S. nacque a Cordova (nella Spagna Betica) da una
famiglia del rango equestre che aveva per costume l'attività
dell'intelletto (figlio di S. il Vecchio). Venne presto a Roma dove
si dedicò agli studi filosofici (suoi maestri lo stoico Attalo e P.
Fabiano). Nella carriera forense rivelò straordinarie qualità
oratorie e, ottenuta la questura, entrò nel senato dove la sua
eloquenza durante il regno di Caligola gli valse il senato e gli
accrebbe onori, reputazioni e pericoli.
Tuttavia, nel 41 la principessa Giulia Livilla,
sorella di Caligola, venne accusata dalla gelosa Messalina, e la
rovina della principessa travolse anche S. (non si sa per quali
pretesti di complicità): fu relegato nella solitudine aspra della
Corsica e soltanto nel 49, dopo 8 anni di esilio, per intercessione
di Agrippina, nuova imperatrice, poteva tornare a Roma come maestro
del giovane Nerone, divenuto, per l'adozione di Claudio, il
designato successore dell'impero.
Nell’ott. 54, Claudio (zio di Caligola,
principato dal 41 al 54) muore avvelenato (pare da Agrippina) e
Nerone sale al trono. Dunque morto Claudio, S. restò il più
autorevole e ascoltato consigliere del principe, e pur senza
assumere cariche pubbliche, fu in realtà il vero regolatore della
politica imperiale (molti atti del principato neroniano per circa 7
anni fanno sentire il nobile e benefico influsso di S.: è il
cosiddetto periodo del "buon governo").
Ma Nerone volle forzare ben presto le tappe verso
un governo autocratico: ne pagarono le conseguenze Britannico, la
stessa Agrippina e S. appunto, il quale – dopo la morte del prefetto
del pretorio Afranio Burro (62) – pensò bene di ritirarsi a vita
privata e di dedicarsi completamente alla meditazione.
Ma il destino era segnato: nel 65 fu scoperta la
congiura contro Nerone che aveva a capo un grande signore romano,
Calpurnio Pisone. La congiura comprendeva personaggi civili e
militari e ufficiali delle milizie pretoriane. Non si sa quanto sia
stata fondata l'accusa di complicità nei riguardi di S., ma Nerone
colse con gioia l'occasione di sbarazzarsi del suo vecchio e odioso
consigliere. S., ricevuto l'ordine di morire, dimostrò
effettivamente nel suo ultimo giorno di saper sfidare quella morte
che egli aveva dichiarato di attendere con serenità in tutti i
giorni della sua vita.
OPERE: TEMI E CONSIDERAZIONI.
Ben poche fra le opere senecane rimaste sono
databili con sicurezza, sicché è difficile cercare di seguire un
eventuale sviluppo del suo pensiero. Il genere della consolatio si
costituisce attorno a un repertorio di temi morali che fondano gran
parte della riflessione filosofica di Seneca: la fugacità del tempo,
la precarietà della vita e la morte come destino ineluttabile
dell'uomo.
Molte opere filosofiche di S. sono state
raccolte, dopo la sua morte, in 12 libri di "Dialogi" su questioni
etiche e filosofiche: insomma, scritti morali, confidenze e
dichiarazioni dello scrittore al personaggio a cui ogni scritto è
dedicato. Le singole opere costituiscono, così, piuttosto che
dialoghi in senso stretto, vere e proprie trattazioni autonome di
aspetti o problemi particolari di etica, in un quadro generale ch’è
quello essenzialmente di un eclettismo di propensione stoica (scuola
di mezzo"):
"De providentia" (62 d.C.?): vi si espone la tesi
(opposta a quella epicurea), che tende a giustificare la
constatazione di una sorte che sembra spesso premiare i malvagi e
punire gli onesti: ma è solo la volontà divina che vuole mettere
alla prova i buoni ed attestarne la virtù. Il sapiens stoico
realizza la sua natura razionale nel riconoscere il posto che il
logos gli ha assegnato nell'ordine cosmico, accettandolo
serenamente.
"De brevitate vitae": vi sono trattati i temi del
tempo, della sua fugacità e dell'apparente brevità della vita: la
condizione umana ci sembra tale solo perché noi non sappiamo
afferrare l'essenza della vita, e la disperdiamo in occupazioni
futili.
"De ira libri III" (41 d.C.?): sono una sorta di
fenomenologia delle passioni umane, poiché analizzano i meccanismi
di origine e i modi per inibirle e controllarle.
"De consolatione" (posteriore al 37 d.C.).
"De vita beata" (58 d.C.?): esamina il problema
della ricchezza e dei piaceri (nei quali non si trova l'essenza
della felicità), ma se è vero che il saggio sa vivere secondo
natura, saggezza e ricchezza non sono necessariamente antitetiche
("nessuno ha condannato la saggezza alla povertà"): l'importante non
è non possedere ricchezze, ma non farsi possedere da esse. Così, S.
legittima l'uso della ricchezza se questa si rivela funzionale alla
ricerca della virtù.
"De costantia sapientis",
"De otio (62 d.C. ?),
"De tranquillitate animi" (62 d.C.?): in questa
trilogia, dedicata all'amico Sereno, S. cerca una mediazione tra l'otium
contemplativo e l'impegno del civis romano, suggerendo una posizione
intermedia tra neoteroi (Catullo) e Cicerone. Il comportamento
dell'intellettuale deve essere rapportato alle condizioni politiche,
ma la scelta di una vita totalmente appartata può essere resa
necessaria da una grave posizione politica, che non lascia al saggio
altro che rifugiarsi nella solitudine contemplativa.
In effetti, più specificamente, questo è il tema
del secondo dei dialoghi, mentre il primo esalta l'imperturbabilità
del saggio stoico di fronte alle ingiurie e alle avversità e il
terzo affronta il problema della partecipazione del saggio alla vita
politica. A tutti e tre i dialoghi, però, comune è l'obiettivo da
seguire: quello, cioè, della serenità d'animo capace di giovare agli
altri, se non con l'impegno pubblico, almeno con l'esempio e con la
parola.
