Per una ricostruzione
della biografia di Orazio, come per nessun altro esponente della
letteratura latina, sono più che esaurienti le notizie ricavabili dalla
lettura delle sue opere.
o o o
<<Nacqui
l’8 dicembre del 65 avanti Cristo presso Venosa sul Vulture, al confine
con la Lucania.>>
(Odi,
libro terzo, 21, 1 e 4, 9 - Satire, libro secondo, 1, 34)
<<Mio
padre, un salsamentario, secondo quella "capera" di Svetonio,
pur di umili condizioni, divenne proprietario di un piccolo podere sull’Ofanto.>>
(Odi,
libro secondo, 20, 5 e libro quarto, 9, 2 - Svetonio, Vita di Orazio)
<<Non
volle che andassi a scuola da Flavio a Venosa, ma, con molti sacrifici, mi
mandò a Roma, da Orbilio, un maestro manesco e troppo entusiasta dell’Odissea
di Livio Andronico.>>
(Satire,
libro primo, 6, 91 - Epistulae, libro secondo, 1, 22)
<<Nel
44 mi recai ad Atene per approfondire gli studi di arte e di filosofia, ma
qui Bruto, l’uccisore di Cesare, mi convinse delle sue idee e mi nominò
anche "tribunus militum".>>
(Epistulae,
libro secondo, 2, 42 - Satire, libro primo, 6, 48 - Svetonio, Vita
di Orazio)
<<Nell’autunno
del 42 fui costretto a combattere a Filippi contro Ottaviano ed Antonio,
valorosamente, dicono, anche se, per salvarmi, fui costretto a gettare lo
scudo.>>
(Odi,
libro secondo, 7, 9 e 10)
<<Sfruttai
l’amnistia, salpai per l’Italia e, dopo aver corso il pericolo di
naufragare, tornai a Venosa; qui, una volta perso anche mio padre, non
avevo di che sbarcare il lunario: pure il podere mi venne espropriato!!!
Non mi restava che far ritorno a Roma.>>
(Odi,
libro terzo, 4, 28)
<<Nella
Città Eterna mi "arrangiai" a fare lo "scriba", e,
fra una lettera e l’altra, cominciai a comporre versi che piacquero a
Virgilio e Vario.
Su loro
raccomandazione, lo confesso!, entrai stabilmente a far parte del più
noto Circolo letterario di Roma; così, nel 33, riebbi da quel simpaticone
di Mecenate quello che Ottaviano mi aveva tolto: un podere, ma in
Sabina!!!>>
(Satire,
libro secondo, 6, 36 e libro primo, 6, 54 - Epistulae, libro primo,
16)
<<Mecenate
mi presentò anche all’imperatore e con queste due personalità, pur nel
rispetto reciproco, entrai in intimità, tanto è vero che Ottaviano, tra
una battuta e l’altra sulla mia pancetta, non esitò, nel 17, ad
assegnarmi l’incarico di comporre il "Carmen Saeculare"
per i Ludi del 3 giugno.>>
(Epistulae,
libro primo, 16 e 17 - Svetonio, Vita di Orazio)
<<L’8
fu un anno "nero": non solo venne meno Mecenate, ma, dopo pochi
giorni, il 27 novembre, morii anche io.
L’Esquilino
raccolse le nostre ossa, per volontà di Augusto.>>
(Odi,
libro secondo, 17)
o o o
Per
comprendere, invece, l’Orazio poeta, l’Orazio "sacerdote delle
Muse", ed il valore sacrale, religioso, che il Venosino attribuisce
alla poesia in quanto strumento di immortalità, ci soccorre la
trentunesima ode del primo libro.
Nell’ottobre
del 28 avanti Cristo è dedicato ad Apollo un tempio sul Palatino ed
Orazio rivolge al dio della poesia, davanti alla folla radunata per l’inaugurazione,
una preghiera in strofi alcaiche.
L’ode,
concepita con tecnica circolare, fa corrispondere ai primi tre versi, nei
quali Orazio si chiede quale preghiera possa rivolgere, egli "vates",
al dio della poesia, gli ultimi tre, in cui è riposta l’effettiva
risposta.
Dallo
stesso verso tre al sedicesimo si apre lo scenario di ciò che egli non
chiede, né chiederà mai (<<non le messi feconde della ricca
Sardegna... non i graditi armenti dell’infuocata Calabria... non oro...
non avorio dell’India...>>), a cui subentra l’immagine di
quanti si affaticano invano alla ricerca di un effimero godimento di
ricchezze e, per contrasto, l’altra che evidenzia le semplici abitudini
di vita del poeta il quale si accontenta di poche e povere erbe alla sua
mensa, di... <<olive, cicoria e màlve leggere>>.
