I cambiamenti nell’impianto urbanistico, susseguitisi nel
lungo periodo vicereale (1504-1707) riflettono le mutate
condizioni di dominio e di governo della città. Il Regno di
Napoli divenne, infatti, una dipendenza diretta del Regno di
Spagna, completamente subordinato ai suoi interessi economici,
politici, militari. Il passaggio dal Regno aragonese al Viceregno
spagnolo avvenne in maniera piuttosto complessa. Agli inizi del
‘500 il nuovo re di Francia Luigi XII
riprese la politica espansionistica iniziata dal suo predecessore
Carlo IIII, ma venne a scontrarsi con i medesimi programmi
preparati dal re di Spagna, Ferdinando il Cattolico.
Fu
così che entrarono in aperto conflitto fra loro fino ad arrivare
alla definitiva vittoria degli Spagnoli sul Garigliano. Dopo la
pace di Chateau-Cambresis, nel 1559, il Regno di Napoli, insieme a
tanti altri stati italiani, cadde nelle mani del Regno spagnolo e
fu amministrato direttamente dal Supremo Consiglio d’Italia, un
organo che aveva sede in Spagna ed era nato per la sola
amministrazione dei territori sottomessi.
Nel
tempo il Supremo Consiglio fu sostituito dai viceré che
governavano direttamente sul posto ed anche da un Parlamento che
si riuniva ogni due anni. Questa amministrazione presentò però
molte lacune in quanto le decisioni prese dal Supremo Consiglio
non tenevano conto della reale situazione e delle esigenze dei
territori amministrati. Si crearono così una serie di
incomprensioni e di disguidi che esasperarono gli animi dei popoli
sottomessi.
Inoltre
la fortissima pressione fiscale che gli Spagnoli esercitavano,
andò a marcare sempre più le differenze sociali che esistevano in precedenza e finì per dare di nuovo largo spazio a quei
legami feudali che, intanto, nel resto d’Europa con l’avvento
della borghesia erano scomparsi del tutto.
Durante
il periodo vicereale diventò massiccio
il fenomeno dello spostamento dalle campagne alle città,
tanto che nel giro di pochi anni Napoli divenne la
città più affollata d’Europa dopo Parigi.
E
fu anche per questa situazione che si alimentò l’esigenza di
apportare modifiche di carattere urbanistico alla città: di ciò
si occupò in gran parte il viceré Pedro di Toledo, il quale nei
suoi ventuno anni di regno (1532-1553) curò le trasformazioni di
tipo urbanistico.
La
città continuò ad espandersi verso occidente, a causa della
salubrità e dell’amenità delle pendici collinari che si
susseguivano da Sant’Elmo a Pizzofalcone, mentre nella parte
orientale, nonostante le bonifiche di epoca
aragonese per la costruzione della villa di Poggioreale,
rimanevano vaste aree paludose, il cui prosciugamento avrebbe
richiesto ingenti capitali.
I
nuovi cambiamenti che subì la città furono studiati anche in
base alla difesa che si era evoluta con le nuove tecniche di
guerra e la maggiore potenza dell’artiglieria. Rispetto alle
opere difensive aragonesi, bastioni esterni ed ampi fossati
assunsero un’importanza predominante in confronto al castello.
Castelnuovo, pur modificandosi soprattutto nelle sue cortine
esterne, che divennero più alte ed ampie per coprire l’alloggio
delle truppe e il deposito delle polveri, fu destinato
prevalentemente a residenza dei viceré (fino al completamento del
Palazzo Vicereale) e molti edifici di largo delle Corregge (tra i
quali il palazzo del conte d’Alife e la chiesa di San Nicola al
Molo) vennero abbattuti per fare spazio alla riorganizzazione dei
bastioni.
La
cinta muraria subì modifiche sostanziali, non tanto per un suo
avanzamento verso il mare lungo il lato sud, quanto per una nuova
linea difensiva che, ad occidente, si inerpicò con postazioni di
vedetta della nuova Porta di Toledo fino a Sant’Elmo,
alternandosi con speroni e dirupi naturali , per ridiscendere da
Sant’Elmo a Porta
San Gennaro, in difesa anche di zone immediatamente esterne alle
mura lungo il lato nord.
Il
sito di Sant’Elmo con il suo castello diventò il perno del
nuovo sistema strategico-militare; il castello venne completamente
ricostruito a partire dal 1537 e dalla sua altezza dominava il
mare, la città e i suoi dintorni. Era protetto da bastioni e
fossati su tutti i lati tranne che a sud da dove si controllava
l’artiglieria di via Toledo, la strada che partiva dal
monastero di Santo Spirito (all’altezza dell’attuale piazza
Trieste e Trento) ed arrivava fino al convento di Monteoliveto e
che collegava la parte più settentrionale della città con il
centro direzionale e rappresentativo intorno al porto e a
Castelnuovo senza isolarsi dal vecchio centro gravitante intorno
al decumano inferiore ( San Biagio dei Librai).
Quest’ultimo
la intersecava
ortogonalmente con un prolungamento fino alla collina di Sant’Elmo
e al convento della Trinità, tanto che ebbe l’appellativo di
“Spaccanapoli”.
In
via Toledo confluivano le strade minori provenienti dai quartieri
di nuova urbanizzazione, detti “spagnoli” e che erano adibiti
ad alloggi per le truppe del viceré.
Essi
erano stati creati con una
struttura a scacchiera, con strade parallele ed ortogonali
e palazzi addossati
fra loro tanto che ebbero fin d’allora carattere congestionato e
popolare. Il disordine edilizio era appena mascherato dai palazzi
nobiliari che affacciavano sull’arteria.
Verso
il 1540 nella parte finale della strada si iniziò la costruzione
del nuovo palazzo vicereale (il primo nucleo di quello che nel ‘700
diventerà Palazzo Reale) che di conseguenza spostò il centro
direzionale. Intorno a questo si svilupparono poi i borghi di
Chiaia e Posillipo.
Congiunti
alla nuova arteria si trovarono anche, automaticamente, due borghi
preesistenti e già urbanizzati: quello della Pignasecca, per il
quale fu aperto l’accesso di Porta Medina (all’altezza dell’attuale
piazza S. d’Acquisto, già piazza Carità) e quello di Santo
Spirito (da non confondere con lo Spirito Santo) che da un lato
collegava l’ultimo tratto di Chiaia, dall’altro legava
Pizzofalcone ai primi nuclei abitati sotto Sant’Elmo.
Nel
centro antico, Castel Capuano divenne la sede unica di tutti gli
uffici giudiziari del Regno: nel giro di qualche decennio fra
Porta Capuana e San Giovanni a Carbonara si svilupperà un intero
borgo (Sant’ Antonio Abate) collegato bene col centro della
città attraverso via Tribunali, la strada di San Giovanni a Carbonara e quelle
della Selleria e del Mercato.
Per
la massiccia presenza di numerosi ordini religiosi in città, si
diede spazio alla costruzione e alla ristrutturazione di nuove
chiese e si ingrandirono Santa Chiara, San Gregorio Armeno, SS.
Severino e Sossio, San Domenico Maggiore. Sulla collina di
Pizzofalcone sorsero la Nunziatella, Santa Maria degli Angeli e
Santa Maria Egiziaca.
I
Gesuiti acquistarono il palazzo Sanseverino per la costruzione
del complesso del Gesù Nuovo.
Furono
costruiti inoltre istituti di beneficenza, confraternite, seminari
scuole pie per lo più creati da organizzazioni di fedeli che si
finanziavano privatamente. Esempi precisi di questo tipo di
istituzioni sono il Sacro Monte di Pietà che nasceva con lo scopo
di combattere l’usura, e il Pio Monte della Misericordia che
voleva promuovere opere di assistenza corporale e spirituale a
favore di persone di condizione disagiata.
