (sua) indole quando l’impedivano
l’età, la soggezione, il maestro?).
SOSIA: Così è;
di quelle cose che fanno quasi tutti i giovani, (che) cioè
rivolgono l’animo a qualche occupazione, o allevare i cavalli, o
cani da caccia, o studiare i filosofi, egli nessuna ne coltivava
in modo particolare più delle altre, ma alla buona tutte quante;
e ne avevo piacere.
SO: Non a torto:
perchè penso questo che sopra ogni cosa è utile nella vita che
non (si faccia) alcuna cosa di troppo.
SI: Così era il
suo sistema di vita: sopportare e tollerare tutti di buon animo;
con chiunque si trovasse insieme accordarsi con essi, non
contrario ad alcuno: rispettare le loro inclinazioni, mai
mettendosi innanzi agli altri: sicchè facilmente ti guadagni
stima senza (destare) invidia e ti procuri amici.
SO: Si era fatta
una vita veramente saggia: invero al giorno d’oggi la
condiscendenza procura amici, la sincerità odio.
SI: Intanto tre
anni fa una donna emigrò da Andro (e venne a stare) qui nel
vicinato, costretta dalla povertà e dalla trascuratezza dei
parenti, di bell’aspetto e nel fiore dell’età.
SO: Ahi!, temo
che la donna d’Andro non ci porti qualche malanno.
SI: Dapprima
costei viveva onestamente, con privazioni e stenti, guadagnandosi
la vita con il filar la lana e con il tessere la tela.
Ma, dopo che le
si mise intorno uno che l’amava offrendole un dono, uno e poi un
altro, proprio com’è la natura umana proclive (a passare) dalla
fatica al divertimento, (ella) accettò la proposta: e poi iniziò
(a cercare) il guadagno.
Quelli che
allora la praticavano, per caso, come succede, vi condussero per
forza mio figlio, perchè stesse insieme con loro.
Ed io subito tra
me: "E’ preso di sicuro: l’ha avuta".
La mattina
osservavo i loro servi che venivano o andavano, (e) andavo
chiedendo: "Ehi!, ragazzo, dimmi, se ti piace, chi mai ieri
si trattenne con Criseide?", infatti questo nome avea quella
ragazza d’Andro.
SO: Capisco
bene.
SI: Fedro o
Clinia o Nicerato [allora quei tre insieme la praticavano]
(dicevano): "Ebbene, che ha fatto Panfilo?", "Che
ha fatto? Ha pagato la (sua) quota (e) ha cenato": io ne ero
contento.
Allo stesso modo
mi informavo un altro giorno (e) venivo a sapere che proprio nulla
si poteva attribuire a Panfilo.
A dire il vero,
lo credevo abbastanza provato ed un grande esempio di continenza;
infatti chi si trova a contatto con caratteri di tale natura senza
che tuttavia il suo animo si corrompa in tale pratica, puoi dire
che da sè costui già è riuscito a trovare la regola della sua
vita.
Da una parte
questo mi faceva piacere, dall’altra tutti ad una voce (ne)
dicevano ogni bene e si compiacevano della mia sorte, perchè
avevo un figlio fornito di tale carattere.
Che bisogno c’è
di parole? Cremete spinto da questa fama venne spontaneamente da
me, per offrire in moglie a (mio) figlio con una grossa dote la
sua unica figlia.
(La proposta mi)
piacque: detti la mia parola; questo è il giorno fissato per le
nozze.
SO: Che cosa
dunque si oppone perchè non si facciano?
SI: Sentirai.
All’incirca nei pochi giorni nei quali queste cose furono fatte,
Criside, questa (nostra) vicina, muore.
SO: Ben fatto!
Mi hai consolato: temevo da Criside qualche danno.
SI: In quella
casa allora (mio) figlio si trovava quasi sempre insieme con
quelli che avevano praticato Criside: insieme (con questi ne)
preparava il funerale: triste frattanto, di quando in quando
prorompeva in singhiozzi.