Questi
tredici versi segnano il passaggio naturale verso l’ultima strofe, verso
la richiesta più impegnativa di un Orazio ben consapevole dell’importanza
della preghiera per il suo futuro di uomo e di poeta: <<permettimi
di godere di quello che ho a portata di mano in buona salute, ma, te ne
prego, con la mente sana, e di non trascorrere una vecchiaia turpe e priva
della cetra>>.
o o o
La
preparazione ai "Carmina"
La satira
"del seccatore"
Anche se
scritte tra il 35 ed il 30 avanti Cristo, quasi contemporaneamente agli
Epodi, le Satire ci presentano un Orazio non più gravato da slanci di
aggressività o di vendetta, da sfoghi veementi dettati da fosche visioni
politiche o dalle sue tristi esperienze personali, ma un Orazio più
maturo, garbatamente sorridente, pacato e discorsivo, un Orazio che da
mordace fustigatore dei costumi si trasforma talora in confidenziale
conversatore, talvolta in ironico e bonario osservatore della realtà del
tempo.
Quasi
tutte in forma dialogica, piacevoli e divertenti, briose nella varietà
delle immagini ed eleganti nell’armonia delle parti, le Satire del
Venosino, più che essere "un monumento" alla Roma augustea,
sono un affresco della società romana del tempo, dei cittadini, non visti
in un tribunale o sul campo di battaglia, ma nei contatti personali di
ogni giorno, nei loro momenti più emotivi, ma, comunque, reali, come
reali erano adulatori e parassiti, poetastri ed ambiziosi, che si vedevano
nelle piazze dell’Urbe: una varia umanità vociante, ironicamente
ritratta anche nei difetti più evidenti, e sempre uguale, ieri come oggi.
L’Orazio
"satiro", secondo tra cotanto senno nel quarto canto dell’Inferno
dantesco, vive in una Roma, quella gloriosa di Augusto del primo secolo
avanti Cristo, affollata di "captatores benevolentiae",
di "salutatores" incalliti, di veri e propri
professionisti dell’arte di arrangiarsi; né può o vuole il Venosino,
come ha fatto Teofrasto tre secoli prima in un’Atene non più centro di
potere e divenuta "provinciale" nel senso moderno del termine,
"dare uno spintone a gente simile e scappar via di gran
carriera".
Tra le
diciotto, che compongono i due libri dell’opera oraziana, decisamente la
più valida, per vivacità e naturalezza del dialogo, per la grazia
maliziosa, per la fine ironia, ed addirittura giudicata degna di essere
sullo stesso piano delle commedie di Plauto per la facilità di una sua
scomposizione in scene e per il brio delle azioni, è da considerare la
nona del primo libro: quella detta "del seccatore", d’<<’o
scucciatòre>>.
La
satira ha la struttura dell’antico mimo greco che, risalendo a Sofrone,
Teocrito, Eroda, Lucilio, suggerisce ora ad Orazio un vivace quadretto di
vita vissuta; e del mimo presenta tutte le caratteristiche: la vicenda; i
personaggi (suddivisi, come nel teatro vero, in protagonisti, in comparse
ed in personaggi secondari); l’ambientazione (che si avvale di dati
topografici ben individuati); lo spazio temporale (circoscritto ad una
mattinata). La differenza sostanziale rispetto al mimo è nello studio del
personaggio, qui finemente analizzato nella presentazione del
"seccatore", in quanto il primo intento del poeta è coglierne
tutte le sfaccettature.
Orazio,
infatti, evidenzia subito del personaggio l’assenza di delicatezza, l’enfasi
adulatoria, la vanità, la spudoratezza. Nel delineare questa figura,
però, Orazio, oltre a riallacciarsi al mimo alessandrino, sembra legarsi
anche alla tradizione italica dell’atellana, con le sue salaci battute,
nel tentativo, riuscito, di creare una figura viva, pur rappresentativa di
una categoria umana dell’antica società urbana.
Di
questa satira, risalente per molti ad un anno compreso tra il 38 ed il 36
a.C., si forniranno, data la lunghezza, lettura metrica, traduzione e resa
in napoletano dei primi 34 versi, corrispondenti, secondo i canoni
teatrali, al prologo ed alla prima scena, mentre gli ultimi diciotto, da
inquadrare come quinta scena ed epilogo, saranno letti solo in vernacolo.