VIA
TRIBUNALI
Via
Tribunali é il più importante dei tre decumani della città
greco-romana. Orientata da est ad ovest come gli altri due assi
viari e intersecata nella sua lunghezza da una serie di stradine
che in parte sono e in parte ricordano gli antichi cardini che
tagliavano ortogonalmente le tre arterie, ha mantenuto nel tempo
la sua struttura originaria, malgrado le sovrapposizioni di varie
stratificazioni. Sempre ritenuta il “cuore” della città
questa strada é stata, infatti, prescelta dall’aristocrazia
come luogo di importanti insediamenti religiosi e civili, fino all’inizio
dell’età contemporanea.
E
in realtà solo oggi conosce, al di là della tenuta dei monumenti
e degli sforzi di volenterosi, un degrado che non merita.
La
via inizia ad occidente nei pressi della Chiesa di San Pietro a
Maiella (eretta tra il XIII-XIV secolo e ampliata alla fine del
‘400). La successiva piazza Miraglia é delimitata dalla Chiesa
della Croce di Lucca (del XVII secolo), che é quanto resta di un
complesso monastico distrutto per la costruzione dei padiglioni
universitari.
Dopo
l’innesto della via del Sole si incontra la cappella Pontano,
edificio rinascimentale costruito per Gioviano Pontano, celebre
umanista e segretario di Ferdinando I d’Aragona, in memoria dei
parenti defunti. La cappella,
a pianta rettangolare, ha la facciata scandita da lesene
scanalate sormontate da una trabeazione. Nell’interno notevole
é il pavimento
maiolicato su cui sono incisi gli stemmi del Pontano e della
moglie Adriana Sassone, figure umane e motivi fitomorfi. A
sinistra della cappella sorge
la Chiesa di Santa Maria Maggiore, detta della “Pietrasanta”
,costruita su un tempio di Diana nel VI secolo d.C. e
completamente rifatta da Cosimo Fanzago nel corso del ‘600. A
fianco il campanile in forme pre-romaniche costruito anche con
materiale di spoglio.
Segue
a destra il Palazzo Spinelli di Laurino del XVI secolo, ma
rimaneggiata da un intervento settecentesco. Dopo la Chiesa del
Purgatorio ad Arco e quella di Sant’Angelo a Segno si incontra
il palazzo di Filippo d’Angiò, principe di Taranto, di cui é
intatto solo il portale ogivale e il portico, unico esempio di
architettura civile di epoca aragonese.
Più
avanti il decumano si allarga a formare l’attuale piazza San
Gaetano alla quale fanno
da quinta le
basiliche di San
Paolo maggiore (dell’VIII secolo, ma completamente ristrutturata
a partire dal XVI secolo) e San Lorenzo Maggiore (nata nel XIII
secolo, sull’area di un primitivo impianto cristiano del VI
secolo).
San
Paolo Maggiore è stato costruito su un tempio di stile corinzio
dedicato ai Dioscuri, di cui oggi sono visibili tratti del
basamento del V secolo, un muro in “opus reticolatum” e due
colonne ai lati dell’ingresso della chiesa dopo che nel XVII
secolo a causa di un terremoto crollò il pronao sopravvissuto
fino ad allora.
Molto
complessa é la stratificazione che si é trovata sotto San
Lorenzo Maggiore e che é uno dei più interessanti saggi
archeologici costruiti nella
città. Sono infatti venuti alla luce, oltre
la pavimentazione della Chiesa paleocristiana, i resti di
un edificio altomedievale (probabilmente un seggio della città),
il macello, un cardine e altri ambienti tra cui forse l’Erario
romano, locali destinati ad attività artigianali, altri ancora
adibiti a mercato, una cisterna e un muro greco.
Andando
avanti lungo la via Tribunali, si incontra un’altra piazza,
quella dei Gerolomini, antistante
l’omonima Chiesa, del XVIII secolo. Nello stesso
largo sorge anche la Chiesa di San Maria della Colonna
,rifatta nel XVIII secolo.
Proseguendo
si attraversa la via Duomo che é ricavata dall’allargamento di
un antico cardine e si giunge alla piazza Sisto Riario Sforza e al
Pio Monte della Misericordia.
Si
incrocia qui la piazza Sedil Capuano, chiamata così perché nel
passato fu sede di un seggio. Oltre la piazza si trova la Chiesa
di Santa Maria della Pace (del XVII secolo) e l’annesso
ospedale, fondato nel 1587 a seguito della trasformazione di un
palazzo quattrocentesco, di cui resta l’androne, il portale e il
basamento.
Più
avanti si elevano due palazzi, l’Orsini del XVI secolo, e l’attuale
archivio storico del Banco di Napoli, dalla facciata
settecentesca, un tempo Sacro Monte del Banco dei Poveri.
Andando
avanti il Castel Capuano (del XII secolo ma ripetutamente
modificato e restaurato, fortezza e dimora di vari regnanti prima
di diventare Palazzo di Giustizia e carcere nel XVI secolo), con
la sua mole severa, chiude a oriente via Tribunali.
PIAZZA
RIARIO SFORZA E LA GUGLIA DI SAN GENNARO
La
piazza prende nome dal cardinale Sisto Riario Sforza, arcivescovo
di Napoli tra il 1845 e il 1877, il quale, oltre che pastore di
anime, fu anche uomo di cultura e di grande sensibilità
artistica.
Essa
si apre su Via Tribunali, all’ altezza del fianco destro del
Duomo ed ha probabilmente antichissime origini.
La
tradizione vuole, infatti, che su questo largo nel periodo
greco-romano prospettasse un tempio, secondo alcuni dedicato ad
Apollo, secondo altri a Nettuno.
Gli
archeologi non hanno ancora dato una risposta scientifica a questa
ipotesi. Tuttavia, nel Seicento, scavando presso il Campanile del
Duomo, vennero alla luce una grande colonna di marmo cipollino ed
altri materiali, questi ultimi, non portati in superficie, che
potrebbero confermare la presenza sul posto di architetture
antiche significative.
Nel
passato gli studiosi napoletani ritenevano che unico elemento
superstite del tempio pagano fosse il cavallo di bronzo visibile
nella piazza fino ai primi del Trecento, costruito, secondo una
leggenda medievale, da Virgilio e dotato da parte dello stesso
poeta, a cui si attribuivano virtù magiche, di poteri
taumaturgici. Sembra, infatti, che fosse in grado di curare le
malattie dei cavalli.
Questo
potere, però, sarebbe andato perduto, dopo che alcuni
maniscalchi, che vedevano insidiato il loro lavoro, ebbero forato
la scultura in vari punti. Il cavallo, privato di queste
capacità, fu fuso nel XIV secolo per ricavare le campane del
Duomo.
Nel
periodo angioino il lato di fondo della piazza fu chiuso dal
fianco del Duomo e da un campanile sulla destra, crollato nel
1349, di cui oggi si vede il basamento.
Sul
lato sinistro nel XV secolo venne costruito un palazzo dei
Caracciolo, che, più volte rifatto , conserva della struttura
originaria il portale su Via Tribunali e una fascia marcapiano.
L’aspetto
attuale del largo si è, in realtà, definito nel corso del 1600
con la costruzione della Guglia di S.Gennaro, a cui sembrano
subordinati tutti gli edifici della piazza.
Essa
fu eretta come “ex voto” al Santo che aveva salvato la città
dall’eruzione del Vesuvio del 1631. L’opera fu eseguita da
Cosimo Fanzago (Clusone 1591- Napoli 1678) dal 1636 e, per vari
contrasti, inaugurata solo nel 1660.
Esempio
primo di un nuovo tipo di arredo urbano, sintesi, sul piano
formale, tra architettura e scultura, la guglia marmorea, è
formata da un alto basamento e da una colonna terminante con un
capitello ionico, sormontato dalla statua di S.Gennaro, in bronzo,
opera di Tommaso Montani (Napoli, documentato tra il 1594 e il
1622).
