La
filosofia: lo stoicismo
Nell'età ellenistica le nuove filosofie non
operano più come centri di ricerca, fortemente ancorati alla
realtà umana e sociale della "pòlis", con
preoccupazioni teoriche e insieme politiche e in modo organico
all'interno della società.
In Platone era stata fortemente avvertita la
preoccupazione per la vita dello Stato, tanto che nel 5° libro
della Repubblica si discuteva a lungo dei governanti filosofi,
definiti anche salvatori; la salvezza era riposta soprattutto
nell'unità di intenti e nella pratica della giustizia.
Aristotele avvertiva la stessa esigenza,
sottolineando, inoltre, la necessità di salvaguardare la
Costituzione dai mutamenti intemi e dalle corruzioni.
Nella nuova temperie spirituale
dell'Ellenismo, il fine dell'uomo non viene più riposto nel
servire la patria, dalla quale trae la ragion d'essere e gli
elementi fondamentali del suo "sentirsi" persona: il
problema della salvezza, della felicità si interiorizza e si fa
sempre più inerente al destino dell'uomo singolo.
In tal senso Epicuro esalta particolarmente
la "filìa", mentre lo stoicismo propone una via più
aspra e combattiva.
Pur nel suo rigorismo morale, lo stoicismo
antico si anima di forte afflato religioso nel famoso "Inno a
Zeus" di Cleante:
"Altissimo fra gli immortali, Dio
onnipotente in eterno. Signore che hai molti nomi, Zeus principio
del mondo, che tutto governi con legge, sia tu bendetto!..... O
potente, nessuna opera si compie senza di te sulla terra, né
sotto la divina volta del cielo, né sul mare, se non le azioni
che nella loro demenza compiono i malvagi.
Ma Tu anche le cose vane sai rendere
armoniose e nell'informe puoi mettere ordine: dunque, per grazia
tua, diventa bello ciò che è odioso nel mondo. In uno, infatti,
hai adattato tutto il bene col male, così che diventassero
insieme l'unica ragione eterna del tutto, che schivano sgomenti
quanti mortali sono malvagi. Sventurati! che ingordi di beni non
vedono, non odono la comune legge di Dio: e a questa se
ubbidissero, avrebbero saggezza e vita felice....Ma tu Zeus... gli
uomini salva dalla loro lacrimosa ignoranza.... e concedi il senno
fiducioso con cui governi il mondo con giustizia".
(Trad. G. Gaetaniello)
In quest'inno Cleante esprime "i suoi
sentimenti più intimi: l'entusiasmo di chi scorge Dio
dappertutto....il senso della debolezza e della dignità
dell'uomo; la compassione per gli uomini che vivono nelle tenebre
e non vogliono vedere la luce" (G. Perrotla). Pur nei modelli
di vita assai diversi, l'epicureismo e lo stoicismo assolvono alla
stessa funzione di guida spirituale all'interno di una società in
cui le antiche certezze vanno scomparendo. Nessuna meraviglia,
quindi, se entrambe le scuole saranno duramente combattute e
sconfitte dal Cristianesimo, fin dal suo sorgere. L'uomo antico
ormai ha percorso tutte le strade ed ha acquisito definitivamente
alcuni valori e, primo fra tutti, il nuovo senso dell'umano, che
è senso "umano e umanistico" (B.Snell). In tale "areté"
rientra in primo luogo un giusto atteggiamento nei confronti del
prossimo: non solo la giustizia, antica virtù ellenica, ma anche
la spontanea propensione ad aiutare gli altri. Questo diviene
l'elemento essenziale dell'umanità, considerata la virtù
necessaria a tutti gli uomini" (Pohlenz).
Il Romanzo
Anche se in forma tutt'altro che impegnata
il Romanzo greco riprende e rinnova molti spunti della letteratura
classica ed ellenistica. In un mondo dominato dalla "tyke"
il romanziere si sforza di mettere bene in luce la virtù, la
dedizione, la disarmata innocenza dei suoi eroi. Ogni romanzo, che
ha ereditato non poco dall'umanizzazione dei personaggi e
dall'anelito esoterico di Euripide, si apre e si chiude
all'insegna dell'amore, il nuovo centro dinamico capace di dare
ordine e significato nel caos della vita, abbandonata a se stessa.