La
trasposizione del testo latino nel nostro dialetto, si nota, è stata
stralciata da un saggio di un giovane studente, oggi noto uomo di cultura,
pubblicato sulla rivista "Papè Satàn" del Liceo
"Garibaldi" negli anni Sessanta.
Ibam
forte via sacra, sicut meus est mos,
nescio
quid meditans nugarum, totus in illis;
accurrit
quidam notus mihi nomine tantum,
arreptaque
manu: <<Quid agis, dulcissime rerum?>>.
<<Suaviter,
ut nunc est, inquam <<et cupio omnia, quae vis>>.
Me ne
andavo per caso per la Via Sacra, come è mio costume, pensando non so a
quali sciocchezze, tutto assorto in quelle [La Via Sacra era una strada
molto frequentata, che univa il Colosseo al Campidoglio, detta così
perché era percorsa dai sacerdoti addetti ai riti]; mi si fa incontro
un tale, noto a me soltanto di nome, e afferratami la mano: <<Come
va, carissimo?>>. <<Bene, per ora>> gli rispondo
<<ti auguro tutto ciò che vuoi>>.
Me ne
ièvo pè ccàso p’à via Sacra, accussì còmme facèvo tùtte ‘e
juòrne, nun sàccio che fesserìe penzànno ‘ncàpa ‘a mme. Me vène
‘e fàccia nu tìzio ca sàccio sultànto ‘e nòmme, ca m’affèrra
‘a màno e...: <<Comme stàje, bellèzza mia>>, me rìce.
<<Còmme stò mò?>> rich’ìo <<na maravìglia!! e te
fàccio aùrio ‘e chèllo ca vvuò>>.
Cum
adsectaretur, <<numquid vis?>> occupo. At ille
<<noris
nos, inquit; docti sumus>>.
Hic
ego <<pluris
hoc>>,
inquam, <<mihi eris>>. Misere discedere quaerens,
ire modo
ocius, interdum consistere, in aurem
dicere
nescio quid puero, cum sudor ad imos
manaret
talos. <<O te, Bolane, cerebri
felicem
<<aiebam tacitus, cum quidlibet ille
garriret,
vicos, urbem laudaret.
Poiché
continuava a seguirmi: <<Desideri forse qualcosa?>> lo
prevengo. Ma egli: <<Mi dovresti conoscere>>, disse,
<<sono un letterato!>>. Allora io gli rispondo: <<Per
questo sarai più stimato da me>>. Cercando disperatamente di
andarmene, talvolta mi fermavo, dicevo non so cosa in un orecchio ad un
servo, mentre il sudore mi scendeva fino alle calcagna. <<Beato te,
Bolano, che hai la testa calda!>>, dicevo tra me e me, mentre quello
cianciava di qualsiasi cosa gli passasse per la testa e lodava i
quartieri, la città, ...
[Un
tipo, il Bolano menzionato prima, ricordato forse da Cicerone nelle
epistole "Ad Familiares" e noto a Roma per la sua
risolutezza, ma di lui non conosciamo altro, se non la derivazione del
nome da Bola, città degli Equi]
Còmme
ca chìllo secutàva... <<Fòrze quaccòsa vuò?>>, tàglia a
cùrto io. Ma chìllo: <<Tu me canùsce: sìmmo allitteràti!>>.
<<Pe’ chèsto allòra me sarràje cchiù càro>>. Pòvero
risgraziàto, io, ca cercàvo ‘e ma squaglià, e ì... mò cchiù
amprèsso e mò ‘e me fermà, ca cercàvo ‘e dìcere ìnt’a rècchia,
nun sàccio che, ‘a nu uagliòne, mentr’abbàsci’e tallùne ‘o
suròre me scurrèva. <<Bolà, felìcia càpa rìcc’’e scùse!>>,
ricèvo ‘ncuòrp’a mme, mentre ca chìllo strìllava p’ogni ccòsa e
d’’e quartière d’’a città bene ricèva.
Ut illi
nil
respondebam, <<misere cupis>>, inquit, <<abire;
iamdudum
video. Sed nil agis; usque tenebo,
persequar.
Hinc quo nunc iter est tibi?>>. <<Nil opus est te
circumagi:
quendam volo visere non tibi notum;
trans
Tiberim longe cubat is prope Caesaris hortos>>.