Al
di sopra della base si legge che il monumento è dedicato al Santo
Patrono; nel lato verso il Duomo si nota invece lo stemma della
città. In questa opera Fanzago appose anche un suo autoritratto
in marmo, oggi conservato nel Museo di S.Martino.
Nel
corso del XVII secolo all’interno del Duomo fu costruita la
cappella del tesoro di S.Gennaro, la cui cupola , dalle masse
robuste e conclusa in alto dai simboli del martire (le due ampolle
del sangue su un vassoio), emerge poderosa alle spalle del già
citato palazzo di Ser Gioioso Caracciolo.
Sul
lato destro della piazza, fra il Sei e il Settecento nacquero
architetture non molto caratterizzate e sempre nel Seicento, a
chiusura del quarto lato, a
filo di strada con Via Tribunali, si realizzò, elegante e severo
nel suo prospetto, il Pio Monte della Misericordia.
PIO
MONTE DELLA MISERICORDIA
Il
Pio Monte della Misericordia, sede di una pia istituzione laicale,
espressione dell’ideologia della Controriforma che portò alla
creazione di tante opere caritative, venne istituito quale ente
benefico durante il Viceregno Spagnolo, il 19 aprile 1602, da
sette nobili napoletani.
Essi
si proponevano in un periodo di crisi politica e morale e in un’
epoca in cui la pubblica amministrazione si disinteressava degli
indigenti e del ceto umile sfruttato, di raccogliere e convogliare
i donativi e i lasciti agli strati sociali più emarginati :
poveri, carcerati e infermi.
Prima
di istituire
l’ Ente ufficialmente, i sette
nobiluomini avevano
già svolto un’
attività di volontariato presso l’ Ospedale degli Incurabili,
allo scopo di confortare i malati lì ricoverati ed erano andati a
turno per le strade di Napoli a raccogliere elemosine da devolvere
agli infermi.
La
carta di fondazione del Monte, detta Capitolazione, organizzata in
trentatre articoli relativi all’ amministrazione dell’
Ente, fu approvata con regio assenso da Filippo III
nel 1604 e l’ anno seguente da Papa Paolo V con un breve.
Ottenuto
il riconoscimento i promotori decisero di costruire una sede
idonea al compito che dovevano svolgere.
Acquistarono
così due case nei pressi di Sedil Capuano, di fronte al Duomo,
una dalla famiglia Tomacelli, l’altra dal marchese della Gioiosa
e diedero inizio ai lavori di trasformazione che furono diretti
dall’architetto Giovan Giacomo di Conforto.
La
struttura realizzata,tuttavia,
si rilevò presto insufficiente, poco funzionale e mal situata al
fronte della rumorosissima via Tribunali; sicché quarant’anni
dopo si stabilì di ricostruire l’intero complesso con forme che
rispecchiassero la posizione di prestigio e di potere economico
acquisita dall’istituzione.
I
lavori, iniziati il 26 febbraio 1658 e ultimati nel 1672, furono
affidati a Francesco Antonio Picchiatti, figlio dell’architetto
Bartolomeo, che rivoluzionò l’ aspetto dell’edificio,
abbattendo la facciata della Chiesa
precedente e costruendo un pronao.
Il
palazzo presenta due piani sopraelevati ad un portico in piperno,
formato da cinque arcate che diventa filtro per i rumori esterni
e, allo stesso tempo, atrio per il palazzo e pronao per la chiesa;
gli archi del porticato si impostano su lesene ioniche con
capitelli alla michelangiolina, con un festone pendente tra le
volute.
Sulla
trabeazione è riprodotto il motto della fondazione: FLUENT AD EUM
OMNES GENTES.
I
due piani superiori sono separati in cinque
zone da lesene e presentano una lunga balconata continua
nel primo e cinque balconi nel secondo,le cui cornici
sono in piperno scolpito , contornati da volute in stucco.
Sotto
il portico si aprono gli ingressi degli uffici e della chiesa e
sono situate alcune sculture degne di nota.
A
sinistra del portale della chiesa è la Madonna della
Misericordia, a destra una figura allegorica femminile che
riassume tre delle opere praticate dal Monte: la liberazione dei
carcerati, il dar da mangiare agli affamati ed il vestire gli ignudi.
Un’altra
allegoria muliebre è posta a sinistra dell’ingresso degli
uffici e allude al seppellire i morti, al dar da bere agli
assetati, all’ospitare i pellegrini, al visitare gli infermi.
Autore
delle sculture fu Andrea Falcone col quale collaborò il marmoraro
Pietro Pelliccia.
In
verità, in un primo momento i governatori del Monte avevano
pensato di affidare l’ ornamentazione plastica a Cosimo Fanzago,
che aveva fondato a Napoli una vera e propria scuola di scultori;
ma poiché questi non si rese disponibile, essi optarono per il
Falcone, artista poliedrico e versatile, appartenente alla
corrente artistica classicista, anche se in alcune sue opere si
coglie qualche apertura al barocco.
Sua
creazione è anche il Re David, che si trova sulle scale che
portano alla Pinacoteca, che non era stato realizzato, tuttavia,
per il Pio Monte, ma per la Cappella Merlino della chiesa del
Gesù Nuovo.
La
chiesa ha una pianta ottagonale con sette altari , corrispondenti
alle sette opere di misericordia svolte dall’istituzione e ai
sette dipinti che le rappresentano.
Sull’altare
maggiore c’è l’ importantissima tela “La Madonna della
Misericordia” di Caravaggio. Nella stessa cappella, ai lati dell’altare,
ci sono altre due
tele, una “S.Anna” di Giacomo di Castro e la “Madonna della
Purità” di Andrea Malinconico.
Nelle
altre cappelle, a partire da destra rispetto all’altare
maggiore, sono sistemati il “Buon Samaritano” di G.Vincenzo D’
Onofrio da Forlì, “Gesù e la Samaritana” (meglio definibile
“Gesù ospitato in casa di Marta e Maria”) di Fabrizio
Santafede, “S. Paolino libera lo schiavo” di Giovan Bernardino
Azzolino, “San Pietro liberato dal carcere” di Battistello
Caracciolo, la “Deposizione di Cristo” di Luca Giordano e
infine un’altra opera del Santafede la “Resurrezione di Tabita”.
Sul
portale d’ingresso c’è ancora un’altra pittura, copia di un
lavoro di L. Giordano, che raffigura la “Adultera al Palo”.
Negli
angoli dell’ottagono che forma la chiesa vi sono dei pilastri
compositi in marmo bardiglio sui quali si imposta una cupola a
sesto rialzato e con doppia fila di finestre, divisa in otto
spicchi a sesto acuto da larghi costoloni.
Il
pavimento è un esempio interessante di tarsia marmorea mista a
cotto. Anche esso è diviso in spicchi da fasce di marmo
intarsiato che sono la continuazione dei costoloni della cupola.
Di
grande bizzarria sono le due acquasantiere disegnate dal
Picchiatti ed eseguite dal Falcone, site ai lati dell’ ingresso,
che presentano elementi astratti, animali e vegetali che si
fondono creando una struttura fantastica con volute, ali di
pipistrello, piume e conchiglie, dando vita ad un insieme
inquietante, vagamente somigliante ad una civetta.
La struttura del Pio Monte più importante, oltre la
chiesa, è senza dubbio la quadreria, la cui collezione consta
attualmente di tre nuclei principali (135 opere ca.), il primo dei
quali è composto dall’eredità di Francesco De Mura, che in
morte lasciò all’Ente tutto il suo studio (41 quadri), il
secondo da un congruo lascito di tele databili tra il XVII e il
XIX secolo di Donna Maria Sofia Capece Galeota , il terzo
da dipinti di varia qualità ed importanza di cui sarebbe
difficile stabilire l’origine e il momento in cui sono entrati a
far parte della quadreria.
