L'humanitas

 

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Menandro

In età ellenistica il vero erede di Euripide è Menandro.

L'uomo sa governarsi secondo il proprio "nous" e il proprio "tropos", eppure il suo destino, ineluttabile e misterioso, appare in balia della "tyke": abbandonato degli dei, vive in un mondo che gli è incomprensibile.

L'uomo menandreo si caratterizza per una sua raffinata spiritualità, segno di un nuovo e più maturo umanesimo. L'unicità sta proprio nel suo essere "uomo" e non nell'appartenere a questa o a quella razza.

"In nome del cielo chi è legittimo e chi è bastardo a questo mondo, se siamo tutti uomini?"

L'esemplare domanda, rivolta da Moschione al padre, nella Samia, ricalca il nuovo spirito egualitario, prospettando un nuovo modo di vivere, fondato sulla solidarietà e sulla rivincita all'egoismo.

In questo mondo, in cui il dio interviene sempre meno, anche Cnemone giungerà a scoprire che "ognuno ha bisogno degli altri", ammettendo :

(Dyscolos, vv.713 e segg.)

"In una cosa mi sono sbagliato, forse, nel credere che al mondo ero l'uomo a cui fosse possibile dire: - basto a me stesso e mai non verrà il giorno ch'io abbia da chiedere nulla a nessuno. Ma ora lo vedo, la vita può avere una fine improvvisa che non si lascia prevedere, ed io mi sbagliavo in questo. Perché bisogna che ci sia, e che tu l'abbia vicino, chi possa all'occorrenza darti aiuto. Ma, per Efesto, fino a tal punto ero smarrito! Nel vedere come la gente vive, e ciascuno a suo modo, e i calcoli e le ragioni che sanno trovare ogni volta che c'è da fare un guadagno, io pensavo che nessuno potesse mai voler bene a un altro al mondo, ed era questo il mio scoglio."

(Trad. C.Diano)

Anche il giovane Sostrato convincerà il padre che:

(Dyscolos, w.784 e segg.)

"La ricchezza! Parli di questo! È cosa che non sta ferma...Perciò io dico che finché sei tu che ne disponi, devi usarne da uomo generoso, e soccorrere tutti, fare in modo che per opera tua quanti più t'è possibile non sentano che vuol dire il bisogno. È cosa da immortali, e se un giorno ti trovassi davanti a un rovescio, quel che hai fatto per gli altri, lo faranno anche gli altri per te. Vale di più, e quanto, un amico che hai davanti agli occhi, che non una ricchezza che rimane nascosta e che tu tieni sotterrata e sepolta."

La filosofia: lo stoicismo

Nell'età ellenistica le nuove filosofie non operano più come centri di ricerca, fortemente ancorati alla realtà umana e sociale della "pòlis", con preoccupazioni teoriche e insieme politiche e in modo organico all'interno della società.

In Platone era stata fortemente avvertita la preoccupazione per la vita dello Stato, tanto che nel 5° libro della Repubblica si discuteva a lungo dei governanti filosofi, definiti anche salvatori; la salvezza era riposta soprattutto nell'unità di intenti e nella pratica della giustizia.

Aristotele avvertiva la stessa esigenza, sottolineando, inoltre, la necessità di salvaguardare la Costituzione dai mutamenti intemi e dalle corruzioni.

Nella nuova temperie spirituale dell'Ellenismo, il fine dell'uomo non viene più riposto nel servire la patria, dalla quale trae la ragion d'essere e gli elementi fondamentali del suo "sentirsi" persona: il problema della salvezza, della felicità si interiorizza e si fa sempre più inerente al destino dell'uomo singolo.

In tal senso Epicuro esalta particolarmente la "filìa", mentre lo stoicismo propone una via più aspra e combattiva.