Ciò allora mi
piacque. Così pensavo: "Questo (ragazzo), per affetto d’una
relazione abbastanza breve, sopporta tanto intimamente l’amore
di costei: che cosa (farebbe) se egli amasse (veramente)? Che cosa
questo (ragazzo) farebbe per me (che sono suo) padre?".
Io credevo che
tutte queste fossero manifestazioni di un’indole affettuosa e di
un animo gentile. (Ma) perchè indugio con molte (parole)?
Io stesso anche,
per amore di lui, prendo parte al funerale, niente ancora
sospettando di male.
SO: Ahi!, che
cosa è questo (che vuoi dire)?
SI: Lo saprai.
Si porta fuori il cadavere: ci muoviamo. In questo mentre tra le
donne che là sono presenti scorgo per caso una fanciulla di
aspetto...
SO: Bella,
forse?
SI: ...e di un
volto, o Sosia, così modesto, così grazioso, che niente c’è
di superiore. Quella allora mi parve che si lamentasse più delle
altre: e poichè era d’aspetto dignitoso e nobile, più delle
altre, mi accosto alle ancelle (che l’accompagnavano), domando
chi sia.
Mi dicono che è
la sorella di Criside. (La notizia) subito mi colpì l’animo.
Ah, ecco! Questo
è quello (che non sapevo): di qui quelle lacrime, questa è (la
causa) di quella (sua) afflizione.
SO: Quanto temo
dove vada a finire!
SI: Intanto il
corteo avanza; lo seguiamo; arriviamo alla tomba: (la morta) è
posta sul rogo: si piange.
Frattanto questa
sorella che ho detto si avvicinò alla fiamma con molta imprudenza
con (suo) grande pericolo. A questo punto Panfilo sbigottito
rivela l’amore (suo che era) ben dissimulato e nascosto:
accorre, afferra la fanciulla a mezza vita; dice: "O mia
Glicera, che fai? Perchè vai a morte sicura?".
Allora lei,
così che facilmente avresti potuto riconoscere un amore divenuto
consuetudine, piangendo si abbandonò a lui più che
affettuosamente.
SO: Che (mi)
dici?
SI: Ritorno di
là sdegnato e mal sopportando (la cosa); ma non (c’era)
abbastanza ragione per rimproverarlo.
(Mi) avrebbe
detto: "Che cosa ho fatto? In che cosa ho mancato, o padre, o
che cosa ho commesso di male? Trattenni (quella fanciulla) che
volle gettarsi nelle fiamme: l’ho salvata".
Il ragionamento
è (sarebbe) giusto.
SO: La pensi
bene; infatti, se rimproveri colui che ha portato aiuto ad una
vita (in pericolo) che cosa farai a quello che abbia recato danno
o (fatto del) male?
SI: Il giorno
dopo venne da me Cremete gridando che aveva scoperto un’azione
indegna: (che cioè) Panfilo aveva come moglie codesta straniera.
(Eccomi) io con
ogni calore a smentire quel fatto: egli insiste nel (dire che è
tale il) fatto. Alla fine allora mi separo così da lui come se
dicesse di non dare più (sua) figlia.
SO: E allora tu
non rimproverasti tuo figlio?
SI: Neppure
questa (era) una ragione abbastanza forte perchè lo
rimproverassi.
SO: Come? Di
grazia.
SI: "Tu
stesso, o padre, hai posto un termine a queste cose: prossimo è
il tempo in cui io dovrò vivere secondo il volere altrui:
pertanto lascia che ora io viva a mio modo".
SO: Quale
ragione di rimproverarlo allora è rimasta a te?
SI: Se per causa
d’un capriccio non vuole prender moglie, tale colpa da parte sua
sarà da punirsi per prima.
vv. 267 - 300
PANFILO: Chi mai
parla qui? Ti saluto, Miside.
MISIDE: Oh,
salve, Panfilo.
P: Che fa (Glicera)?
M: Me lo
domandi? Spasima nei dolori (del parto) e per questo, poveretta,
è in gran pena, perchè già le nozze furono stabilite per questo
giorno.
Ora teme questo,
che tu l’abbandoni.