MICHELANGELO
MERISI DA CARAVAGGIO
-
NOSTRA SIGNORA DELLA MISERICORDIA -
(LE
SETTE OPERE DI MISERICORDIA)
L’
opera, commissionata all’artista nel 1607, è situata sull’
altare maggiore del Pio Monte della Misericordia e costituisce l’attrattiva
maggiore per chi entra nella chiesa.
In
essa il Caravaggio rappresenta le sette opere di misericordia
corporali che si svolgono tutte contemporaneamente in una stessa
scena, affollata da personaggi la cui azione viene unificata da
una luce proveniente da più parti e più forte nella zona in cui
è la fiaccola, che conferisce ordine ed equilibrio al tutto.
I
personaggi sintetizzano con pochi gesti tutta l’essenza della
carità cristiana, rappresentata con le vesti della quotidianità
plebea.
La
scena, infatti, ambientata in un animato vicolo di Forcella o di
Pizzofalcone, è trattata come episodio della vita reale.
Le
opere di misericordia sono rappresentate da personaggi diversi,
alcuni dei quali riconosciuti come figure bibliche o tratti dalla
storia antica.
Sull’estrema
sinistra vediamo Sansone che si disseta alla mascella di un’
asina e, davanti a lui, un oste che riceve due pellegrini, in uno
dei quali è raffigurato San Rocco; dell’altro pellegrino si
vedono invece soltanto il bastone e un orecchio.
Queste
due scene simboleggiano il dar da bere agli assetati e l’
ospitare i pellegrini.
Un
po’ più al centro, in primo piano, troviamo un giovane dal
cappello piumato e la spada ancora sguainata, forse San Martino,
che divide il mantello con un ignudo riverso dinanzi a lui in
posizione inconsueta e originale; rivolge, infatti, le spalle e la
pianta del suo piede destro all’ osservatore.
Sono
qui riassunte due opere : vestire gli ignudi, ma anche visitare
gli infermi, dal momento che non si può ignorare la presenza di
un povero paralitico, di cui si vede bene solo il piede.
Al
centro della composizione si intravedono due mezze figure, un
diacono con una fiaccola in mano ed un necroforo che trasporta un
morto, di cui si notano solo i piedi.
L’
episodio è la rappresentazione dell’ opera misericordiosa di
seppellire i morti.
A
destra del quadro è dipinta la finestra di un carcere dalle cui
sbarre si affaccia un vegliardo, che viene allattato da una
fanciulla.
La
critica riconosce in questi due personaggi Cimone e la figlia
Pero, che, come ricorda lo storico Valerio Massimo, sfidando
tutti, si recava a nutrire come poteva il padre, condannato a
morire di fame nel carcere.
Quest’esempio
di amore filiale commosse i giudici che rimisero in libertà il
vecchio e decretarono l’edificazione
di un tempio dedicato alla “Pietas” ed eretto nel 181
a.c. a Roma, nel foro olitorio, dove si erano svolti i fatti.
Caravaggio
riunisce in questo episodio l’ opera caritatevole di visitare i
carcerati e quella di dar da mangiare agli affamati.
In
alto è rappresentata la visione celeste della Madonna con il
bambino sorretti da due angeli.
Il
gruppo guarda attentamente lo svolgimento delle opere
caritatevoli, senza dare l’idea, tuttavia, di voler giudicare.
I
gesti degli angeli (l’ abbraccio e il braccio di uno di loro
teso verso il basso) alludono, il primo alla tematica della
fratellanza, il secondo, alla trasmissione della Grazia gratuita
concessa da Cristo.
Da
tutta l’ opera, sia che si guardi la rappresentazione dell’umano
che del divino, traspare la suggestiva poetica del Caravaggio di
profonda aderenza al vero e la sua scelta rivoluzionaria di
rappresentare la natura, rompendo con i canoni tradizionali e con
gli schemi tardo-manieristici nei quali operano gli artisti suoi
contemporanei, in modo immediato e talora brutale, anche
attraverso l’ uso particolare di luci ed ombre ora radenti, ora
profonde, ora balenanti, che plasmano le figure e rendono le
azioni concitate e piene di tensione esistenziale.
Ce
lo raccontano i personaggi con il loro essere ed il loro fare solo
apparentemente privo di carica morale e religiosa.
Ce
lo dicono cose altrimenti prive di significato, come la goccia di
latte che bagna la barba del vecchio e lo sforzo fisico dell’
ignudo, davanti al quale si alza una nuvoletta di polvere,
probabilmente a causa di un movimento improvviso del piede.
E
“più su” ce lo fanno percepire la mano sinistra dell’
angelo vistosamente arrossata, che esprime lo sforzo compiuto
dalla persona che ha fatto da modello a stare per ore in una
posizione acrobatica e la Madonna, che, più che un’apparizione
celestiale, è una madre con un figlio che si affaccia ad una
balcone tra la biancheria posta ad asciugare.
GIOVAN
VINCENZO FORLI
-
IL BUON SAMARITANO -
Il
Forli è un artista molisano, attivo a Napoli tra il 1592 e 1l
1639 e legato al tardo-manierismo, come Santafede, caposcuola
della cultura riformata a Napoli, e Azzolino.
Nel
dipingere il Buon Samaritano che rappresenta l’opera
misericordiosa del visitare gli infermi, l’artista usa un’
iconografia tradizionale impregnata di ricordi veneti e, nel modo
di trattare il paesaggio, fiamminghi.
Tuttavia,
in questa tela si può cogliere la suggestione che su di lui ha
esercitato l’opera del Caravaggio ed il suo tentativo di
adeguarsi ad una pittura di tipo naturalistico.
Si
veda la palma del piede del ferito rivolta verso l’ osservatore
che diventerà un “topos” del Seicento e del Settecento ed il
complesso ,sia pure modesto, della Madonna con gli angeli.
Il
dipinto risulta essere stato pagato al Forli nel 1608.
FABRIZIO
SANTAFEDE
-
Gesù e la Samaritana ovvero Gesù ospitato in casa di Marta e
Maria -
Il
Santafede è da considerarsi il caposcuola della pittura
controriformata a Napoli.
Il
percorso artistico che lo caratterizza lo porta ad affiancarsi
alle forze più vive del Manierismo napoletano e di importazione e
allo germinare della pittura caravaggesca.
Egli,
nella sua produzione tende, da un lato a recuperare un classicismo
quasi raffaellesco, dall’ altro ad un naturalismo semplice e
piano e ad una affettuosa ed alquanto devota indagine della
realtà.
Queste
scelte gli permettono di opporre ad una tendenza al decorativismo
del suo tempo, un suo severo contentismo ed un’ aderenza al
soggetto che, pur venendo incontro a richieste devozionali, apre
uno spiraglio alla vita quotidiana.
Nelle
sue opere si ritrova anche uno studio del pittoricismo veneto
grazie al quale egli riesce a rendere luci ed ombre in modo reale,
tanto da essere definito dai critici, il pittore che a Napoli
tratta la luce in modo più naturale.
Il
suo discorso pittorico è corretto e dignitoso e tale da farlo
diventare un punto di riferimento per gli artisti più
conservatori.
Due
sono le tele commissionate dalla Confraternita del Pio Monte al
Santafede e da lui realizzate intorno al 1612 : “Gesù e La
Samaritana” e “La resurrezione di Tabita” .
La
prima opera, che ha molti personaggi, un colorito addolcito, ombre
studiate e contorni precisi, è di complessa interpretazione, in
quanto, tradizionalmente, quando nei dipinti veniva rappresentato
questo soggetto, nella scena figurava sempre un pozzo, cosa che
qui non è presente.