Pur nel suo rigorismo morale, lo stoicismo antico si anima di forte afflato religioso nel famoso "Inno a Zeus" di Cleante:

"Altissimo fra gli immortali, Dio onnipotente in eterno. Signore che hai molti nomi, Zeus principio del mondo, che tutto governi con legge, sia tu bendetto!..... O potente, nessuna opera si compie senza di te sulla terra, né sotto la divina volta del cielo, né sul mare, se non le azioni che nella loro demenza compiono i malvagi.

Ma Tu anche le cose vane sai rendere armoniose e nell'informe puoi mettere ordine: dunque, per grazia tua, diventa bello ciò che è odioso nel mondo. In uno, infatti, hai adattato tutto il bene col male, così che diventassero insieme l'unica ragione eterna del tutto, che schivano sgomenti quanti mortali sono malvagi. Sventurati! che ingordi di beni non vedono, non odono la comune legge di Dio: e a questa se ubbidissero, avrebbero saggezza e vita felice....Ma tu Zeus... gli uomini salva dalla loro lacrimosa ignoranza.... e concedi il senno fiducioso con cui governi il mondo con giustizia".

(Trad. G. Gaetaniello)

In quest'inno Cleante esprime "i suoi sentimenti più intimi: l'entusiasmo di chi scorge Dio dappertutto....il senso della debolezza e della dignità dell'uomo; la compassione per gli uomini che vivono nelle tenebre e non vogliono vedere la luce" (G. Perrotla). Pur nei modelli di vita assai diversi, l'epicureismo e lo stoicismo assolvono alla stessa funzione di guida spirituale all'interno di una società in cui le antiche certezze vanno scomparendo. Nessuna meraviglia, quindi, se entrambe le scuole saranno duramente combattute e sconfitte dal Cristianesimo, fin dal suo sorgere. L'uomo antico ormai ha percorso tutte le strade ed ha acquisito definitivamente alcuni valori e, primo fra tutti, il nuovo senso dell'umano, che è senso "umano e umanistico" (B.Snell). In tale "areté" rientra in primo luogo un giusto atteggiamento nei confronti del prossimo: non solo la giustizia, antica virtù ellenica, ma anche la spontanea propensione ad aiutare gli altri. Questo diviene l'elemento essenziale dell'umanità, considerata la virtù necessaria a tutti gli uomini" (Pohlenz).

Il Romanzo

Anche se in forma tutt'altro che impegnata il Romanzo greco riprende e rinnova molti spunti della letteratura classica ed ellenistica. In un mondo dominato dalla "tyke" il romanziere si sforza di mettere bene in luce la virtù, la dedizione, la disarmata innocenza dei suoi eroi. Ogni romanzo, che ha ereditato non poco dall'umanizzazione dei personaggi e dall'anelito esoterico di Euripide, si apre e si chiude all'insegna dell'amore, il nuovo centro dinamico capace di dare ordine e significato nel caos della vita, abbandonata a se stessa.

''Cosi l'uomo scopre una nuova immagine di sé, certo intima e privata, ma non meno dotata di forza e di seduzione. E la sua fortuna è tale che dura ancora oggi; ancora oggi i suoi eroi, una sorta di cavalieri "senza macchia e senza paura" rappresentano un punto di riferimento costante nella letteratura popolare". (L. Barbero).

Terenzio

II cosmopolitismo stoico trapassa nel mondo romano di Terenzio che, pur rifacendosi alla Commedia Nuova, "materiò la visione menandrea dell'uomo di una sensibilità aperta e semplice, che è l'aspetto più fiducioso della sua anima di cittadino romano" (O. Bianco). L’"humanitas" terenziana non è solo la semplice traduzione del termine greco filantropia, non è solo interesse per l'altro, ma anzi più profonda apertura verso i propri simili, nella coscienza della comune natura umana. Terenzio sceglie "nodi duri" della vita sodale e li presenta in una situazione iniziale di incomunicabilità: il seguito della vicenda consisterà nel creare la comunicazione tra i personaggi, nel far riflettere, spiegare. In questo senso il suo è il teatro della "comunicazione" inteso come il valore più alto della cultura. Questi nuovi valori culturali e sociali si andavano già affermando in pieno II sec., all'interno del Circolo Scipionico, ma solo Terenzio riuscì a dare loro un'intensità e una formulazione emblematica, che è sintetizzata nel celebre verso:

"Homo sum: humani nihil a me alienum puto" (Heaut.v.77)

Citato da Cicerone e da Seneca, il verso piacque anche ai Padri della Chiesa (Ambrogio, Agostino), che videro in esso esaltata la fratellanza di tutti gli uomini.