Sempre di filosofia trattano:
"De beneficiis" (7 libri): si parla della natura
e delle varie modalità degli atti di beneficenza, dei legami tra
benefattore e beneficiato e dei doveri che ne conseguono (si
sospetta, qui, una velata allusione al comportamento di Nerone). In
pratica, quest’opera è un appello ai doveri della filantropia e
della liberalità, nell'intento di instaurare rapporti sociali più
umani e cordiali: si configura quindi come risposta alternativa al
fallimento del progetto di una monarchia illuminata.
"De clementia", 3 libri dedicati a Nerone:
riguarda l'amministrazione della giustizia e il governo dello stato;
è, cioè, un'indicazione al giovane imperatore per un programma
politico di equità e moderazione (S. non mette, però, in discussione
le forme apertamente monarchiche del governo). Il problema è in
sostanza quello di avere un buon sovrano, che in un regime di potere
assoluto potrà far leva soltanto sulla sua stessa coscienza per non
far sfociare nella tirannide il proprio governo. La clemenza è la
virtù che dovrà informare i suoi rapporti con i sudditi, solo con
essa sarà in grado di ottenere la loro benevolenza e il loro
appoggio. E' evidente in una concezione di principato illuminato
l'importanza che acquista l'educazione del principe, e più in
generale la funzione della filosofia come garante e ispiratrice
della direzione politica dello stato. Alla filosofia spetta dunque
il ruolo di promuovere la formazione morale del sovrano e dell'élite
politica.
Tra i dialogi abbiamo due lettere (ad Helviam
matrem e ad Polybium, un liberto di Claudio) basate sul genere della
consolazione, ripreso dall'antica Grecia, che indaga su temi morali
e sulla precarietà della vita o sulla morte come destino. In
particolare, la lettera a Polibio si rivela un tentativo di adulare
l'imperatore, e per questo S. viene accusato anche di opportunismo.
Quindi abbiamo:
124 "Epistulae morales ad Lucilium" (20 libri,
composte negli ultimi anni di vita): S. vi riassume la sua filosofia
e la sua esperienza, la sua saggezza e il suo dolore: vi sono
insomma esposti i caratteri della filosofia stoica, spesso
avvicinandosi alla tradizione diatribica. L'opera ci è giunta
incompleta e si può datare al periodo del disimpegno politico (62).
Lo spunto per la composizione di queste lettere sarà venuto
probabilmente a S. da Platone e da Epicureo: in ogni caso, egli
mostra la consapevolezza di introdurre nella cultura letteraria
latina un genere nuovo, distinto dalla tradizione più illustre
rappresentata da Cicerone. Il modello cui egli intende uniformarsi è
Epicuro, colui che nelle lettere agli amici ha saputo arrivare ad un
alto grado di formazione e di educazione spirituale.
Se si tratti di un epistolario reale o fittizio è
questione dibattuta; fatto sta che S. è convinto che lo scambio di
lettere permetta di ottenere un'unione con l'amico che, fornendo
direttamente un esempio di vita, si rivela più efficace di un
insegnamento dottrinale. La lettera è maggiormente vicina alla vita
reale e permette di proporre ogni volta un nuovo tema: S. utilizza
la lettera come strumento ideale soprattutto per la prima fase della
direzione spirituale (di curvatura profondamente aristocratica),
fondata sull'acquisizione di alcuni principi basilari. Inoltre, il
genere epistolare si rivela appropriato ad accogliere un tipo di
filosofia, come quella dell’autore, priva di sistematicità e incline
soprattutto alla trattazione di aspetti parziali o singoli temi
etici (si dice, di questa forma, "parenetica"). Col tono pacato di
chi non si atteggia a maestro severo ma ricerca egli stesso la
sapientia, e attraverso un vero e proprio colloquim, S. propone
l'ideale di una vita indirizzata al raccoglimento e alla
meditazione, ad un perfezionamento interiore mediante un'attenta
riflessione sulle debolezze e i vizi propri e altrui. Il distacco
dal mondo e dalle passioni che lo agitano si accentua, nelle
Epistole, parallelamente al fascino della vita appartata e
all'assurgere dell'ozio a valore supremo: un ozio che non è inerzia,
ma alacre ricerca del bene.
La progressività del processo di formazione,
così, non a caso si rispecchia in quella della forma: le singole
lettere, man mano che l’epistolario procede, tendono ad assimilarsi
al trattato filosofico.
Di carattere scientifico sono
i 7 libri delle "Naturales quaestiones", dedicati
a Lucilio: trattati scientifici nei quali S. analizza i fenomeni
atmosferici e celesti, dai temporali ai terremoti alle comete.
L’interesse dell’autore per le scienze – ritenute parte integrante
della filosofia – non è "gratuito", ma è legato ad una profonda
istanza morale: quella di liberare gli uomini da vani e
superstiziosi terrori.
Ci sono poi:
9 tragedie cothurnatae, cioè di argomento
(mitologico) greco: Hercules furens, Troades, Phoenissae, Medea,
Phaedra, Oedipus, Agamemnon, Thyestes, Hercules Oetus.
Molto poco si sa sulle tragedie di S.: tuttavia,
sono le uniche tragedie latine a esserci pervenute in forma non
frammentaria, e inoltre sono molto importanti anche come documento
della ripresa del teatro latino tragico: esse, infatti,
rappresentano il punto di arrivo, ai limiti dell’espressionismo
verbale, della "tragedia retorica". Tuttavia, appunto la scarsità di
notizie esterne sulle tragedie senecane non ci permette di sapere
nulla di certo sulle modalità della loro rappresentazione: non è da
escludere l'ipotesi che fossero tragedie destinate soprattutto alla
lettura in pubblico, in cui quindi l’azione drammatica è sostituita
dalla declamazione dei sentimenti (fine e profonda ne è la
psicologia) e dalla sottigliezza del dialogo sofistico.
Quelle ritenute autentiche sono, come detto, nove
cothurnatae: sul modello dell'autore greco Euripide abbiamo, ad es.,
le Phoenissae, che narra del tragico destino di Èdipo e dell'odio
che divide i suoi due figli Etèocle e Polinice. Il mito tebano di
Èdipo è presente anche nell'Oedipus: causa inconsapevole
dell'uccisione del padre, alla scoperta di ciò il protagonista si
acceca. Nel Thyestes si narra della vendetta di Átreo, che animato
da odio mortale per il fratello Tieste (gli ha sedotto la sposa), lo
invita a un finto banchetto di riconciliazione in cui imbandisce al
fratello ignaro le carni dei figli.