''Cosi l'uomo scopre una nuova immagine di
sé, certo intima e privata, ma non meno dotata di forza e di
seduzione. E la sua fortuna è tale che dura ancora oggi; ancora
oggi i suoi eroi, una sorta di cavalieri "senza macchia e
senza paura" rappresentano un punto di riferimento costante
nella letteratura popolare". (L. Barbero).
Terenzio
II cosmopolitismo stoico trapassa nel mondo
romano di Terenzio che, pur rifacendosi alla Commedia Nuova,
"materiò la visione menandrea dell'uomo di una sensibilità
aperta e semplice, che è l'aspetto più fiducioso della sua anima
di cittadino romano" (O. Bianco). L’"humanitas"
terenziana non è solo la semplice traduzione del termine greco
filantropia, non è solo interesse per l'altro, ma anzi più
profonda apertura verso i propri simili, nella coscienza della
comune natura umana. Terenzio sceglie "nodi duri" della
vita sodale e li presenta in una situazione iniziale di
incomunicabilità: il seguito della vicenda consisterà nel creare
la comunicazione tra i personaggi, nel far riflettere, spiegare.
In questo senso il suo è il teatro della
"comunicazione" inteso come il valore più alto della
cultura. Questi nuovi valori culturali e sociali si andavano già
affermando in pieno II sec., all'interno del Circolo Scipionico,
ma solo Terenzio riuscì a dare loro un'intensità e una
formulazione emblematica, che è sintetizzata nel celebre verso:
"Homo sum: humani nihil a me alienum puto"
(Heaut.v.77)
Citato da Cicerone e da Seneca, il verso
piacque anche ai Padri della Chiesa (Ambrogio, Agostino), che
videro in esso esaltata la fratellanza di tutti gli uomini.
All'iniziale diffidenza del vicino:
Men. "Chreme, tantumne ab re tuast
oti tibi aliena ut cures ea quae nil ad te attinent?"
(vv. 75-76)
Cremete contrappone la disponibilità, l'interessamento,
l'aiuto operoso:
"Ne lacruma atque istuc, quidquid est, fac me ut
sciam:
ne retice, ne verere, crede inquam mihi;
aut consolando aut consilio aut re iuvero"
(vv. 84-86)
L'amicizia vera è nell'aiuto morale (nota
l'allitterazione consolando-consilio) più che in quello
materiale (re), è conforto, attenzione all'altro,
capacità di ascoltare:
Men. "Scire hoc
vis?
Chr. Hac quidem causa qua dixi tibi.
Men. Dicetur.
Chr. At istos rastros interea tamen
adpone, ne labora.
Men.
Minime
Chr. Quam rem agis?
Men. Sine me vocivom tempus ne quod dem mihi
laboris.
Chr. Non sinam, inquam.
Men. Ah! Non aequom facis.
Chr. Hui! Tarn gravis hos, quaeso?
Men. Sic meritumst meum.
Chr. Nunc loquere"
(vv. 84- 92)
La soluzione di tanti drammi familiari e
personali sta nella capacità di correggersi e aprirsi al dialogo,
nella confidenza:
Chr. "Ingenio te esse in liberos leni puto,
et illum obsequentem siqui' recte aut commode
tractaret. Verum nec tu illum sati' noveras
nec te ille; hoc qui fit? Ubi non vere vivitur"
Tu illum nunquam ostendisti quanti penderes
nec tibi illest credere ausu ' quae est aequom patri.
Quod si esset factum, haec nunquam evenissent tibi.
Men. Ita res est, fateor: peccatum a me maxumest. "
(vv. 151-158)
Questi versi toccano con grande finezza un
motivo di perenne attualità: la difficoltà che gli uomini
incontrano nel comunicare, nel vivere con sincerità, vere
vivere, nella franchezza e nella tolleranza.