All'iniziale diffidenza del vicino:

Men. "Chreme, tantumne ab re tuast oti tibi aliena ut cures ea quae nil ad te attinent?"

(vv. 75-76)

Cremete contrappone la disponibilità, l'interessamento, l'aiuto operoso:

"Ne lacruma atque istuc, quidquid est, fac me ut sciam:

ne retice, ne verere, crede inquam mihi;

aut consolando aut consilio aut re iuvero"

(vv. 84-86)

L'amicizia vera è nell'aiuto morale (nota l'allitterazione consolando-consilio) più che in quello materiale (re), è conforto, attenzione all'altro, capacità di ascoltare:

Men. "Scire hoc vis?               Chr. Hac quidem causa qua dixi tibi.

Men. Dicetur.

Chr. At istos rastros interea tamen

adpone, ne labora.

Men. Minime                           Chr. Quam rem agis?

Men. Sine me vocivom tempus ne quod dem mihi

laboris.

Chr. Non sinam, inquam.                             Men. Ah! Non aequom facis.

Chr. Hui! Tarn gravis hos, quaeso?             Men. Sic meritumst meum.

Chr. Nunc loquere"

(vv. 84- 92)

La soluzione di tanti drammi familiari e personali sta nella capacità di correggersi e aprirsi al dialogo, nella confidenza:

Chr. "Ingenio te esse in liberos leni puto,

et illum obsequentem siqui' recte aut commode

tractaret. Verum nec tu illum sati' noveras

nec te ille; hoc qui fit? Ubi non vere vivitur"

Tu illum nunquam ostendisti quanti penderes

nec tibi illest credere ausu ' quae est aequom patri.

Quod si esset factum, haec nunquam evenissent tibi.

Men. Ita res est, fateor: peccatum a me maxumest. "

(vv. 151-158)

Questi versi toccano con grande finezza un motivo di perenne attualità: la difficoltà che gli uomini incontrano nel comunicare, nel vivere con sincerità, vere vivere, nella franchezza e nella tolleranza.

In un'epoca in cui questi valori sembrano così distanti e irraggiungibili, il teatro terenziano può "rompere le barriere che separano gli uomini, sostituire l'incomprensione con la confidenza: ecco cosa ci suggerisce la sapienza terenziana". (Bettini)

Cicerone

Ispirate allo stesso ideale dell'"humanitas", non vanno, altresì, dimenticate le riflessioni di Cicerone sul tema dell'amicizia: "Ego vos hortart tantum possum, ut amicitiam omnibus rebus humanis anteponatis.......Quid dulcius, quam habere, quicum omnia audeas sic loqui ut tecum? ....Nam et secundas res splendidiores facit amicitia, et adversas, partiens communicansque, leviores.

Quoniam res humanae fragiles caducaeque sunt, semper aliqui anquirendi sunt quos diligamus et a quibus diligamur; caritate enim benevolentiaque sublata, omnis est e vita sublata iucunditas. " (Laelius, V,17; VI,22; XXVII, 102)

Cicerone "non solo ha sempre sulle labbra l'"humanitas", ma la realizza in concreto nella sua vita. All'aristocratico paneziano subentra per vero con Cicerone, che era homo novus, la "persona colta"; ma questo homo politus è l'uomo fornito d'una nobiltà ideale, che sviluppa tutte le virtualità insite nella sua natura, realizzando un altissimo ideale umano: egli padroneggia tutta la cultura intellettuale della sua epoca, ha una viva sensibilità per le scienze e il gusto del bello, possiede garbo, tatto, cortesia, l'ironia socratica e l'umorismo; la persona ben curata come pure la disinvoltura con cui si muove in società e le buone maniere lo rivelano uomo raffinato: ma, soprattutto, unisce a queste doti l'elevatezza dei sentimenti e una mirabile educazione del cuore, una benevolenza verso il prossimo che scaturisce dall'intimo, lo spinge ad aiutare gli altri disinteressatamente."