Tuttavia, il rapporto con i modelli greci è
abbastanza conflittuale: se da una parte S. sente la necessità di
una ferrea autonomia, dall'altra ha sempre in mente i modelli greci.
Il linguaggio poetico delle tragedie ha la sua base, poi, nella
poesia augustea, dalla quale l’autore mutua anche le raffinate forme
metriche, come i metri lirici oraziani usati negli intermezzi
corali. Le tracce della tragedia latina arcaica si avvertono,
invece, soprattutto nel gusto del pathos, e spesso l'esasperazione
della tensione drammatica è ottenuta mediante l'introduzione di
lunghe disgressioni, che alterano i tempi dello sviluppo inserendosi
nella tendenza a isolare singole scene come quadri autonomi. Sul
filone delle tragedie di età giulio-claudia è infine evidente la
generalizzata ispirazione antitirannica.
Le tragedie sono sempre alimentate dalla
filosofia e dalla dottrina stoica dell'autore, i cui tratti
fondamentali sono illustrati sotto forma di exempla nelle opere: le
vicende si configurano infatti come conflitti di forze contrastanti,
soprattutto all'interno dell'animo, nell'opposizione tra mens bona e
furor, la ragione e la passione. Questo, tuttavia, è da considerarsi
più che altro come substratum delle tragedie, sia perché abbiamo ben
presenti le esigenze letterarie del tempo, sia perché nella tragedia
di Seneca il logos si rivela incapace di frenare le passioni e di
arginare, quindi, il male. Nascono perciò toni cupi e atroci,
scenarî d'orrori e di forze maligne, in una lotta tra il bene e il
male che oltre ad avere dimensione individuale, all'interno della
psiche umana, assume un aspetto più universale. Ad es., la figura
del tiranno sanguinario è quella in cui si manifesta più spesso il
male, tormentato com'è dalla paura e dall'angoscia, nel suo eterno
problema del potere.
A parte va considerata l'Octavia, una commedia
praetexta (cioè di argomento romano, e l’unica rimastaci della
letteratura latina), ove si rappresenta la sorte di Ottavia, la
prima moglie di Nerone e da lui ripudiata e fatta uccidere. Il fatto
però che venga preannunciata in maniera troppo corrispondente alla
realtà la morte di Nerone, lascia trasparire forti dubbi sulla
paternità della tragedia (S., che vi compare peraltro come
protagonista, morì prima di Nerone), attribuita invece dalla
tradizione manoscritta, data l’affinità stilistica con le precedenti
tragedie.
l' "Apokolokýntosis" o "Ludus de morte Claudii",
una satira menippea sull'apoteosi dell'imperatore: Il componimento
narra appunto la morte di Claudio e la sua ascesa all'Olimpo nella
vana pretesa di essere assunto fra gli dei, i quali invece lo
condannano agli inferi dove finisce schiavo del nipote Caligola e
del liberto Menandro: una sorta di contrappasso dantesco per chi,
durante il suo impero, ha riempito di liberti il governo romano. Si
tratta, evidentemente, di una satira, che assume spesso toni
parodisticamente solenni, aspetti coloriti e situazioni fortemente
ironiche a scapito del poco amato imperatore Claudio (è la tipica
opposizione stoica al potere arbitrario ed incontrollato), mentre
con gioia viene salutato l’avvento al potere di Nerone. Apokolokýntosis
è il titolo greco dell'opera e significherebbe "deificazione di una
zucca", con evidente riferimento alla fama poco simpatica che si era
fatto Claudio. Un'opera simile contrasta però con la laudatio
funebris dell'imperatore morte presentata dallo stesso S. a Nerone,
e fa nascere qualche dubbio sulla sua autenticità.
Si attribuisce infine a S. una raccolta di ca 70
epigrammi, di cui tuttavia solo 3 vanno sotto il suo nome;
sicuramente apocrifa è, invece, la corrispondenza con San Paolo.
N. Castaldi
Il tempo in Seneca
Seneca, che deriva la sua concezione sul tempo
dagli stoici (rivalutazione del tempo nel suo dinamismo e nel suo
perenne fluire), si sofferma a riflettere in numerosi passi delle
sue opere sul concetto di tempo, senza però mai farne oggetto di una
trattazione specifica. Il tempo assume in S. una connotazione
prevalentemente etica : è il tempo vissuto nell'inquietudine di una
ricerca esistenziale e nel timore che esso sfugga all'uomo troppo
preso da occupazioni terrene e quindi incapace di farne buon uso.
La riflessione sul tempo, tema centrale
nell'opera senecana, ruota essenzialmente attorno a due poli: il
tempo come entità fuggevole e caduca, dalla quale il sapiens deve
affrancarsi e che l'uomo comune impiega in occupazioni dispersive,
e, viceversa, il tempo come unico bene in possesso dell'uomo,
strumento per raggiungere la perfezione morale e la saggezza. Questi
due aspetti apparentemente contraddittori fra loro sono accomunati
da un unico presupposto filosofico, che fa leva non sulla "quantità"
ma sulla "qualità" del tempo: il tempo è fuggevole, labile e per
definizione caduco, ma, se usato proficuamente, al fine di
raggiungere la saggezza, è l'unica nostra vera ricchezza. Non il
tempo, ma il suo uso dipende da noi: a dispetto della sua
precarietà, il tempo della nostra vita è l'unica dimensione
attraverso la quale ci è dato assurgere alle verità filosofiche,
raggiungere la perfezione della saggezza. Il sapiens, che avrà fatto
buon uso del suo tempo, riuscirà ad elevarsi al di sopra della
condizione mortale e a vivere, simile ad un dio, in un presente
atemporale, privo di desideri, timori e speranze.