Per
quanto riguarda i contenuti del racconto, l’artista si è
ispirato ad un passo di San Luca nel quale si narra di come Gesù
venga accolto in casa di due sorelle, di nome Marta e Maria e
mentre Marta è tutta affaccendata per la presenza dell’ ospite,
la sorella Maria preferisce ascoltare la parole del Signore,
guadagnandosi così la salvezza.
Il
quadro rappresenta l’ opera caritatevole di ospitare i
pellegrini e ciò è testimoniato dalla presenza, in basso nella
tela, di due pellegrini, appunto, con il tipico bastone .
FABRIZIO
SANTAFEDE
-
LA RESURREZIONE DI TABITA -
L’ episodio presentato è tratto da un passo degli Atti
degli Apostoli, in cui si narra della morte di Tabita, una donna
di Giaffa, dedita alle opere di bene, la quale in vita aveva
confezionato e donato tuniche e mantelli alle vedove indigenti e,
di come, S. Pietro, implorato dagli altri discepoli e dalle
persone che piangevano la sua fine, la resuscitò.
Nell’
opera il Santo è raffigurato in piedi accanto al letto sul quale
giace Tabita che ha appena aperto gli occhi pieni di meraviglia.
Intorno
ci sono le vedove che, chiamate dall’ apostolo, mostrano a quest’
ultimo gli indumenti avuti in dono da lei, un infermo che si
appoggia alle stampelle ed ha del pane tra le mani, altre donne
con monete in mano e, in primo piano in basso, un uomo nudo con le
spalle rivolte all’ osservatore, che ricorda molto le figure
caravaggesche.
La
composizione contiene soggetti ritratti dal vero, sia pure
idealizzati in senso devozionale.
Nella
tela vengono riassunte le seguenti opere di misericordia :
sovvenire i poveri vergognosi e cioè : dar da mangiare agli
affamati, dar da bere agli assetati, vestire gli ignudi.
GIOVAN
BERNARDINO AZZOLINO
-
SAN PAOLINO CHE RISCATTA LO SCHIAVO -
La
tela raffigura San Paolino, vescovo di Nola, che offre la propria
persona per riscattare il figlio di una vedova, fatto schiavo
prigioniero dai Turchi.
Il
riscatto dei prigionieri caduti nelle mani dei Turchi era una
delle opere maggiormente esercitate dal Pio Monte della
Misericordia.
Tale
attività, però, nel 1853, essendo mutate le condizioni storiche,
con un decreto reale, fu convertita in quella di togliere “dalla
miseria e dal vizio quelle fanciulle che fossero state condotte in
mala vita”.
Il
dipinto che oggi viene attribuito all’Azzolino, in passato è
stato da molti critici ritenuto di Carlo Sellitto, il quale,
invece, secondo alcune tesi più recenti avrebbe probabilmente
solo iniziato a lavorare all’opera, ma non l’ avrebbe
conclusa. In questo senso potrebbe essere di sua mano la figura
dello schiavo in basso a sinistra, che ha un’ impostazione
caravaggesca così forte da non poter essere attribuita all’Azzolino,
a cui i modi di dipingere del Merisi restarono sostanzialmente
estranei, nonostante in qualche suo quadro non manchino citazioni
para-caravaggesche.
Per
il resto l’opera riporta al fare pittorico dell’artista, detto
anche il Siciliano, sia per quel che riguarda l’impostazione
tardo-manieristica della costruzione spaziale, sia per il modo in
cui è trattata la luce, che è diurna, sia per il disegno ed il
colore che risulta avere una finitura porcellanata.
La
stessa parte superiore della tela, con la “gloria”, richiama
una Trinità posta sopra un dipinto di san Carlo che si trova
nella cappella Borrello della chiesa del Gesù, decorata
completamente dell’Azzolino.
GIOVAN
BATTISTA CARACCIOLO
-
SAN PIETRO LIBERATO DAL CARCERE -
L’
opera venne commissionata dai governatori del Pio Monte della
Misericordia nel 1613 a Carlo Sellitto, un pittore naturalista,
morto però l ‘ anno successivo ; per cui nel 1615 la sua
esecuzione fu affidata ad un artista di primo piano nell’ arte
napoletana, Giovan Battista Caracciolo, in assoluto il più
caravaggesco tra i pittori naturalisti napoletani, nato nella
città nel 1578 e ivi morto nel 1635 e noto anche come Battistello
Caracciolo.
Il
dipinto da lui realizzato per la Chiesa del Pio Monte corrisponde
all’ opera di misericordia verso i carcerati, raffigurata dal
Caravaggio nel quadro posto sull’ altare maggiore attraverso l
‘ episodio di Pero che allatta il prigioniero Cimone, suo padre.
E
come il maestro lombardo aveva raffigurato il concetto astratto
delle opere di misericordia in termini di vita vissuta, così il
Battistello interpreta l’ evento miracoloso come un fatto di
vita quotidiana e reale.
Nella
tela, infatti, viene rappresentato un angelo, la cui veste
luminosa allude ad un intervento divino, che trascina fuori dalla
prigione un vecchio ed incredulo Pietro, incamminandosi con lui,
fra una schiera di soldati addormentati verso una porta aperta a
sinistra, dalla quale penetra la luce che ha il compito di
illuminare la scena che è avvolta in una suggestiva oscurità.
L’
uso dell’ intenso chiaroscuro, il realismo dei personaggi e la
profonda comprensione del messaggio artistico caravaggesco rendono
l’ opera molto vicina a quella del Merisi, che Caracciolo
dovette conoscere di persona.
Fra
le analogie più significative basta citare il soldato in basso a
destra del quadro, con le piante dei piedi sporche e le spalle
rivolte all’ osservatore, che riprende la figura dell’ ignudo
situato nella parte inferiore delle sette opere di misericordia di
Caravaggio e ancora il guerriero di sinistra che indossa un
elmetto identico a quello del soldato della “Negazione di Cristo”
dello stesso artista.
Nel
dipinto, tuttavia, non mancano elementi che differenziano il fare
pittorico del Caracciolo da quello del maestro lombardo e che
legano l’artista anche ai grandi pittori romani e ai classicisti
bolognesi.
La
luce, ad esempio, che fa brillare l’elmetto del soldato e rende
abbagliante il bianco della veste dell’ angelo crea un effetto
particolare che dà alle figure una consistenza scultorea.
L’
opera è firmata sulla palla della catena con due monogrammi.
LUCA
GIORDANO
-
DEPOSIZIONE DI CRISTO -
Questa
tela sostituisce una “Sepoltura del Redentore” eseguita nel
1656 da Giovanni Baglione (attualmente nella quadreria del Pio
Monte), che, per i rapporti di simmetria voluti dall’architetto
F.A. Picchiatti all’interno della Chiesa, non risultava in
sintonia con le altre opere realizzate per gli altari.
Essa,
come si legge accanto alla firma dell’ artista, è datata 1677,
anche se alcuni critici sostengono che sia stata elaborata nel
1669.
L’
autore del dipinto è Luca Giordano, nato a Napoli nel 1634 e
morto nelle stessa città nel 1705, un artista versatile e ricco
di capacità di rielaborare con estrema facilità la influenze
più diverse e significativo per il fatto che, attraverso le sue
produzioni, si può cogliere bene il cammino e l’evoluzione, in
termini barocchi, dell’arte nell’ ambito del 600.
L’
opera che illustra l’azione caritatevole di seppellire i morti,
rappresenta il momento in cui Cristo, deposto dalla croce, viene
sepolto secondo il racconto dei Vangeli.
I
personaggi maschili che, in primo piano, sorreggono Gesù, sono
Giuseppe di Arimatea e Nicodemo, le donne sono Maria di Magdala e
Maria, madre di Giuseppe, che assistono alla scena pregando
insieme ad altri fedeli giunti dalla Giudea.
In
alto a sinistra una schiera di angeli partecipa addolorata all’evento.
In
basso a destra, per chi guarda, sono visibili i simboli della
Crocifissione (la corona di spine, un chiodo, un martello).