<<Nìl
habeo quod agam et non sum piger: usque sequar te>>.
Siccome
non gli davo alcuna risposta, disse: <<Desideri disperatamente
svignartela, lo vedo già da un pezzo. Ma non ce la fai: fino all’ultimo
non ti mollerò; ti seguirò. Di qui dove sei diretto ora?>>.
<<Non c’è bisogno affatto che tu sia costretto ad un giro così
lungo: voglio far visita ad un tale a te sconosciuto; ammalato sta a letto
al di là del Tevere, vicino ai giardini di Cesare>> [I giardini
di Cesare, secondo Svetonio, erano presso la porta Portuense, ai piedi del
Gianicolo, a poco meno di due chilometri]. <<Non ho niente da
fare e non sono pigro: ti verrò sempre dietro!>>.
Ricètte.
Còmme ca ‘a ìsso niènte rispunnèvo: <<Puverièllo! Tu te ne
vulìss’ì: ‘o vèco già ‘a nu pòco e nun fàje niènte; fìno all’ùrdemo
a tte te tenarràggio. E te secutarràggio. ‘A ccà addò vàje?>>.
<<Nun c’è bisògno ca tu fàje stu gìro: vògl’ì ‘a verè
nu tìzio ca nun sàje, passàt’’o Tèvere, luntàno, ...sta ‘e
càsa vicìn’’e ciardìn’’e Cesare...>>. <<Niènte
tèngo che fa, e nun sòngo muòllo; te venarràggio arèto fin’a lla!>>.
Demitto
auricolas ut iniquae mentis asellus,
cum
gravius dorso subiit onus; incipit ille:
<<Si
bene me novi, non Viscum pluris amicum,
non
Varium facies: nam quis me scribere plures
aut
citius possit versus? Quis membra movere
mollius?
Invideat quod Hermogenes, ego canto>>.
Abbasso
le orecchie, come un asinello rassegnato a forza, quando ha dovuto
sobbarcarsi ad un carico troppo pesante. Quello riprende: <<Se mi
conosco bene, non stimerai di più l’amico Visco, né Vario: infatti chi
sarebbe capace di scrivere più versi o più presto di me? Chi a danzare
con più molle eleganza? Io canto cose che anche Ermogene potrebbe
invidiarmi>> [Visco e Vario erano poeti vicini ad Orazio ed
appartenenti al Circolo di Mecenate, mentre Ermegene era il figlio
adottivo del sardo Tigellio, un cantore del tempo molto popolare].
Acàl’’e
rrècchie còmme fa nu ciùccio ‘e màla vuluntà, quànno suppòrta nu
càrreco supièrchio ncòpp’’e rìne. Chìllo accummència: <<Si
bbuòno me sàje, Visco e Vario cchiù amìce ‘un faciarràje; chi po’
scrìvere cchiù vièrze, cchiù amprèss’affrònt’’a mme? Chi sàpe
mòvere ‘e còsce cchiù aggraziàte quànno bàlla? Pure Ermòggene
spàntecasse pe’ chèllo ca io sàccio fà>>.
Interpellandi
locus hic erat: <<Est tibi mater,
cognati,
quis te salvo est opus>>. <<Haud mihi quisquam:
omnes
composui>>. <<Felices! Nunc ego resto.
Confice:
namque instat fatum mihi triste, Sabella
quod
puero cecinit divina mota anus urna:
- hunc
neque dira venena nec hosticus auferet ensis
nec
laterum dolor aut tussis nec tarda podagra;
garrulus
hunc quando consumet cumque: loquaces,
si sapiat,
vitet, simul atque adoleverit aetas - >>.
Questo
era il momento di interromperlo: <<Hai tu una madre, dei parenti, i
quali abbiano bisogno che tu ti conservi in buona salute?>>.
<<Non ho nessuno: li ho sotterrati tutti>>. <<Beati
loro! Ora resto io. Dammi il colpo di grazia: infatti mi sovrasta la
triste sorte che una vecchia di Venosa predisse a me quando ero ragazzo,
agitando la profetica urna: - Non porteranno via costui né i funesti
veleni, né la spada di un nemico, né la pleurite o la tosse, né la
podagra che fa camminare a stento; prima o poi consumerà costui un
chiacchierone: se ha giudizio, schivi i ciarloni, appena l’età lo avrà
reso maturo ->>.