Fugacità del tempo
Il senso della fuga del tempo e della precarietà
delle cose umane percorre tutta l'opera di S. ; a dargli espressione
S. utilizza tre metafore; il tempo come un fiume che scorre
inarrestabile (De brev. vit. 8,5" andrà il tempo della vita per la
via intrapresa e non tornerà indietro né arresterà il suo corso; non
farà rumore, non darà segno della sua velocità; scorrerà in
silenzio; non si allungherà per editto di re o favore di popolo;
correrà come è partito dal primo giorno, non farà mai fermate, mai
soste") , il punto nel quale si risolve e si vanifica l'esistenza
umana (Ep. ad Luc. 49,3 "è un punto quello che viviamo, e ancor meno
di un punto"), l'abisso nel quale si perde ogni cosa (Ep. ad Luc.
49,3 "tutte le cose cadono nel medesimo abisso")
In S. il motivo della fuga "rapinosa" del tempo
si tinge spesso dei toni di un'angosciosa consapevolezza, che guarda
all'instabilità e alla precarietà delle sorti umane; la riflessione
sul tempo che scorre si trasforma così, spesso, in una penosa
riflessione sulla morte (Ep. ad Luc.99,9 " in tanta fluttuazione
delle cose umane niente per alcuno è certo se non la morte"; De
brev. vit.7,3" ci vuole tutta una vita per imparare a vivere, e, ciò
che ti stupirà di più, ci vuole una vita per imparare a morire").
Il Tempo nel De brevitate vitae e nelle Epistole
ad Lucilium
Al tempo, al suo significato e al suo uso, S.
dedica un intero dialogo, il De brevitate vitae, composto tra
il 49 ed il 54d.C. ; il dialogo sviluppa come tema centrale
l'opposizione tra l'atteggiamento degli "occupati" che
"scialacquano" il proprio tempo disperdendosi in occupazioni futili,
ed il "sapiens", che, vivendo in aristocratica solitudine, dedica il
proprio tempo alla sola conquista della saggezza.
La riflessione senecana sul tempo, che trova una
sua prima, articolata espressione, nel De brev. vit. , si completa
nell'epistolario. Se l'antidoto al fluire incessante del
tempo è costituito dalla conquista di un'immorrtalità che "supera"
il tempo, nel dialogo questa conquista si circonscrive ad una
dimensione puramente intellettuale di "evasione" dal presente; il
saggio è in grado di dominare col pensiero anche le età che lo hanno
preceduto, in un'ideale comunione con i grandi spiriti del passato
(De brev vit. 14,1" Soli fra tutti sono sfaccendati quelli che
dedicano il loro tempo alla saggezza, solo essi vivono; né solo
della loro vita sono attenti custodi: vi aggiungono ogni età; tutti
gli anni alle loro spalle sono un loro acquisto. Se non siamo mostri
di ingratitudine, quei fari di luce, fondatori di sacre dottrine,
sono nati per noi, hanno predisposto la vita per noi..., non siamo
esclusi da nessun secolo, a tutti abbiamo libero accesso, e, se
vogliamo evadere dalle angustie della debolezza dello spirito, è
molto il tempo per cui spaziare") .
Nelle Epistole l'ideale dell'atemporalità del
saggio si concreta e si estende: il sapiens usa del tempo per uscire
dal tempo, nella conquista di valori che del tempo non hanno più
bisogno (101,8-9 " Chi ogni giorno dà alla sua vita l'ultima mano,
non sente il bisogno del tempo; da questo bisogno nascono il timore,
la brama del futuro che ci rode l'animo...Come riusciremo a sfuggire
a tale agitazione? In un solo modo: se la nostra vita non si
espanderà al di fuori, ma si concentra in se stessa; giacché è in
balia del futuro colui per il quale il presente è vano. Ma quando
non ho più alcun debito verso di me, e quando l'animo, ben saldo, sa
che non c'è differenza fra un giorno e un secolo, esso guarda
dall'alto tutti i giorni e gli eventi futuri e considera ridendo
allegramente il succedersi del tempo"; 92,25 " Qual è la
caratteristica della virtù? Essa non ha bisogno dell'avvenire e non
fa il computo dei suoi giorni: in uno spazio di tempo quanto vuoi
breve giunge al pieno possesso dei beni eterni") .
Seneca ed il "carpe diem" epicureo
La valorizzazione attenta di ogni attimo
dell'esistenza è il mezzo attraverso il quale è possibile
raggiungere la saggezza e superare la debole condizione umana (Ep.
101,10 "perciò affrettati, o mio Lucilio, a vivere, e considera ogni
giorno una vita"). Il concetto del vivere pienamente in ogni istante
della propria vita è, anche, ideale epicureo, e ricorre come si sa
in Orazio, Odi I,11 vv7-8 "dum loquimur, fugerit invida/ aetas;
carpe diem, quam minimum credula postero"; Odi III,29 vv41ss." Ho
vissuto. Offenda pure domani Giove di nere nubi il cielo o brilli il
sole, non potrà rendere vano il passato, né disperdere o mutare
quello che mi ha dato l'ora fuggitiva".
Le analogie tra il concetto espresso da Orazio e
quello espresso da Seneca tradiscono però una grande differenza di
impianto : alla base del carpe diem epicureo c'è il concetto del
vivere intensamente ogni attimo dell'esistenza, capitalizzandone
gioie e piaceri, in un'ottica "distensiva" dello spirito. Nel
concetto stoico del "vivere ogni giorno come se fosse l'ultimo" si
concretizza invece l'ideale di una pratica filosofica sempre tesa
alla conquista della saggezza , in lotta con il tempo che scorre
implacabile ; un'ottica, quindi, che non mira alla distensione,
quanto piuttosto alla tensione dello spirito. Padroneggiare il
presente ed affrancarsi dal domani diventa in Seneca un invito al
possesso integrale di se stessi , non solo e non tanto, quindi, un
richiamo al carattere effimero dell'esistenza.