In un'epoca in cui questi valori sembrano
così distanti e irraggiungibili, il teatro terenziano può
"rompere le barriere che separano gli uomini, sostituire
l'incomprensione con la confidenza: ecco cosa ci suggerisce la
sapienza terenziana". (Bettini)
Cicerone
Ispirate allo stesso ideale dell'"humanitas",
non vanno, altresì, dimenticate le riflessioni di Cicerone sul
tema dell'amicizia: "Ego vos hortart tantum possum, ut
amicitiam omnibus rebus humanis anteponatis.......Quid dulcius,
quam habere, quicum omnia audeas sic loqui ut tecum? ....Nam
et secundas res splendidiores facit amicitia, et
adversas,
partiens communicansque, leviores.
Quoniam res humanae fragiles caducaeque
sunt, semper aliqui anquirendi sunt quos diligamus et a quibus
diligamur; caritate enim benevolentiaque sublata, omnis est e vita
sublata iucunditas. " (Laelius, V,17; VI,22; XXVII,
102)
Cicerone "non solo ha sempre sulle
labbra l'"humanitas", ma la realizza in concreto nella
sua vita. All'aristocratico paneziano subentra per vero con
Cicerone, che era homo novus, la "persona colta";
ma questo homo politus è l'uomo fornito d'una nobiltà
ideale, che sviluppa tutte le virtualità insite nella sua natura,
realizzando un altissimo ideale umano: egli padroneggia tutta la
cultura intellettuale della sua epoca, ha una viva sensibilità
per le scienze e il gusto del bello, possiede garbo, tatto,
cortesia, l'ironia socratica e l'umorismo; la persona ben curata
come pure la disinvoltura con cui si muove in società e le buone
maniere lo rivelano uomo raffinato: ma, soprattutto, unisce a
queste doti l'elevatezza dei sentimenti e una mirabile educazione
del cuore, una benevolenza verso il prossimo che scaturisce
dall'intimo, lo spinge ad aiutare gli altri
disinteressatamente."
Certamente pecca di esagerazione questo
ritratto che Max Pohlenz ha tracciato di Cicerone, ma ha comunque
il merito di indicare lo spazio "morale", l'ideale in
cui ambisce inscriversi la sua opera.
"Nessun altro concetto ciceroniano è
forse più vitale e urgente di questo e poco importa che l'uomo
Cicerone non sia sempre stato all'altezza di questa sua
teorizzazione. Cosa vuoi dire in concreto? Vuoi dire tolleranza e
poi autocontrollo, equilibrio, cortesia intesi come riflessi
esteriori dell'armonia interiore; vuoi dire rinunciare
all'aggressività e alla polemica per far trionfare una civiltà
del dialogo, dell'accettazione della diversità." (V.
Guarracino).
Seneca
E all'insegna del dialogo si collocano anche
le Lettere a Lucilio di Seneca, il frutto più maturo della
produzione filosofica del I sec.d.c..
L'umanità della pagine di Seneca è, forse,
la ragione prima della fortuna di un autore che ci viene incontro
"come un amico, come un compagno di strada, come
fratello". (Ronconi).
La sua non è una filosofia profonda o
originale: l'uomo deve vivere secondo la ratio, cioè non
solo secondo la ragione universale, ma anche secondo la propria
ragione, la propria coscienza; l'uomo deve essere consapevole di
sé in ogni occasione, deve veramente, momento per momento,
costruire se stesso, in un incessante sforzo di migliorarsi, di
conquistarsi, di scoprirsi.
Seneca partiva da un presupposto
fondamentale: "hoc nempe ab homo exigitur ut prosit
hominibus". (De otio, 3,5)
Finché potè, egli lottò per creare una
società nella quale fosse possibile al filosofo, oggi diremmo
all'intellettuale, giovare agli altri:
"Hoc puto virtuti faciendum studiosoque virtutis: si
praevalebit fortuna et praecidet agendi facultatem, non statim
aversus inermisque fugiat latebras quaerens, quasi ullus locus
sit, quo non possit fortuna persequi, sed parcius se inferat
officiis et cum dilectu inveniat aliquid, in quo utilis civitati
sit....