Ma chist’èra
‘o pùnto ‘e addimannà: <<Tiène na màmma..., pariènte ca t’hànn’a
tenè caro?>>. <<Pròprio nisciùno; ...a tùtte quànt’àggio
atterràte>>. <<Bbiàte ‘a llòro. Mò rest’ìo: accìreme;
tànt’àggio ‘ncuòllo nu dèstino nfàme ca ‘na vècchia sabbìna
me cantàje ‘ncopp’a ‘na bòccia, quann’èro guagliòne: - Chìsto,
né velène ‘ntussucùse, né spàta nemìca, ‘o luvarrànn’a mièzo,
né... ‘na pulmunìte o ‘a tòsse, né ‘na sciancatùra: nu
chiacchiaròne s’ò cunzumarrà chiàne chiàne. Ma..., si tène càpa,
ìsso se scanzarrà d’è chiacchiarùne appena ca se faciarrà d’età
- >>.
Seguono,
negli esametri che non leggeremo, la scena della lite giudiziaria in cui
lo scocciatore è coinvolto (necessaria per consentire la rapida soluzione
finale) e quella che rivela le vere mire del meschino "arrampicatore
sociale": far parte del Circolo di Mecenate. Né valgono gli
espedienti di Orazio per distoglierlo dal fine prefissatosi; lo
"scocciatore", pur di raggiungere il suo scopo, si atteggia
anche a moralista, a "sputasentenze": <<la vita non ha
concesso nulla agli uomini senza grande fatica!>>,
dice.
Mèntre
ca rìce stì ccòse, ‘o vì llòco, ...‘ncuntràmmo Fusco Arìstio, n’amìco
mìo, ...nu fràte, ca ‘o sapèva assàje bbuòno ‘a chèsta zècca.
Ce
fermàmmo: <<Addò viène, nèh? Addò vàje?>>, addimànna
ìsso, tànto pè sapè.
E ìo l’accuminciàje
a cigulià, a pizzecà co ‘a màno chèlle bràccia ca nun se
risentèvano, facènno sìgno, sturcènno ll’uòcchie, quàsi a dìcere
e me purtà luntàno a chìllu là. Facènno ‘o fèsso quànno nun c’azzeccàva,
ìsso stèva llà ‘a me nzurdà; ...’a bbìle m’abbrusciàva ‘o
fegatièllo.
<<Certamènte,
nun sàccio ‘e che secrète tu me vulìve parlà>>.
<<Io
m’arricòrdo bbuòno, ma t’’o dìco n’àta vòta, ca ògge è
trènta, ...sàbbate: che vulìsse fa tuòrto all’Ebbrèje?>>.
<<Ma
io nun tèngo scrùpole>>, fàcc’ìo.
<<Ma
ìo sì>>, rispònne, <<’o ssàje, sòngo nu poco cchiù
dèbbole, ...còmme ce stànno tànte. Perduòname; sarrà pè nàta
vòta>>.
Nu
juòrno accussì nnìro m’aspèttava! Fùje ‘o fetènte... e ìo
rèsto ìnt’’a tagliòla!
Pè
bbòna ciòrta nce venètte ‘e fàccia chillàtu testimmòne c’alluccàje:
<<Nèh, pièzz’’e svergugnàte, addò t’’a squàglie?>>
e nfàccia a mme: <<Vuò fa ‘o testimmòne?>>.
Sùbbeto
mètto rècchia e a ‘o tribbunàle ce ne jàmmo. Allùcc’’a cca,
allùcc’’a lla, gènte p’ògni pìzzo: sulamènte accussì me
salvàje chìllu Sànto.
o o o
Le
originali impressioni di viaggio della Satira Quinta
L’Orazio
cesellatore forbito e vivace ritrattista, l’Orazio spontaneo e
sorridente, l’Orazio rapido nel cogliere l’immediatezza della vita è
riscontrabile anche nella Satira Quinta del Primo Libro, in quella in cui,
ricalcando l’"Iter Siculum" di Lucilio, descrive il
viaggio compiuto, nel 37 a.C., da Roma a Brindisi: 530 chilometri,
percorsi in 14 giorni e con mezzi vari, affrescati così vivacemente da
ispirare posteri quali Stèrne, Ghoèthe, Hèine, Kìpling.
Di
questa satira, che mantiene l’attenzione dei lettori sempre ben desta
nella sua interezza (ma che limiteremo alle sole parti trattate), ci piace
cogliere, in primo luogo, i modi con cui il Venosino tratteggia molte
delle cittadine attraversate.