I. La maggior parte dei mortali, o Paolino,
si lagna per la cattiveria della natura, perché siamo messi al
mondo per un esiguo periodo di tempo, perché questi periodi di
tempo a noi concessi trascorrono così velocemente, così in
fretta che, tranne pochissimi, la vita abbandoni gli altri
nello stesso sorgere della vita. Né di tale calamità, comune a
tutti, come credono, si lamentò solo la folla e il dissennato
popolino; questo stato d’animo suscitò le lamentele anche di
personaggi famosi. Da qui deriva la famosa esclamazione del
più illustre dei medici [Ippocrate, V-IV sec. a.C.],
che la vita è breve, l’arte lunga; di qui la contesa, poco
decorosa per un saggio, dell’esigente Aristotele con la natura
delle cose, perché essa è stata tanto benevola nei confronti
degli animali, che possono vivere cinque o dieci generazioni,
ed invece ha concesso un tempo tanto più breve all’uomo, nato
a tante e così grandi cose. Noi non disponiamo di poco tempo,
ma ne abbiamo perduto molto. La vita è lunga abbastanza e ci è
stata data con larghezza per la realizzazione delle più grandi
imprese, se fosse impiegata tutta con diligenza; ma quando
essa trascorre nello spreco e nell’indifferenza, quando non
viene spesa per nulla di buono, spinti alla fine dall’estrema
necessità, ci accorgiamo che essa è passata e non ci siamo
accorti del suo trascorrere. È così: non riceviamo una vita
breve, ma l’abbiamo resa noi, e non siamo poveri di essa, ma
prodighi. Come sontuose e regali ricchezze, quando siano
giunte ad un cattivo padrone, vengono dissipate in un attimo,
ma, benché modeste, se vengono affidate ad un buon custode, si
incrementano con l’investimento, così la nostra vita molto si
estende per chi sa bene gestirla.
|
II Perché ci lamentiamo della natura delle
cose? Essa si è comportata in maniera benevola: la vita è
lunga, se sai farne uso. C’è chi è preso da insaziabile
avidità, chi dalle vuote occupazioni di una frenetica
attività; uno è fradicio di vino, un altro languisce
nell’inerzia; uno è stressato da un’ambizione sempre
dipendente dai giudizi altrui, un altro è sballottato per
tutte le terre da un’avventata bramosia del commercio, per
tutti i mari dal miraggio del guadagno; alcuni tortura la
smania della guerra, vogliosi di creare pericoli agli altri o
preoccupati dei propri; vi sono altri che logora l’ingrato
servilismo dei potenti in una volontaria schiavitù; molti sono
prigionieri della brama dell’altrui bellezza o della cura
della propria; la maggior parte, che non ha riferimenti
stabili, viene sospinta a mutar parere da una leggerezza
volubile ed instabile e scontenta di sé; a certuni non piace
nulla a cui drizzar la rotta, ma vengono sorpresi dal destino
intorpiditi e neghittosi, sicché non ho alcun dubbio che sia
vero ciò che vien detto, sotto forma di oracolo, nel più
grande dei poeti [forse si riferisce a Menandro (IV sec.
a.C), il più grande dei poeti comici]: "Piccola è la
porzione di vita che viviamo". Infatti tutto lo spazio
rimanente non è vita, ma tempo. I vizi premono ed assediano da
ogni parte e non permettono di risollevarsi o alzare gli occhi
a discernere il vero, ma li schiacciano immersi ed inchiodati
al piacere. Giammai ad essi è permesso rifugiarsi in se
stessi; se talora gli tocca per caso un attimo di tregua, come
in alto mare, dove anche dopo il vento vi è perturbazione,
ondeggiano e mai trovano pace alle loro passioni. Pensi che io
parli di costoro, i cui mali sono evidenti? Guarda quelli,
alla cui buona sorte si accorre: sono soffocati dai loro beni.
Per quanti le ricchezze costituiscono un fardello! A quanti fa
sputar sangue l’eloquenza e la quotidiana ostentazione del
proprio ingegno! Quanti sono pallidi per i continui piaceri! A
quanti non lascia un attimo di respiro l’ossessionante calca
dei clienti! Dunque, passa in rassegna tutti costoro, dai più
umili ai più potenti: questo cerca un avvocato, questo è
presente, quello cerca di esibire le prove, quello difende,
quello è giudice, nessuno rivendica per se stesso la propria
libertà, ci si consuma l’uno per l’altro. Infòrmati di
costoro, i cui nomi si imparano, vedrai che essi si
riconoscono da questi segni: questo è cultore di quello,
quello di quell’altro; nessuno appartiene a se stesso. Insomma
è estremamente irragionevole lo sdegno di taluni: si lamentano
dell’alterigia dei potenti, perché questi non hanno il tempo
di venire incontro ai loro desideri. Osa lagnarsi della
superbia altrui chi non ha tempo per sé? Quello almeno,
chiunque tu sia, benché con volto arrogante ma qualche volta
ti ha guardato, ha abbassato le orecchie alle tue parole, ti
ha accolto al suo fianco: tu non ti sei mai degnato di
guardare dentro di te, di ascoltarti. Non vi è motivo perciò
di rinfacciare ad alcuno questi servigi, poiché li hai fatti
non perché desideravi stare con altri, ma perché non potevi
stare con te stesso.