Officia si civis amiserit, hominis exerceat. Ideo magno
animo nos non unius urbis moenibus clusimus, sed in totius orbis
commercium emisimus patriamque nobis mundum professi sumus ut
liceret latiorem virtuti campum dare... .Etiam si alii primam
frontem tenebunt, et sors inter triarios posuerit, inde voce,
adhortatione, exemplo, animo milita: praecisis quoque manibus
ille in proelio invernit, quod partibus conferat, qui stat tamen
et clamore iuvat. Tale quiddam facias: si a prima te rei
publicae parte fortuna summoverit, stes tamen et clamore iuves
et, si quis fauces oppresserit, stes tamen et silentio iuves.
Numquam inutiles est opera civis boni:
auditus enim visusque, voltu, nutu, obstinatione tacita incessuque
ipso prodest". (De tranq.an.,4,2-6)
L'ideale classico della filantropia trova
ora espressione in una delle pagine più ispirate, avvicinandosi
quasi alla "caritas" cristiana: è troppo poco
limitarsi a non fare il male, bisogna impegnarsi a fare il bene
con spirito d'amore, soprattutto a favore di quelli che hanno più
bisogno d'aiuto: "Ecce altera quaestio, quomodo
hominibus sit utendum. Quid agimus? Quae damus praecepta? Ut
parcamus sanguini humano? Quantulum est ei non nocere cui debeas
prodesse. Magna scilicet laus est si homo mansuetus homini est....
Quare omnia quae praestanda ac vitanda sunt
dicam, cum possim breviter hanc illi formulam humani offici
tradere: omne hoc quod vides, quo divina atque humana conclusa
sunt, unum est; membra sumus corporis magni. Natura nos cognatos
edidit, cum ex isdem et in eadem gigneret; haec nobis amorem
indidit mutuum et sociabiles fecit.
lila aequum iustumque composuit; ex illius
constitutione miserius est nocere quam laedi; ex illius imperio
paratae sint luvandis manus....
Ita habeamus: in commune nati sumus.
Societas nostra lapidum fornicationi simillima est, quae, casura
nisi in vicem obstarent, hoc ipso sustinetur. " (Ep.
95, 51-53).
"La bellissima immagine finale rende in
modo visivo il concetto di "unitas humani generis";
togliendo una sola pietra, l'intera costruzione crolla. Anche la
solidarietà cristiana è paragonata a un edificio con
"pietre viventi" (Pietro, I Ep.2,4-5). (A. Postiglione)
Non meno importanti sono le riflessioni di
Seneca sul tema della libertà morale, sul ruolo dell'amicizia:
"Quae
mihi tunc fuerint solacio dicam....Studia mihi nostra saluti
fuerunt....Multum autem mihi contulerunt ad bonam valetudinem et
amici, quorum adhortationibus, vigiliis, sermonibus adlevabar.
Nihil aeque, Lucili, virorum optime,
aegrum reficit teque adiuvat quam amicorum adfectus.... Non
iudicabam me, cum illos superstites relinquerem mori....Haec mihi
dederunt voluntatem adiuvanti me et patienti omne tormentum;
alioqui miserrimum est, cum animum moriendi proieceris, non habere
vivendi". (Ep.ad Luc. 78,3 passim)
S. Agostino
Sul finire dell'età tardo-antica,
nell'itinerario spirituale di Agostino, che l'autore ha
splendidamente tracciato nelle Confessiones, possiamo
seguire il percorso emblematico dell'uomo che, dalla solitudine,
dalla sofferenza e dall'inquietudine, giunge alla scoperta della
verità - "Quia fecisti nos ad te et inquietum est
cor nostrum donec requiescat in te."
Nella letteratura classica era delineato il
ritratto dell'eroe, nelle cui vicende l'autore proiettava la
propria concezione del vivere; nelle Confessiones il
protagonista è l'autore stesso, che ripercorre le tappe della sua
faticosa ricostruzione spirituale.
Anche chi non condivida le sue convinzioni
religiose e filosofiche non può non ammirare le qualità
invidiabili della sua personalità così straordinaria: onestà
intellettuale, coraggio della ricerca, gusto di vivere nel fervore
del cuore e dello spirito.