Dal
punto di vista stilistico, nell’opera ricordi naturalistici e
ribereschi presenti nei volti dei due vecchi impegnati nell’opera
di sepoltura e nella luce (che allude all’ora del tramonto)
si associano ad un fare pittorico più sciolto, che
permette all’ artista di rendere fluido, chiaro e talvolta
argenteo il colore e di sciogliere i contorni in una luminosa
vibrazione atmosferica.
Quando
realizza il dipinto il Giordano ha, infatti, già assimilato bene
l’ esperienza coloristica dei pittori veneti.
COSIMO
FANZAGO
(CLUSONE,
BERGAMO 1591 - NAPOLI 1678)
Personalità
di spicco nella scultura e nell' architettura napoletana, tanto da
creare intorno a sè un grosso seguito, giunse giovanissimo in
città, nel 1612, e vi rimase fino alla morte. Tra il 1623 e il
1631 realizzò l' opera più nota, il grande Chiostro di San
Martino che al nitore neoquattrocentesco delle strutture, unisce
un apparato plastico decorativo di gusto già barocco. A questo
stile appartengono anche alcune delle sue più belle sculture
(figure del Beato Albergati e di S. Ugo, inserite sulle porte).
Pienamente barocche le sue opere napoletane più tarde : la Guglia
di San Gennaro, la Chiesa di S. Teresa a Chiaia, il Palazzo di
Donn' Anna a Posillipo (1635-1644), la cappella del Palazzo Reale.
Realizzò anche la Chiesa di S. Maria Maggiore a Pietrasanta
(iniziata nel 1653, molto danneggiata nel 1943), quella dell'
Ascensione a Chiaia (1657) e di S. Maria Egiziaca a Pizzofalcone
(1651).
GIOVAN
GIACOMO (DI) CONFORTO
(1569
- 1630)
Lavorò
a Napoli tra il 1595 e il 1630. Nelle sue opere vengono sviluppate
in modo acculturato e decoroso le proposte architettoniche del
Vignola (Vignola 1507 - Roma 1573), che auspicava per l' arte del
suo tempo una "regolata mescolanza" dell'antichità
romana e delle esperienze architettoniche cinquecentesche e
aderiva alle richieste controriformistiche della Chiesa in materia
di costruzione di edifici sacri. L' attività del Conforto a
Napoli fu di grande spessore culturale specialmente per il ruolo
che egli ebbe nella mediazione tra le severe formule
controriformistiche e l' avvio al barocco. Stimato e ricercato, l'
artista si avvalse nella direzione dei suoi lavori della
collaborazione dm Fanzago giovane e contribuì molto alla sua
formazione e alla sua affermazione. Oltre che alla prima
costruzione del Palazzo e della Chiesa del Pio Monte della
Misericordia, il Conforto eseguì a Napoli anche altre opere tra
cui : la Chiesa di S. Teresa agli Studi (1602-1612) ; la Chiesa di
S. Agostino degli Scalzi (1604-1630) ; il Campanile del Carmine
(1615-1622) ; inoltre intervenne nella realizzazione della Chiesa
della SS. Trinità alle Monache (1616-1623) ; lavorò anche alla
Certosa di San Martino (1609-1623) e alla Chiesa di S. Maria della
Sapienza (1625-1630).
FRANCESCO
ANTONIO PICCHIATTI
(DA
NAPOLI 1617 - 1694)
Figlio
di un architetto, Bartolomeo, ereditò da lui (dal 1644) la carica
di ingegnere maggiore del regno, impostando subito la sua
attività in una prospettiva di ufficialità. Le sue opere insieme
a quelle di Cosimo
Fanzago sono molto significative, in quanto hanno concorso in
maniera sostanziale a caratterizzare l' aspetto di Napoli nel 600.
Il suo discorso artistico resta a metà fra i canoni tradizionali
classici e la ricerca dell' effetto barocco, fra una proposta
basata sull'essenzialità possente ed un' altra basata sulla
mobilità di particolari infiniti. Le sue opere in città sono
numerose. Tra le più significative, oltre il Palazzo e la chiesa
del Pio Monte della Misericordia, si elencano: il convento della
Croce di Lucca (ricostruzione a partire dal 1643) ; il portale
della facciata della Chiesa di S. Caterina a Formiello (1655) ; la
ristrutturazione della facciata del complesso di S. Maria dei
Miracoli (1662) ; il Castello del Carmine (1662) ; la Chiesa del
Divino Amore (1662) ; la decorazione del Coro della Chiesa di
Donnaregina (1682).
ANDREA
FALCONE
(DA
NAPOLI 1630 CA. - 1675)
Rappresenta
uno dei più significativi scultori a Napoli fra il 1650 e il
1675. Probabilmente fu allievo di Cosimo Fanzago, ma di sicuro fu
suo collaboratore, anche se si mantenne su posizioni in parte
diverse, attenendosi ad un classicismo più aggiornato. Nel 1659
si recò a Roma, dove ebbe modo di approfondire la conoscenza
dell'arte classica. L' importanza di Falcone a Napoli è
rappresentata dalla sua capacità di raccordare le esperienze
degli scultori stranieri presenti in città agli inizi del secolo,
sviluppando una singolare cultura plastica napoletana. Tra le sue
opere, oltre a quelle eseguite per il Pio Monte della
Misericordia, ricordiamo : il "San Domenico" nella
Chiesa di S. Domenico Maggiore (1664 ca.) ; i lavori alla Cappella
del Tesoro del Duomo di S. Gennaro (insieme a Giordano e a
Dionisio Lazzari) ; le statue in stucco dei Santi Pietro e Paolo
per la facciata di San Paolo Maggiore (ancora insieme al Lazzari)
; l' effigie di Isabella Guevara nella Chiesa di Gesù e Maria.
Inoltre l' artista riveste una posizione importante, in quanto si
occupa anche di scultura lignea, di decorazione marmorea, di
progettazione architettonica e di settori più speciali dell'
attività scultorea come la statuaria in argento.
MICHELANGELO
MERISI
DETTO
DAL SUO PAESE DI ORIGINE NEL BERGAMASCO IL CARAVAGGIO
(1573-1610)
Segna
la terza tappa dell’arte italiana, dopo Giotto e Masaccio, verso
la resa della verità naturale, per raggiungere la quale fa cadere
l’ultimo diaframma, cioè la stereotipa idealizzazione
manieristica.
Ma
alla fine del ‘500 gli aspetti della realtà si presentano
molteplici, non sono più riconducibili all’Umanesimo del tempo
di Masaccio e meno ancora alla umana coralità dipinta da Giotto.
Caravaggio
deve ora fare una scelta ed eleggere la resa immediata ed
essenziale di qualunque oggetto che una luce direzionale, guidata
con sicurezza da lui, fa diventare perentorio soggetto, strappato,
quasi, alle tenebre e costruito plasticamente in primo piano a
dimostrare il suo valore di esistenza, sia caduca, come la frutta
in un cesto, sia eterna per il messaggio che si rinnova, come un
episodio del Vangelo.
Questo
suo realismo fu considerato rivoluzionario ed anche osteggiato,
mentre il classicismo riformato di Annibale Carracci ebbe
contemporaneamente maggiori consensi come li ebbe, poi,
incondizionati, il barocco del Bernini.
Formatosi
giovanissimo a Milano, più che alle varianti manieristiche
dominanti egli guardò indietro, risalì a quella pittura della
provincia lombarda, non lontana da Caravaggio, del Moretto, del
Savoldo, del Moroni, dello stesso Lotto, dal moderato naturalismo,
dalle immagini concrete, dalla luce costruttiva radente o notturna
e nota gli fu anche la pittura veneta.
Giunto
a Roma intorno al ‘90, il linguaggio plastico di Michelangelo
nei nudi “senza ornato” della Sistina è per lui una grande
lezione.