|
III Per quanto siano concordi su questo
solo punto gli ingegni più illustri che mai rifulsero, mai
abbastanza si meraviglieranno di questo appannamento delle
menti umane: non tollerano che i propri campi vengano occupati
da nessuno e, se sorge una pur minima disputa sulla modalità
dei confini, si precipitano alle pietre ed alle armi:
permettono che altri invadano la propria vita, anzi essi
stessi vi fanno entrare i suoi futuri padroni; non si trova
nessuno che sia disposto a dividere il proprio denaro: a
quanti ciascuno distribuisce la propria vita! Sono avari nel
tenere i beni; appena si giunge alla perdita di tempo,
diventano molto prodighi in quell’unica cosa in cui l’avarizia
è un pregio. E così piace citare uno dalla folla degli
anziani: "Vediamo che sei arrivato al termine della vita
umana, hai su di te cento o più anni: suvvia, fa un bilancio
della tua vita. Calcola quanto da questo tempo hanno sottratto
i creditori, quanto le donne, quanto i patroni, quanto i
clienti, quanto i litigi con tua moglie, quanto i castighi dei
servi, quanto le visite di dovere attraverso la città;
aggiungi le malattie, che ci siamo procurati con le nostre
mani, aggiungi il tempo che giacque inutilizzato: vedrai che
hai meno anni di quanti ne conti. Ritorna con la mente a
quando sei stato fermo in un proposito, quanti pochi giorni si
sono svolti così come li avevi programmati, a quando hai avuto
la disponibilità di te stesso, a quando il tuo volto non ha
mutato espressione, a quando il tuo animo è stato coraggioso,
che cosa di positivo hai realizzato in un periodo tanto lungo,
quanti hanno depredato la tua vita mentre non ti accorgevi di
cosa stavi perdendo, quanto ne ha sottratto un vano
dispiacere, una stupida gioia, un’avida bramosia, una
piacevole discussione, quanto poco ti è rimasto del tuo:
capirai che muori anzitempo". Dunque qual è il motivo? Vivete
come se doveste vivere in eterno, mai vi sovviene della vostra
caducità, non ponete mente a quanto tempo è già trascorso; ne
perdete come da una rendita ricca ed abbondante, quando forse
proprio quel giorno, che si regala ad una certa persona od
attività, è l’ultimo. Avete paura di tutto come mortali,
desiderate tutto come immortali. Udirai la maggior parte dire:
"Dai cinquant’anni mi metterò a riposo, a sessant’anni mi
ritirerò a vita privata". E che garanzia hai di una vita tanto
lunga? Chi permetterà che queste cose vadano così come hai
programmato? Non ti vergogni di riservare per te i rimasugli
della vita e di destinare alla sana riflessione solo il tempo
che non può essere utilizzato in nessun’altra cosa? Quanto
tardi è allora cominciare a vivere, quando si deve finire! Che
sciocca mancanza della natura umana differire i buoni
propositi ai cinquanta e sessanta anni e quindi voler iniziare
la vita lì dove pochi sono arrivati!
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IV Vedrai sfuggire di bocca agli uomini più
potenti e più altolocati parole con le quali aspirano al tempo
libero, lo lodano e lo antepongono a tutti i loro beni.
Talvolta desiderano scendere giù da quel loro piedistallo, se
la cosa potesse avvenire in tutta sicurezza; infatti, anche se
niente preme e turba dall'esterno, la fortuna crolla su se
stessa. Il divo Augusto, al quale gli dei concessero più che a
chiunque altro, non cessò di augurarsi il riposo e di chiedere
di essere sollevato dagli impegni pubblici; ogni suo discorso
ricadeva sempre su questo, la speranza del tempo libero:
alleviava le sue fatiche con questo conforto, per quanto
illusorio tuttavia piacevole, che un giorno sarebbe vissuto
per se stesso. In una lettera inviata al senato, dopo aver
promesso che il suo riposo sarebbe stato non privo di decoro
ne in contrasto con la sua gloria passata, ho trovato queste
parole: "Ma queste cose sarebbe più bello poterle mettere in
pratica che prometterle. Tuttavia il desiderio di quel tempo
tanto desiderato mi ha condotto, poiché finora la gioia della
realtà si fa attendere, a pregustare un po' di piacere dalla
dolcezza delle parole." Così grande cosa gli sembrava il tempo
libero, che, poiché non poteva goderne, se lo pregustava con
l'immaginazione. Colui che vedeva tutto dipendere da lui solo,
che stabiliva il destino per gli uomini e i popoli, pensava a
quel felicissimo giorno in cui avrebbe abbandonato la propria
grandezza. Conosceva per esperienza quanto sudore costano quei
beni rifulgenti per tutta la terra, quante nascoste fatiche
celano. Costretto a combattere con armi dapprima con i
concittadini [Bruto e Cassio], poi con i colleghi [Lepido,
collega nel triumvirato assieme ad Antonio], infine con i
parenti [Antonio, suo cognato], versò sangue per terra
e per mare: dopo essere passato in guerra attraverso la
Macedonia, la Sicilia, l'Egitto, la Siria e l'Asia e quasi
tutte le coste, volse contro gli stranieri gli eserciti
stanchi di strage romana. Mentre pacificava le Alpi e domava i
nemici mischiati in mezzo alla pace e all'impero, mentre
spostava i confini oltre il Reno, l'Eufrate ed il Danubio,
proprio a Roma si affilavano contro di lui i pugnali di
Murena, di Cepione, di Lepido, di Egnazio e di altri. Non era
ancora sfuggito alle insidie di costoro e la figlia [Giulia
ed i suoi amanti] e tanti giovani nobili legati dal
vincolo dell'adulterio come da un giuramento ne atterrivano la
stanca età e ancor più e di nuovo una donna era da temere con
un Antonio [allude ad Antonio e Cleopatra]. Aveva
tagliato via queste ferite con le stesse membra [si
riferisce all'esilio a cui Augusto condannò la figlia Giulia]:
altre ne rinascevano; come un corpo pieno di troppo sangue,
sempre si crepava in qualche parte. E così anelava al tempo
libero, nella cui speranza e nel cui pensiero si placavano i
suoi affanni: questo era il voto di colui che poteva render
gli altri paghi dei loro voti.
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V Marco Cicerone, sballottato tra i
Catilina e i Clodii e poi tra i Pompei e i Crassi, quelli
avversari manifesti, questi amici dubbi, mentre fluttuava
assieme allo Stato e lo sorreggeva mentre andava a fondo, alla
fine sopraffatto, non calmo nella buona sorte e incapace di
sopportare quella cattiva, quante volte impreca contro quel
suo stesso consolato, lodato non senza ragione ma senza fine!
Che dolenti parole esprime in una lettera ad Attico, dopo aver
vinto Pompeo padre, mentre in Spagna il figlio rimetteva in
sesto le armate scompaginate! "Mi domandi" dice "cosa faccio
qui? Me ne sto mezzo libero nel mio podere di Tuscolo". Poi
aggiunge altre parole, con le quali rimpiange il tempo
passato, si lamenta del presente e dispera del futuro.
Cicerone si definì semilibero: ma perdiana giammai un saggio
si spingerà in un aggettivo così mortificante, giammai sarà
mezzo libero, sarà sempre in possesso di una libertà totale e
assoluta, svincolato dal proprio potere e più in alto di
tutti. Cosa infatti può esserci sopra uno che è al di sopra
della fortuna?