E così
Forappio, borgo laziale lungo la via Appia distante circa 26 miglia da
Ariccia, Orazio, al verso 4, lo qualifica "pieno zeppo di barcaioli e
di osti esosi" ("differtum nautis cauponibus atque malignis")
ed al verso 7 "(centro) dalla pessima acqua" ("aqua
deterrima");
Anxur,
antica fortificazione dei Volsci le cui rovine sovrastano Terracina, la
descrive, al verso 26 come "posta su rocce che biancheggiano da
lontano" ("impositum saxis late candentibus");
Fondi,
lontana sole 12 miglia da Terracina, al verso 36, offre motivo di ilarità
a causa delle insegne del pretore locale, definito un borioso
scribacchino, le quali presentavano una pretesta, un laticlavio e... un
braciere;
l’Apulia,
cioè la Puglia, è, al verso 78, "bruciata dal caldo Atabulo",
lo scirocco locale;
fino a
giungere, con i versi 87-89, ad un paese che Orazio, alla moda di Lucilio,
non menziona "perché (il suo nome) non entra in un solo verso"
("quod versu dicere non est"), dove "si vende l’acqua,
la più comune delle cose" ("venit vilissima rerum hic aqua"),
ma dove "il pane è di gran lunga il migliore" ("sed
panis longe pulcherrimus");
Canosa,
cittadina pugliese posta sulla destra del fiume Ofanto, è caratterizzata,
al verso 91, dal "pane che è duro come la pietra" e dall’essere
un paese "non più ricco di un’urna d’acqua" ("lapidosus,
aquae non ditior urna");
Bari è
al verso 97, città "ricca di pesce", mentre Egnazia, l’attuale
Torre d’Agnazzo presso Monopoli, dice Orazio al verso 98, è stata
"costruita in odio alle acque" ("lymphis iratis
exstructa").
Né
mancano gustosi bozzetti o scherzosi frammenti di vita vissuta, come i
versi 11-13 e 17-19, quando a Forappio... "tum pueri nautis,
pueris convicia nautae ingerere: <<huc adpelle>>,
<<trecentos inseris>>, <<ohe, iam satis est>>"
["i servi scagliavano ingiurie ai battellieri, e i battellieri ai
servi: <<Approda qua!>>, <<Ne cacci dentro
trecento!>>, <<Ohè, ormai basta!>>"],
e, poi,
"absentem
cantat amicam
multa
prolutus vappa nauta atque viator
certatim.
Tandem fessus dormire viator
incipit,
ac missae pastum retinacula mulae
nauta
piger saxo religat stertitque supinus".
["ed
ecco un barcaiolo ed un passeggero, innaffiati di molto vinello, cantano a
gara l’amica lontana. Alla fine, stanco, il viaggiatore comincia a
dormire ed il pigro barcaiolo lega ad un masso la fune della mula
mandandola a pascolare e supino si mette a russare".],
quelli da
48 a 49, quando...
"Lusum
it Maecenas, dormitum ego Vergiliusque:
namque
pila lippis inimicum et ludere crudis."
["Mecenate
se ne va a giocare, io e Virgilio a dormire: infatti il gioco della palla
è nocivo ai cisposi ed a chi è di stomaco debole"]
gli
altri, da 71 a 76, che descrivono una scena gustosissima:
"tendimus
hinc recta Beneventum ubi sedulus hospes
paene
macros arsit dum turdos versat in igni;
nam vaga
per veterem dilapso flamma culinam
Volcano
summum properabat lambere tectum.
Convivas
avidos cenam servosque timentes
tum
rapere atque omnes restinguere velle videres."
["di
là ci dirigiamo subito verso Benevento, dove il premuroso ospite, mentre
fa girare sul fuoco dei magri tordi, per poco non bruciò; infatti,
propagatosi il fuoco per la vecchia cucina, la fiamma vagante si
affrettava a lambire la sommità del tetto. Allora avresti visto i
commensali affamati ed i servi timorosi sottrarre il pranzo e tutti cercar
di spegnere il fuoco".]
Anche l’amore,
o, almeno, il tentativo di amare, è oggetto di ricordi, ed allora
scopriamo un Orazio diverso, non più il leggiadro cantore di donne, ma un
Orazio molto più prosaico, se ai versi 82-85 il Venosino confessa...
<<In
preda alla follia qui io attendo fino a mezzanotte una ragazza bugiarda:
alla fine il sonno colse me assorto nei pensieri d’amore ed i
sogni...>>
...ma di
più non diciamo!!!
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