Dopo
un periodo di umile tirocinio comincia a lavorare per il cardinale
Del Monte e per una committenza di alto livello che accetta nuove
proposte artistiche.
Dipinge
ora immagini di giovani a mezzo busto perentoriamente illuminati
da una luce frontale contro un fondo unito, ambigui come il Bacco degli Uffizi o malaticci, panneggiati di bianco sui torsi
nudi davanti a coppe di cristallo e frutta, immagini che nel colto
ambiente per cui erano dipinte dovevano alludere al alti concetti,
come, fra l’altro alla caducità delle cose umane, ma che per
essere così chiare, dopo tanta concettosa pittura allegorica
manieristica, assumono per noi un emblematico carattere vitale.
Ed
a dimostrare che non sono i temi a fare arte egli isola e
trasforma in soggetto anche un cestino ricolmo di frutta, il ben
noto Canestro di frutta, all’Ambrosiana di Milano.
Esegue
inoltre in questo tempo un Riposo
nel viaggio in Egitto, ora nella Galleria Doria Pamphili,
unica opera che contenga un paesaggio.
Vengono
poi gli anni, gli ultimi del secolo, in cui dipinge le tele per la
Cappella Contarelli e a queste prime opere pubbliche altre ne
seguirono, prevalentemente religiose.
Trattati
con immediatezza sono i due dipinti, La
Conversione di Paolo e La
Crocifissione di Pietro, per la chiesa di Santa Maria del
popolo, con Paolo folgorato dalla luce, riverso sotto il suo
cavallo, e, di contro, la “macchina” della croce di Pietro
faticosamente issata dai sicari: poche figure, poste in primo
piano contro l’oscurità che cancella ogni riferimento
ambientale.
Tra
i quadri di dimensione maggiore vi è La
Morte della Vergine, ora al Louvre, rifiutata dai committenti
ma subito acquistata dal duca di Mantova, in cui la desolazione
degli apostoli grava tutto intorno al letto sul quale è adagiato
il corpo di Maria, un donna appena spirata, non ancora composta
per le esequie.
Nel
1606 il Caravaggio deve fuggire da Roma perchè accusato di
omicidio: va a Napoli e vi tornerà tre anni dopo, poi a Malta,
quindi in Sicilia dove lavora a Palermo, a Siracusa, a Messina.
A
Napoli dipinge fra l’altro Le
sette opere di Misericordia, mirabilmente compendiando in una
composizione unitaria i sette temi; a Malta la sua stringatezza
allenta la tenuta e nella Decollazione
del Battista, alla Valletta, lo squallido cortile della
prigione raccoglie il silenzioso gruppo dei sicari, dell’ucciso
e della giovine col bacile.
Lo
smarrirsi di una sicurezza espresso nella minore forza della luce
e del plasticismo, è evidente oltre che nel Seppellimento
di Santa Lucia, anche nella Adorazione
dei pastori di Messina.
E
sarà invece la luce implacabile di luglio a Porto Ercole, sulla
via di ritorno a Roma, ad aggravare un attacco di febbre che lo
porterà a morire, solo, non ancora quarantenne.
Tutta
l’arte del Seicento è in rapporto più o meno diretto col
Caravaggio, sia quella di grandi pittori come Velasquez, Rubens e
indirettamente Rembrandt, sia di coloro che
trasformarono il rigore del Maestro in émpito barocco,
come gli artisti della scuola napoletana, sia infine quei seguaci
che si arrestarono ad un realismo di genere volgarizzando il suo
linguaggio.
GIOVAN
VINCENZO D' ONOFRIO DA FORLÌ
DETTO
GIOVAN VINCENZO FORLI O FORLÌ
(CAMPOBASSO
- ATTIVO A NAPOLI TRA IL 1592 E IL 1639)
Dai
documenti che si riferiscono all'operato del pittore nella città
si ricava che la sua attività fu molto feconda. Nel 1594 fu
console dell'arte dei pittori insieme ad altri artisti, (tra cui
Teodoro d' Errico). Atti relativi ad acconti e saldi tributatigli
da parte di persone preposte alla gestione della Chiesa e del
Brefotrofio dell'Annunziata indicano che gli furono affidati per
questa istituzione e per la Chiesa numerosi lavori. Oltre che
nella Chiesa del Pio Monte della Misericordia, sue opere oggi sono
visibili nella Chiesa di S. Maria del Carmine (una "Madonna
delle Grazie"), nella Chiesa dello Spirito Santo (una
"Annunciazione" del 1602), nella Chiesa di S. Giovanni a
Carbonara (una "S. Orsola e le compagne"), nella Chiesa
di S. Maria della Sanità (una Circoncisione, saldata nel 1610).
Il Previtali in "La pittura del Cinquecento a Napoli e nel
vicereame" gli attribuisce inoltre una "Madonna con
Bambino che appare ai Santi Francesco, Agostino, Biagio e Antonio
da Padova" nella Chiesa del Gesù delle Monache. Lo stesso
Previtali dice del Forli che egli "al pari di altri artisti
italiani e spagnoli prima di adeguarsi alle nuove rivoluzionarie
tendenze naturalistiche", avrebbe partecipato "al gran
corale baroccesco di fine secolo". La corrente baroccesca,
che prende nome da Federico Fiori detto il Barocci (1528/35 -
1612, urbinate) e riconoscibile nelle "sfaldature
cangianti" del colore (di derivazione veneta) e in una linea
e in un disegno preciso ma morbido per l'uso di un chiaroscuro
modulato, si sviluppò in sintonia con un modo di dipingere dolce
e pastoso. Una pittura raffinata e cantabile nella quale non
mancano intonazioni pietistiche e coinvolgimenti psicologici in
linea con le indicazioni controriformistiche che prescrivevano
figure facilmente "didattiche".
GIOVAN
BERNARDINO AZZOLINO, DETTO IL SICILIANO
(CEFALÙ,
1572- NAPOLI, 1645)
Giunto
a Napoli nel 1594, si formò in ambito tardo-manieristico e operò
negli anni che videro l'affermazione di Caravaggio e della scuola
caravaggesca napoletana, cui rimase sostanzialmente estraneo,
nonostante alcune citazioni para-caravaggesche che ricorrono nei
suoi quadri (cfr. lo schiavo in basso a sinistra nel "San
Paolino", l' infermo a sinistra nella pala di San Pietro
Martire e i tagli d'ombra
sul volto della figura femminile in basso a sinistra nella
"Circoncisione" della Chiesa di Gesù e Maria). La sua
produzione fu spesso segnata da un
convenzionale pietismo secondo un'impostazione
controriformata che derivava da Santafede e dalle sue matrici
toscane (Ciampelli, Passignano, Santi di Tito) e si mantenne
costante con momenti di sofisticata eleganza.