Certamente pecca di esagerazione questo ritratto che Max Pohlenz ha tracciato di Cicerone, ma ha comunque il merito di indicare lo spazio "morale", l'ideale in cui ambisce inscriversi la sua opera.

"Nessun altro concetto ciceroniano è forse più vitale e urgente di questo e poco importa che l'uomo Cicerone non sia sempre stato all'altezza di questa sua teorizzazione. Cosa vuoi dire in concreto? Vuoi dire tolleranza e poi autocontrollo, equilibrio, cortesia intesi come riflessi esteriori dell'armonia interiore; vuoi dire rinunciare all'aggressività e alla polemica per far trionfare una civiltà del dialogo, dell'accettazione della diversità." (V. Guarracino).

Seneca

E all'insegna del dialogo si collocano anche le Lettere a Lucilio di Seneca, il frutto più maturo della produzione filosofica del I sec.d.c..

L'umanità della pagine di Seneca è, forse, la ragione prima della fortuna di un autore che ci viene incontro "come un amico, come un compagno di strada, come fratello". (Ronconi).

La sua non è una filosofia profonda o originale: l'uomo deve vivere secondo la ratio, cioè non solo secondo la ragione universale, ma anche secondo la propria ragione, la propria coscienza; l'uomo deve essere consapevole di sé in ogni occasione, deve veramente, momento per momento, costruire se stesso, in un incessante sforzo di migliorarsi, di conquistarsi, di scoprirsi.

Seneca partiva da un presupposto fondamentale: "hoc nempe ab homo exigitur ut prosit hominibus". (De otio, 3,5)

Finché potè, egli lottò per creare una società nella quale fosse possibile al filosofo, oggi diremmo all'intellettuale, giovare agli altri:

"Hoc puto virtuti faciendum studiosoque virtutis: si praevalebit fortuna et praecidet agendi facultatem, non statim aversus inermisque fugiat latebras quaerens, quasi ullus locus sit, quo non possit fortuna persequi, sed parcius se inferat officiis et cum dilectu inveniat aliquid, in quo utilis civitati sit....

Officia si civis amiserit, hominis exerceat. Ideo magno animo nos non unius urbis moenibus clusimus, sed in totius orbis commercium emisimus patriamque nobis mundum professi sumus ut liceret latiorem virtuti campum dare... .Etiam si alii primam frontem tenebunt, et sors inter triarios posuerit, inde voce, adhortatione, exemplo, animo milita: praecisis quoque manibus ille in proelio invernit, quod partibus conferat, qui stat tamen et clamore iuvat. Tale quiddam facias: si a prima te rei publicae parte fortuna summoverit, stes tamen et clamore iuves et, si quis fauces oppresserit, stes tamen et silentio iuves.

Numquam inutiles est opera civis boni: auditus enim visusque, voltu, nutu, obstinatione tacita incessuque ipso prodest". (De tranq.an.,4,2-6)

L'ideale classico della filantropia trova ora espressione in una delle pagine più ispirate, avvicinandosi quasi alla "caritas" cristiana: è troppo poco limitarsi a non fare il male, bisogna impegnarsi a fare il bene con spirito d'amore, soprattutto a favore di quelli che hanno più bisogno d'aiuto: "Ecce altera quaestio, quomodo hominibus sit utendum. Quid agimus? Quae damus praecepta? Ut parcamus sanguini humano? Quantulum est ei non nocere cui debeas prodesse. Magna scilicet laus est si homo mansuetus homini est....