P: Io potrei
pensare una simile cosa? Io permetterei che sia ingannata per
causa mia quella poveretta che mi ha donato il suo cuore e tutta
la sua vita? Che io ebbi per moglie cara al mio animo sopra ogni
altra cosa, io permetterei che il suo cuore educato ed allevato al
bene ed al pudore, costretto dal bisogno, si avesse a mutare? Non
lo farò mai.
M: Non temerei
se (ciò) fosse posto solo in te; ma temo che tu possa sopportare
la violenza.
P: Mi credi
dunque così indifferente, anzi così ingrato o disumano o
crudele, che nè la lunga relazione nè l’amore nè il
sentimento dell’onore mi commuovano nè mi consiglino a
mantenere la fede data?
M: Questo solo
io so: che costei si è ben meritata che tu sia memore di lei.
P: Che sia
memore (di lei)? O Miside, Miside, ancora mi restan scritte nel
cuore le parole che Criside mi disse riguardo a Glicera.
(Ella) già
quasi morente mi chiama; accorsi; voi eravate poco lontano, noi
soli.
Comincia:
"O mio Panfilo, tu vedi la sua bellezza e la sua età; nè ti
è nascosto quanto ora quelle sue (qualità) le siano pericolose
per difendere l’onestà e le sostanze. Quindi per questa destra
prego te ed il tuo genio, ti scongiuro per la tua lealtà e per l’abbandono
di lei (in cui costei si trova) che tu non allontani nè rigetti
costei da te. Se ti ho amato come un fratello germano, se lei fece
sempre il massimo conto solo di te, se ti fu obbediente in tutte
le cose, a costei ti dò come marito, come amico, tutore, padre:
ti affido questi miei beni e li raccomando alla tua onestà".
Pone (la mano
di) costei nella (mia) mano; subito dopo la morte la porta via.
Io presi (quella
mano): conserverò ciò che (da lei) ho accettato.
M: Così per lo
meno spero.
P: Ma perchè ti
allontani da lei?
M: Vado per la
levatrice.
P: Fa’ presto.
E... hai capito? Guardati dal dire una parola intorno alle nozze,
perchè non si aggiunga alla malattia anche questa (disgrazia).
M: Starò
attenta.
vv. 796 - 819
CRITONE: (Mi) è
stato detto che in questa piazza ha abitato Criside, colei che
preferì procurarsi qui ricchezze disonestamente piuttosto che
vivere povera ma onesta, nella sua patria.
Per la sua morte
quei (suoi) beni secondo la legge sono toccati a me.
Ma vedo persone
a cui potrò chieder notizie. Buongiorno.
MISIDE: Per gli
dei, chi vedo! Non è costui Critone, bis-cugino di Criside?
E’ lui.
C: Salute, o
Miside.
M: Sii il
benvenuto, o Critone.
C: E così...
Criside... ma!
M: Ha gettato
(in grande dolore), per Polluce, anche noi poverette.
C: E voi che
(fate)? In qual modo qui (vivete)? (State) abbastanza bene?
M: Noi? Così e
così. "Come si può", dicono, quando non è lecito dire
"Come vogliamo".
C: Glicera che
fa? Ha già trovato qui i suoi genitori?
M: Volessero gli
dei!
C: Non ancora
dunque? Non con buoni auguri sono venuto qui (allora); perchè,
per Polluce, se avessi saputo questo, mai avrei messo qui il
piede. Sempre costei (Glicera) si disse che era sorella di quella
(Criside), e (come tale) è stata considerata; (giustamente ora)
possiede le cose che furono di quella. Ora, far liti io straniero,
quanto codesto per me sia facile e utile lo dicono gli esempi
degli altri. Nello stesso tempo penso che già lei abbia qualche
amico e protettore: infatti partì di là già quasi grandicella.
Mi chiamino pure
imbroglione, che vado a caccia di eredità, pezzente: ebbene non
mi piace privar di tutto costei.
DAVO: Oh, bravo,
straniero!
M: Per Polluce,
o Critone, conservi l’antico (carattere).
C: Conducimi da
lei, poichè sono venuto qui, che la veda.
M: Volentieri.
D: Li seguirò:
non voglio che mi veda il vecchio in questo momento.
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