GIOVAN
BATTISTA CARACCIOLO, DETTO BATTISTELLO
(NAPOLI
1578-IVI 1635)
La
sua formazione disegnativa di stampo manierista gli deriva da un
probabile apprendistato presso la bottega del pittore Belisario
Corenzio, con il quale è documentata una sua collaborazione nel
1601 alla decorazione ad affresco del Monte di Pietà. L' arrivo
del Caravaggio a Napoli nel 1606 lo vede artista già affermato e
registra la sua immediata coesione al nuovo linguaggio
naturalista, che si esplica in opere come l' "Immacolata
Concezione con San Domenico e San Francesco di Paola" (1607)
a Santa Maria della Stella, il "Battesimo di Gesù"
della Quadreria dei Gerolamini, la "Madonna col Bambino"
del Museo di San Martino. Dopo un viaggio a Roma nel 1614, dove
ebbe contatti con Orazio Gentileschi e con altri caravaggeschi
riformati, ritornò in patria ed eseguì la "Liberazione di
San Pietro"(1615, Napoli, Pio Monte della Misericordia) e la
pala della "Trinitas terrestris" (1617, Napoli, Pietà
dei Turchini). Un nuovo e più lungo viaggio lo portò a Genova
nel 1618, città in cui eseguì i perduti affreschi per il Casino
di Sanpierdarena per Marcantonio Doria, uno dei suoi maggiori
committenti. Durante il suo viaggio sostò a Roma, dove viene
ricordato per aver copiato la Galleria Farnese e per aver
intrattenuto legami con i pittori attivi al Quirinale. A Firenze,
invece, studiò i manieristi del Cinquecento, conobbe forse
Bilevert, Allori e Artemisia Gentileschi e viene citato dalle
fonti per la sua abilità di ritrattista. Il ritorno a Napoli
segna l'inizio della sua maturità artistica con le commissioni
dei Certosini per San Martino: la "Lavanda dei piedi"
del 1622 per il coro della chiesa, momento cruciale di riforma
dell'iniziale caravaggismo verso i modi del classicismo bolognese
e il ciclo di affreschi per le cappelle dell'Assunta e di San
Gennaro. La sua attività di frescante si esplica lungo tutto il
corso della sua carriera: nel 1623 ebbe l'incarico di eseguire un
pennacchio nella Cappella del Tesoro nel Duomo di Napoli, poi
rimosso per lasciar posto all'intervento del Domenichino. Intorno
alla metà del terzo decennio attese alla decorazione della Sala
del Gran Capitano in Palazzo Reale, rivelando le sue qualità di
"pittore di storia". Altri cicli ad affresco furono da
lui eseguiti nella Cappella Severino in S. Maria la Nova e nella
Cappella di S.Maria in S. Diego all'Ospedaletto. Le numerose tele
eseguite nella fase matura esprimono, nella dilatazione delle
forme, la ripresa da esempi di Lanfranco e un gusto retorico e
scenografico. Nelle opere dell'ultimo periodo, dalla "Madonna
col Bambino e S. Anna" (Vienna, Kunsthistorisches Museum) al
"Giudizio di Salomone" (Firenze, Coll. privata) si
manifesta chiaramente il suo nuovo indirizzo estetico, frutto di
una sempre maggiore attenzione per la presenza a Napoli di
Domenichino e Lanfranco.
LUCA
GIORDANO
(NAPOLI,
1634 - IVI, 1705)
Avviato al caravaggismo dal padre Antonio, anch' egli
pittore, Luca Giordano ebbe la sua precoce educazione artistica
nella cerchia di Jusepe de Ribera. Tuttavia, prima dei vent'anni
fu in viaggio attraverso l' Italia per assimilare, con prodigiosa
facilità, i diversi stili, studiando gli esempi della pittura
antica e moderna con occhio critico e spregiudicato. Nel 1652 fece
il suo primo viaggio di studio a Roma, a Firenze e a Venezia,
interessandosi particolarmente dell'arte di Pietro da Cortona e
della grande tradizione veneta del Cinquecento, sugli esempi di
Tiziano e Paolo Veronese. Nel 1653, tornato a Napoli, sviluppò,
in senso barocco, ciò che aveva appreso durante il precedente
viaggio, senza mai, comunque, abbandonare del tutto i rapporti con
la tradizione del "naturalismo" riberesco. Ebbe così
inizio quell' attività prodigiosa, caratterizzata da una
straordinaria prolificità che gli valse il soprannome di
"Luca fa presto". Nel 1665 fu nuovamente a Firenze, dove
lavorò anche per i Medici e poi a Venezia. A Napoli realizzò,
fra il 1677 e il 1679 circa, alcune grandi decorazioni ad
affresco: quella - distrutta durante la seconda guerra mondiale -
nell' abbazia di Montecassino, quella della cupola della Chiesa di
S. Brigida e il ciclo delle storie di S. Gregorio Armeno
nell'omonima chiesa. A Firenze, nel 1682, decorò la cupola della
Cappella Corsini nella Chiesa del Carmine e realizzò i primi
bozzetti per la decorazione della Biblioteca e della galleria di
Palazzo Medici Riccardi. La fama di Giordano era ormai grandissima
in Italia ma anche all' estero, tant'è che Carlo II lo chiamò in
Spagna, ove soggiornò per dieci anni, realizzando grandiose
decorazioni. Dopo la morte di Carlo II, tornò in patria, a Napoli
; nella città natale eseguì le tele per la Chiesa di S. Maria
Egiziaca a Forcella, la decorazione della Cappella del Tesoro
nella Certosa di S. Martino e l' "Incontro di S. Carlo
Borromeo con S. Filippo Neri" nella Chiesa dei Gerolamini. Al
momento della morte, Giordano era impegnato ancora in altre
decorazioni, come quella della chiesa di S. Brigida a Napoli,
completata, poi, dai suoi allievi sulla base dei bozzetti lasciati
dal maestro. Durante le varie fasi della sua attività, Giordano
esercitò una vasta influenza sui contemporanei pittori
fiorentini, veneziani e soprattutto napoletani : senza dubbio all'
esaltazione della libera invenzione e alla versatilità dell'
artista si deve un rinnovamento profondo della pittura partenopea
che, con lui, giunse ad una splendida maturità barocca.
BIBLIOGRAFIA
AA.
VV.
Biografie (Pittura) pp. 115-182 in AA. VV. Civiltà del 600
a Napoli. Ed. Electa, Napoli 1984
AA.
VV.
Biografie (Scultura) pp. 153-237 in AA. VV. Civiltà del
600 a Napoli, op. cit.
AA.
VV.
Caravaggio ed il suo tempo. Ed. Electa, Napoli 1985
AA.
VV.
Napoli
città d’arte voll. I e II. Ed. Electa, Napoli 1986
AA.
VV.
Il
secolo d’oro della pittura napoletana. Ed De Rosa, Napoli
1994-95
Abbate
F. - Previtali G.
La Pittura Napoletana del Cinquecento vol.V, cap.
III, tomo II, pp. 147-911, Napoli 1972
Bairati
E. - Finocchi A.
Arte
in Italia vol. II . Ed. Loecher, Torino 1986
Bartolucci
D., Bonanni A., Seneglia G., Violini E.
Conoscere
Napoli. Ed. Liguori, Napoli 1990
Cantone
G.
L’
architettura pp.19-75 in AA. VV. Civiltà del 600 a Napoli, op.
cit.
Causa
R. (estratto)
Il Pio Monte della Misericordia (la Storia, la
Chiesa, la Quadreria). Arte Tipografica S.A.S, Napoli 1991
Causa
R.
La pittura a Napoli da Caravaggio a Luca Giordano in
AA. VV. Civiltà del 600 a Napoli, op. cit.
Causa
S.
Caravaggio
e interpreti in Art e Dossier N° 62, novembre 1991. Ed. Giunti
De
Seta C.
Napoli.
Ed. Laterza, Bari-Roma 1984
Ferrari
O.
I grandi momenti della scultura e della decorazione
plastica pp. 139-150 in AA. VV. Civiltà del 600 a Napoli, op.
cit.
Kienerk
V. - Marsi Ciotti M.
Storia
dell’arte. Ed. Sandron, 1991
Negri
Arnoldi F.
Storia
dell’arte vol. III. Ed. Fabbri, 1989-1995
Pacelli
V.
Caravaggio
- Le sette opere della Misericordia. Coop. Ed. 10/17, 1984
Previtali
G.
La
pittura del Cinquecento a Napoli e nel Vicereame. Ed. Einaudi,
Torino 1978
Rodinò
di Miglione M. G.
Notizie
sulla Quadreria del Pio Monte della Misericordia. Ed. Di Mauro,
Napoli 1975
Soprintendenza
per i Beni Artistici e Culturali (a cura di)
Napoli
Sacra 1° itinerario. Ed. De Rosa, Napoli 1
|