Quare omnia quae praestanda ac vitanda sunt dicam, cum possim breviter hanc illi formulam humani offici tradere: omne hoc quod vides, quo divina atque humana conclusa sunt, unum est; membra sumus corporis magni. Natura nos cognatos edidit, cum ex isdem et in eadem gigneret; haec nobis amorem indidit mutuum et sociabiles fecit.

lila aequum iustumque composuit; ex illius constitutione miserius est nocere quam laedi; ex illius imperio paratae sint luvandis manus....

Ita habeamus: in commune nati sumus. Societas nostra lapidum fornicationi simillima est, quae, casura nisi in vicem obstarent, hoc ipso sustinetur. " (Ep. 95, 51-53).

"La bellissima immagine finale rende in modo visivo il concetto di "unitas humani generis"; togliendo una sola pietra, l'intera costruzione crolla. Anche la solidarietà cristiana è paragonata a un edificio con "pietre viventi" (Pietro, I Ep.2,4-5). (A. Postiglione)

Non meno importanti sono le riflessioni di Seneca sul tema della libertà morale, sul ruolo dell'amicizia: "Quae mihi tunc fuerint solacio dicam....Studia mihi nostra saluti fuerunt....Multum autem mihi contulerunt ad bonam valetudinem et amici, quorum adhortationibus, vigiliis, sermonibus adlevabar.

Nihil aeque, Lucili, virorum optime, aegrum reficit teque adiuvat quam amicorum adfectus.... Non iudicabam me, cum illos superstites relinquerem mori....Haec mihi dederunt voluntatem adiuvanti me et patienti omne tormentum; alioqui miserrimum est, cum animum moriendi proieceris, non habere vivendi". (Ep.ad Luc. 78,3 passim)

S. Agostino

Sul finire dell'età tardo-antica, nell'itinerario spirituale di Agostino, che l'autore ha splendidamente tracciato nelle Confessiones, possiamo seguire il percorso emblematico dell'uomo che, dalla solitudine, dalla sofferenza e dall'inquietudine, giunge alla scoperta della verità - "Quia fecisti nos ad te et inquietum est cor nostrum donec requiescat in te."

Nella letteratura classica era delineato il ritratto dell'eroe, nelle cui vicende l'autore proiettava la propria concezione del vivere; nelle Confessiones il protagonista è l'autore stesso, che ripercorre le tappe della sua faticosa ricostruzione spirituale.

Anche chi non condivida le sue convinzioni religiose e filosofiche non può non ammirare le qualità invidiabili della sua personalità così straordinaria: onestà intellettuale, coraggio della ricerca, gusto di vivere nel fervore del cuore e dello spirito.

"L'opera, inserita nel cuore della tarda antichità, la domina senza astrarsene: in lingua latina, ne è la gemma più bella. La confessione illumina delicatamente i labirinti percorsi da un'anima alla ricerca del suo Dio". (J. Fontaine)

Nulla è più solitario della confessione: essa istituisce una triplice comunicazione: con se stesso, con Dio, con l'umanità. Interrogandosi, Agostino dice: "Cui narro haec? Neque enim tibi, Deus meus, sed apud Te narro haec generi meo, generi humano, quantulacumque ex particula incidere potest in istas meas litteras. Et ut quid hoc? Ut videlicet ego et quisquis haec legit cogitemus de quam profundo clamandum sit ad Te " (Conf. II,3,5)

II secondo interlocutore è il destinatario del racconto: tutta l'umanità, perché egli è convinto di portare in se stesso la forma intera della condizione umana.

L'io di Agostino si costruisce in questo singolare rapporto con il "Tu" di Dio. Anche Cleante, nel suo famoso "Inno a Zeus", si rivolgeva così al dio stoico, ma in quella preghiera rimaneva una distanza insuperabile tra l'uomo e la divinità, solennemente invocata da un mortale, ma lontana nella sua trascendenza.

L'intimità che Agostino intrattiene con Dio "più intimo del suo intimo" fa impallidire ogni forma di comunicazione col divino dell'antichità classica.