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VI Livio Druso, uomo rude ed impulsivo,
avendo rimosso le nuove leggi e i disatri dei Gracchi,
pressato da una grande aggregazione dell'Italia intera, non
prevedendo l'esito degli avvenimenti, che non poteva gestire e
ormai non era libero di abbandonarli una volta iniziati, si
dice che maledicendo la sua vita, irrequieta fin dagli inizi,
abbia detto che solo a lui neppure da bambino erano toccate
vacanze. Infatti osò ancor minorenne e poi adolescente
raccomandare gli imputati ai giudici e interporre i suoi buoni
uffici nel foro con tanta efficacia che alcune sentenze siano
risultate da lui estorte. Dove non sarebbe sfociata una così
prematura ambizione? Capiresti che una così precoce audacia
sarebbe andata a finire in un grave danno sia pubblico che
privato. Perciò tardi si lamentava che non gli fossero state
concesse vacanze fin da piccolo, litigioso e di peso per il
foro. Si discute se si sia tolto la vita; infatti, ferito da
un improvviso colpo all'inguine, si accasciò, e vi è chi
dubita che la sua morte sia stata volontaria, ma nessuno che
essa sia stata opportuna. È del tutto inutile ricordare i
tanti che, pur apparendo felicissimi agli occhi degli altri,
testimoniarono in se stessi il vero ripudiando ogni azione
della loro vita; ma con tali lamentele non cambiarono né gli
altri né se stessi: infatti, una volta che le parole siano
volate via, gli affetti ritorneranno secondo il consueto modo
di vivere. Perdiana, ammesso pure che la vostra vita superi i
mille anni, si ridurrebbe ad un tempo ristrettissimo: questi
vizi divoreranno ogni secolo; in verità questo spazio che,
benché la natura faccia defluire, la ragione dilata, è
ineluttabile che presto vi sfugga: infatti non afferrate né
trattenete o ritardate la più veloce di tutte le cose, ma
permettete che vada via come una cosa inutile e recuperabile.
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VII Tra i primi annovero senz'altro coloro
che per nessuna cosa hanno tempo se non per il vino e la
lussuria; nessuno infatti è occupato in maniera più
vergognosa. Gli altri, anche se sono ossessionati da un
effimero pensiero di gloria, tuttavia sbagliano con garbo;
elencami pure gli avari, gli iracondi o coloro che perseguono
ingiusti rancori o guerre, tutti costoro peccano più
virilmente: la colpa di coloro che sono dediti al ventre e
alla libidine è vergognosa. Esamina tutti i giorni di costoro,
vedi quanto tempo perdano nel pensare al proprio interesse,
quanto nel tramare insidie, quanto nell'aver timore, quanto
nell'essere servili, quanto li tengano occupati le proprie
promesse e quelle degli altri, quanto i pranzi, che ormai sono
diventati anch'essi dei doveri: vedrai in che modo i loro mali
o beni non permettano loro di respirare. Infine tutti
convengono che nessuna cosa può esser ben gestita da un uomo
affaccendato, non l'eloquenza, non le arti liberali, dal
momento che un animo intento a più cose nulla recepisce più in
profondità, ma ogni cosa respinge come se fossa introdotta a
forza. Nulla è di minor importanza per un uomo affaccendato
che il vivere: di nessuna cosa è più difficile la conoscenza.
Dappertutto vi sono molti insegnanti delle altre arti, e
alcune di esse sembra che i fanciulli le abbiano così
assimilate da poterle anche insegnare: tutta la vita dobbiamo
imparare a vivere e, cosa della quale forse ti meraviglierai,
tutta la vita dobbiamo imparare a morire. Tanti uomini
illustri, dopo aver abbandonato ogni ostacolo e aver
rinunziato a ricchezze, cariche e piaceri, solo a questo
anelarono fino all'ultima ora, di saper vivere; tuttavia molti
di essi se ne andarono confessando di non saperlo ancora, a
maggior ragione non lo sanno costoro. Credimi, è tipico di un
uomo grande e che si eleva al di sopra degli errori umani
permettere che nulla venga sottratto dal suo tempo, e la sua
vita è molto lunga per questo, perché, per quanto si sia
protratta, l'ha dedicata tutta a se stesso. Nessun periodo
quindi restò trascurato ed inattivo, nessuno sotto l'influenza
di altri; e infatti non trovò alcunché che fosse degno di
essere barattato con il suo tempo, gelosissimo custode di
esso. Perciò gli fu sufficiente. Ma è inevitabile che sia
venuto meno a coloro, dalla cui vita molto tolse via la gente.
E non credere che essi una buona volta non capiscano il
proprio danno; certamente udirai la maggior parte di quelli,
sui quali pesa una grande fortuna, tra la moltitudine dei
clienti o la gestione delle cause o tra le altre dignitose
miserie esclamare di tanto in tanto: "Non mi è permesso
vivere." E perché non gli è permesso? Tutti quelli che ti
chiamano a sé, ti allontanano da te. Quell'imputato quanti
giorni ti ha sottratto? Quanti quel candidato? Quanti quella
vecchia stanca di seppellire eredi? Quanti quello che si è
finto ammalato per suscitare l'ingordigia dei cacciatori di
testamenti? Quanti quell'influente amico, che vi tiene non per
amicizia ma per esteriorità? Passa in rassegna, ti dico, e fai
un bilancio dei giorni della tua vita: vedrai che ne sono
rimasti ben pochi e male spesi. Quello, dopo aver ottenuto le
cariche che aveva desiderato, desidera abbandonarle e
ripetutamente dice: "Quando passerà quest'anno?" Quello
allestisce i giochi, il cui esito gli stava tanto a cuore e
dice: "Quando li fuggirò?" Quell'avvocato è conteso in tutto
il foro e con grande ressa tutti si affollano fin oltre a dove
può essere udito; dice: "Quando verranno proclamate le ferie?"