"L'opera, inserita nel cuore della
tarda antichità, la domina senza astrarsene: in lingua latina, ne
è la gemma più bella. La confessione illumina delicatamente i
labirinti percorsi da un'anima alla ricerca del suo Dio". (J.
Fontaine)
Nulla è più solitario della confessione:
essa istituisce una triplice comunicazione: con se stesso, con
Dio, con l'umanità. Interrogandosi, Agostino dice: "Cui
narro haec? Neque enim tibi, Deus meus, sed apud Te narro haec
generi meo, generi humano, quantulacumque ex particula incidere
potest in istas meas litteras. Et ut quid hoc? Ut videlicet ego et
quisquis haec legit cogitemus de quam profundo clamandum sit ad Te
" (Conf. II,3,5)
II secondo interlocutore è il destinatario
del racconto: tutta l'umanità, perché egli è convinto di
portare in se stesso la forma intera della condizione umana.
L'io di Agostino si costruisce in questo
singolare rapporto con il "Tu" di Dio. Anche Cleante,
nel suo famoso "Inno a Zeus", si rivolgeva così al dio
stoico, ma in quella preghiera rimaneva una distanza insuperabile
tra l'uomo e la divinità, solennemente invocata da un mortale, ma
lontana nella sua trascendenza.
L'intimità che Agostino intrattiene con Dio
"più intimo del suo intimo" fa impallidire ogni forma
di comunicazione col divino dell'antichità classica.
Così Agostino confessa le sue debolezze: "recordari
volo transactas foeditates meas et carnales corruptiones animae
meae, non quod eas amem sed ut amem te, Deus meus....Exarsi enim
aliquando satiari inferis in adulescentia et silvescere ausus sum
variis et umbrosis amoribus, et contabuit species mea et computrui
coram oculis tuis, placens mihi et piacere cupiens oculis hominum"
(Conf. II, 1,1,5).
Altre volte ricorda i suoi errori di ragazzo
: "Et ego furtum facere volui et feci nulla
compulsus egestate nisi penuria et fastìdio iustitìa et sagina
iniquitatis".
E ancora: "veni Cartbaginem, et
circumstrepebat me undique sartago flagitiosorum amore. Nondum
amabam et amare amabam............. "quaerebam quid amarem,amans
amare". La ricerca dell'amore è il refrain
ricorrente dei libri dell'adolescenza.
Il racconto di Agostino, straordinario nella
sua ricerca del vero e della felicità, sperimenta momenti
dolorosi e tristi: si compie nell'erranza e nello sviamento -
"ero diventato a me stesso terra di miseria".
Segue poi la sua ricerca "faustiana"
di tutti i saperi permessi e vietati, nella frenesia di una "curiositas"
insoddisfatta; frastornato dalle ambizioni mondane, da progetti
politici e matrimoniali, egli deve ancora trovare la via
dell'umiltà. Faticosamente la tempesta interiore si risolve, poi,
nel giardino di Milano.
Questo incontro di Agostino col divino
supera in maniera originale la ricerca del divino dell'antichità
classica; questa ricerca diviene cristiana nella misura in cui si
propone di raggiungere con intelligenza e con amore un Dio che si
è rivelato come spirito e come amore.
L'opera di Agostino appare anche come il
manifesto letterario di una nuova cultura: un modo nuovo di essere
al mondo, di esistere, una "metamorfosi" verso una
salvezza mai totalmente raggiunta, "iam et nondum ".
L'esperienza religiosa, apprendiamo con Agostino, non può essere
mai definitiva.
La conversione cristiana è un'attitudine
interiore durevole, un "habitus" che non cessa
con la prima scoperta: ne consegue una dialettica dolorosa tra il
"già" delle grandi decisioni e il "non
ancora" della fragilità umana, delle tentazioni, della
finitezza.
lam et nondum sono due
parole-chiave della spiritualità agostiniana, così viva e
sofferta e così straordinariamente moderna.
(Progetto Giovani 2000)