Così Agostino confessa le sue debolezze: "recordari volo transactas foeditates meas et carnales corruptiones animae meae, non quod eas amem sed ut amem te, Deus meus....Exarsi enim aliquando satiari inferis in adulescentia et silvescere ausus sum variis et umbrosis amoribus, et contabuit species mea et computrui coram oculis tuis, placens mihi et piacere cupiens oculis hominum" (Conf. II, 1,1,5).

Altre volte ricorda i suoi errori di ragazzo : "Et ego furtum facere volui et feci nulla compulsus egestate nisi penuria et fastìdio iustitìa et sagina iniquitatis".

E ancora: "veni Cartbaginem, et circumstrepebat me undique sartago flagitiosorum amore. Nondum amabam et amare amabam............. "quaerebam quid amarem,amans amare". La ricerca dell'amore è il refrain ricorrente dei libri dell'adolescenza.

Il racconto di Agostino, straordinario nella sua ricerca del vero e della felicità, sperimenta momenti dolorosi e tristi: si compie nell'erranza e nello sviamento - "ero diventato a me stesso terra di miseria".

Segue poi la sua ricerca "faustiana" di tutti i saperi permessi e vietati, nella frenesia di una "curiositas" insoddisfatta; frastornato dalle ambizioni mondane, da progetti politici e matrimoniali, egli deve ancora trovare la via dell'umiltà. Faticosamente la tempesta interiore si risolve, poi, nel giardino di Milano.

Questo incontro di Agostino col divino supera in maniera originale la ricerca del divino dell'antichità classica; questa ricerca diviene cristiana nella misura in cui si propone di raggiungere con intelligenza e con amore un Dio che si è rivelato come spirito e come amore.

L'opera di Agostino appare anche come il manifesto letterario di una nuova cultura: un modo nuovo di essere al mondo, di esistere, una "metamorfosi" verso una salvezza mai totalmente raggiunta, "iam et nondum ". L'esperienza religiosa, apprendiamo con Agostino, non può essere mai definitiva.

La conversione cristiana è un'attitudine interiore durevole, un "habitus" che non cessa con la prima scoperta: ne consegue una dialettica dolorosa tra il "già" delle grandi decisioni e il "non ancora" della fragilità umana, delle tentazioni, della finitezza.

lam et nondum sono due parole-chiave della spiritualità agostiniana, così viva e sofferta e così straordinariamente moderna.

(Progetto Giovani 2000)

 

Dopo lo straordinario sviluppo culturale del II secolo a.C. agli inizi del I secolo a.C. comincia un periodo di stasi: la cultura romana dopo l’incontro con quella greca si è trasformata e rafforzata, ma, finito il primo periodo dell’ellenizzazione, si ripetono sempre gli stessi temi e si scade nella mediocrità. Unica voce che si leva è quella di Lucilio la cui opera, però, nasce da una mutata concezione della letteratura: egli difatti vede la letteratura non più concepita come continuo impegno civile ma proiettata in quel mondo dell’otium tanto avversato da Catone. Tale processo che vede l’intellettuale distaccarsi dalla vita pubblica per impegnarsi del tutto nel vellutato mondo dell’arte è ciò che si verifica a partire dalla seconda metà del II secolo a.C. in cui si sussegue una serie di sconvolgimenti e di cambiamenti che portano al crollo degli ideali e dei valori tradizionali.

L’elaborazione del concetto di humanitas trova in Cicerone, dopo la crisi a cui si è accennato, la più autorevole e completa formulazione. Cicerone riesce a sintetizzare lo spirito romano e quello greco; con lui all’aristocratico paneziano subentra l’homo novus, persona colta ma fornita di tutte le virtù insite nella cultura umana.

Cicerone si sente in obbligo verso gli ideali del circolo degli Scipioni, ma è portato ad attuarli attingendo moltissimo dalla sua personalità certamente più "umana".

La filosofia risveglia nell’uomo tutte le possibilità insite nella natura; l’uomo ideale per Cicerone non è quello della virtù disumana di Zenone, ma è uomo tra gli uomini, capace di comprendere se stesso e gli altri. Il concetto di humanitas in Cicerone è vario e complesso e ha come principio una natura che ha posto l’uomo ad un livello superiore rispetto alle altre creature, soprattutto grazie all’ine-guagliabile dono della ragione e della parola; inoltre la natura umana è comune a tutti gli uomini, anche se si manifesta in modo differente da persona a persona. Ne deriva la necessità di rispettare tutti allo stesso modo e di porsi al servizio di tutti senza distinzioni. Altro carattere dell’humanitas di Cicerone è senz’altro la valorizzazione della cultura intesa come carattere distintivo e formativo dell’uomo. Unitamente allo sviluppo della cultura c’è il progresso del genere umano poiché fine della cultura è produrre miglioramento per l’uomo. L’humanitas si forma oltre che con la cultura anche con il rispetto del mos maiorum e della grande eredità di sapienza tramandata dagli antichi. Nulla è tralasciato: difatti caratteristico del concetto di humanitas di Cicerone è anche l’aspetto etico, ossia l’insieme di tutti quei valori che permettono nello stesso tempo all’uomo di vivere in società pur nel rispetto della individualità di ciascuno. Tutti questi elementi però mettono in evidenza delle contraddizioni, come per esempio il contrasto tra alcuni aspetti aristocratici dell’ideale ciceroniano e i principi dell’uguaglianza tra gli uomini; benché questi contrasti denuncino poca sistematicità, non si può negare che grande influenza ha avuto l’opera di Cicerone in epoca moderna.

È importante dire, però, che l’humanitas non esaurisce per Cicerone l’ideale umano nella sua interezza, dal momento che essa si riferisce essenzialmente ad una sfera privata e non all’attività pubblica: nel descrivere l’ideale di uomo, Cicerone affianca all’humanitas la virtus propria del romano, virtus intesa anche come gravitas. All’inizio per Panezio e per gli Scipioni attività politica e vita pratica costituiscono un tutt’uno, ma già nel I secolo a.C. si rafforza l’individualità del cittadino a tal punto da creare una sfera privata che non viene intaccata dall’esterno e che è regolata da leggi proprie. Il vero romano è chi ha in sé humanitas e virtus; nell’età di Augusto, poi, si ha una continua e progressiva esaltazione della virtus che pone in secondo piano l’humanitas che acquista essenzialmente valore di buon senso, di socialità e di "filantropia".

In Cicerone certamente l’humanitas non è solo legata alla "paideia", come dice Gellio, ma abbraccia anche segni morali e richiama piuttosto al puro concetto educativo di cultura animi; tale concetto di humanitas non è semplicemente sviluppato da quello riscontrabile in Terenzio, ma in esso rifluiscono tratti distintivi del concetto di liberalitas, che comprende le esigenze dell’educazione e della larghezza di vedute unendo ad esse tratti di amabilità e di gentilezza. La sintesi che si attua tra humanitas e liberalitas si fonda sull’opposizione all’ideale catoniano dell’homo Romanus. La formazione di un modello di distinzione nasce molto spesso dall’emergere di un nuovo gruppo sociale, non derivando quasi mai da un puro pensiero spirituale e ricevendo un rafforzamento dalla filosofia. Difatti si possono facilmente notare i debiti di Cicerone nei confronti della Media Stoà e specialmente di Panezio: mentre da un lato grande è l’influsso educativo di Panezio nei confronti dell’aristocrazia romana, soprattutto per il suo allontanamento dallo schematismo zenoniano che rende l’etica stoica più ammissibile per i Romani, dall’altro Cicerone, che intende educare i Romani al loro ideale di ceto, sottolinea della filosofia stoica, proprio quei punti rispondenti a questo ideale, tralasciando così i fondamenti di filosofia naturale. Ben a ragione si chiama Panezio padre dell’ideale romano di humanitas.

Per quanto riguarda i contemporanei di Cicerone, la concezione di humanitas in Varrone va al di là di quella di Terenzio, ma confluisce proprio con quella di liberalitas, attraverso l’esigenza di un educazione dello spirito e del gusto; in Cesare, invece, con il termine humanitas si intende indicare una civiltà che ha qualità valide in sé; Cornelio Nepote poi sostiene che ben poco è compreso il concetto di "koinonia" in quello di humanitas. Una breve analisi dell’uso di tale termine nell’età repubblicana mostra che questo concetto non ha ancora quel significato che gli si attribuisce a causa del suo grande influsso sul pensiero dell’età moderna; difatti l’uso moderno corrisponde ad un solo significato, mentre ancora nel I secolo a.C. il concetto di humanitas non è legato a nessun significato ben determinato. Con grande probabilità l’influenza dell’humanitas che si ha nel Rinascimento e nell’Illuminismo è dovuta soprattutto al fatto che Cicerone amasse molto questo termine e che proprio di Cicerone sono rimasti molti scritti: che egli prediligesse il termine humanitas è chiaro poiché "la formazione spirituale assicurava l’intima parità con la nobiltà di sangue" (Harder). Tuttavia benché Cicerone fosse stato il massimo teorizzatore del concetto di humanitas in lui tale termine non ha un ideale complessivo quale quello che verrà celebrato o avversato in seguito; difatti humanitas indica una componente essenziale dell’ideale di classe che va accettata nel suo complesso ma non seguita unilateralmente.

Considerando il fatto che nell’età repubblicana solo Cicerone predilige il termine humanitas, le differenze con l’epoca successiva non sono sostanziali.

Livio l’usa poco, Vitruvio invece l’usa in un’opera scientifica specialistica, spesso utilizzandola con l’accezione di "civiltà". In Plinio il Vecchio l’humanitas indica generalmente la formazione culturale. Dal momento che tale termine aveva avuto grande successo per opera del ceto aristocratico, ora nel periodo imperiale, col declino della vecchia nobiltà il concetto di humanitas perde la sua coloritura centrale; in Seneca il rigorismo stoico si colora di quella humanitas caratterizzante il pensiero etico-sociale romano nel Circolo degli Scipioni in poi; nel pensiero Senechiano, però, per humanitas si deve intendere soprattutto "filantropia", come spesso anche in Plinio. Valerio Massimo invece nel persorso della trattazione della liberalitas la interpreta come generosità materiale e offre insieme esempi di humanitas e di clementia.

Da Quintiliano in poi i termini humanitas e "filantropia" vengono usati scambievolmente e questo reciproco avvicinamento porta proprio nell’età imperiale ad un aumento dell’uso linguistico di tali termini.

Nell’humanitas non si vede un atteggiamento richiesto solo dal proprio animo ma anche da quello degli altri. Plinio definisce tale principio come umanissimus et utilissimus non consederando l’amore per il prossimo. In lui, poi, l’humanitas non è intesa solo come forma di raffinata cultura ma anche come "koinonia"; l’avvicinamento dei due termini influisce sull’uso di tale parola ampliandolo sul piano del significato al concetto di "filantropia" intesa come una sorta di socievolezza e dolcezza d’essere. In questo periodo manca quella tensione tra humanitas e "megaloyucia" che aveva animato gli animi dei filoellenici. In ultimo humanitas passa ad indicare il senso della socialità che aveva ben poche possibilità di esprimersi in una vita pubblica regolata dal monopolio dei funzionari di stato; quindi più che come socialità si manifesta come vera e propria "filantropia"; l’humanitas così diviene per i Latini il connotato del viver civilmente ispirato fino a quando non verrà sostituita dalla Caritas.

Seneca dice: dum inter omines sumus, colamus umanitatem. Lo stesso storico Plutarco oppone all’ideale di humanitas un ideale non fondato sulla comunanza di interessi bensì soltanto sull’amore, indicandolo tra l’altro con il termine già molte volte ripetuto di "filantropia".

 

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Ultimo aggiornamento: 05-05-03

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