Ognuno consuma la propria vita e si tormenta per il desiderio
del futuro e per la noia del presente. Ma quello che sfrutta
per se stesso tutto il suo tempo, che programma tutti i giorni
come una vita, non desidera il domani né lo teme. Cosa vi è
infatti che alcuna ora di nuovo piacere possa apportare? Tutto
è noto, tutto è stato assaporato a sazietà. Per il resto la
buona sorte disponga come vorrà: la vita è già al sicuro. Ad
essa si può aggiungere, ma nulla togliere, e aggiungere così
come del cibo ad uno ormai sazio e pieno, che non ne desidera
ma lo accoglie. Perciò non c'è motivo che tu ritenga che uno
sia vissuto a lungo a causa dei capelli bianchi o delle rughe:
costui non è vissuto a lungo, ma è stato in vita a lungo. E
così come puoi ritenere che abbia molto navigato uno che una
violenta tempesta ha sorpreso fuori dal porto e lo ha sbattuto
di qua e di là e lo ha fatto girare in tondo entro lo stesso
spazio, in balia di venti che soffiano da direzioni opposte?
Non ha navigato molto, ma è stato sballottato molto.
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VIII. Mi stupisco sempre quando vedo alcuni
chiedere tempo e quelli, a cui viene richiesto, tanto
accondiscendenti; l’uno e l’altro guardano al motivo per il
quale il tempo viene richiesto, nessuno dei due alla sua
essenza: lo si chiede come se fosse niente, come se fosse
niente lo si concede. Si gioca con la cosa più preziosa di
tutte; (il tempo) invece li inganna,poiché è qualcosa di
incorporeo, perché non cade sotto gli occhi, e pertanto è
considerato cosa di poco conto, anzi non ha quasi nessun
prezzo. Gli uomini accettano assegni annui e donativi come
cose di caro prezzo e in essi ripongono le loro fatiche, il
loro lavoro e la loro scrupolosa attenzione: nessuno considera
il tempo: ne fanno un uso troppo sconsiderato, come se esso
fosse (un bene) gratuito. Ma guarda costoro (quando sono)
ammalati, se il pericolo della morte incombe molto da vicino,
avvinghiati alle ginocchia dei medici, se temono la pena
capitale, pronti a sborsare tutti i loro averi pur di vivere:
quanta contraddizione si trova in essi. Che se si potesse in
qualche modo mettere davanti (a ciascuno) il numero di anni
passati di ognuno, così come quelli futuri, come
trepiderebbero coloro che ne vedessero restare pochi, come ne
risparmierebbero! Eppure è facile gestire ciò che è sicuro,
per quanto esiguo; si deve invece curare con maggior solerzia
ciò che non sai quando finirà. E non v’è motivo che tu creda
che essi non sappiano che cosa preziosa sia:: sono soliti
dire, a coloro che amano più intensamente, di essere pronti a
dare parte dei loro anni. Li danno e non capiscono: cioè li
danno in modo da sottrarli a se stessi senza peraltro
incrementare quelli. Ma non si accorgono proprio di toglierli;
perciò per essi è sopportabile la perdita di un danno
nascosto. Nessuno (ti) restituirà gli anni, nessuno ti renderà
nuovamente a te stesso; la vita andrà per dove ha avuto
principio e non muterà né arresterà il suo corso; non farà
alcun rumore, non lascerà nessuna traccia della propria
velocità: scorrerà silenziosamente; non si estenderà oltre né
per ordine di re né per favor di popolo: correrà così come ha
avuto inizio dal primo giorno, non cambierà mai traiettoria,
mai si attarderà. Cosa accadrà? Tu sei tutto preso, la vita si
affretta: nel frattempo si avvicinerà la morte, per la quale,
volente o nolente, bisogna avere tempo.
|
IX. Cosa potresti immaginare di più
insensato di quegli uomini che menano vanto della propria
lungimiranza? Sono affaccendati in modo molto impegnativo: per
poter vivere meglio organizzano la vita a scapito della vita.
Fanno progetti a lungo termine; d’altra parte la più grande
sciagura della vita è il suo procrastinarla: innanzitutto
questo fatto rimanda ogni giorno, distrugge il presente mentre
promette il futuro. Il più grande ostacolo al vivere è
l’attesa, che dipende dal domani, (ma) perde l’oggi. Disponi
ciò che è posto in grembo al fato e trascuri ciò che è in tuo
potere. Dove vuoi mirare? Dove vuoi arrivare? Sono avvolti
dall’incertezza tutti gli avvenimenti futuri: vivi senza
arrestarti. Ecco, grida il sommo poeta [Virgilio, Georgiche]
e come ispirato da bocca divina eleva un carme salvifico: "I
primi a fuggire per gli infelici mortali sono i giorni
migliori della vita." Dice: "Perché esiti? Perché indugi? Se
non te ne appropri, (i giorni migliori) fuggono." E pure
quando te ne sarai impossessato, essi fuggiranno: pertanto
bisogna combattere con il farne rapidamente uso (lett.: la
rapidità del farne uso) contro la velocità del tempo e
attingerne rapidamente come da un torrente impetuoso e che non
scorre per sempre. Anche ciò è molto bello, che per
rimproverare un indugio senza fine, dica non "il tempo
migliore", ma "i giorni migliori." Perché tu, tranquillo e
indifferente in tanto fuggire del tempo prefiguri per te una
lunga serie di mesi e di anni, a seconda che appaia opportuno
alla tua avidità? (Virgilio) ti parla di un giorno e di un
giorno che fugge. Vi è dunque dubbio che i migliori giorni
fuggano ai mortali sventurati, cioè affaccendati? Sui loro
animi ancora infantili preme la vecchiaia, alla quale giungono
impreparati ed indifesi; nulla infatti fu previsto:
improvvisamente e senza aspettarselo si imbatterono in essa,
non si accorgevano che essa si avvicinava giorno dopo giorno.
Allo stesso modo che un discorso o una lettura o un pensiero
alquanto intenso trae in inganno chi percorre un cammino e si
accorge di essere giunto prima di essersi avvicinato (alla
meta), così questo viaggio della vita, costante e velocissimo,
che percorriamo con la stessa andatura da svegli e da
addormentati, non si manifesta agli affaccendati se non alla
fine.
|
X. Se volessi dividere ciò che ho esposto e
le argomentazioni, mi verrebbero in aiuto molte cose
attraverso le quali posso dimostrare che la vita degli
affaccendati è molto breve. Soleva affermare Fabiano [Papirio
Fabiano, filosofo neopitagorico, molto stimato da Seneca],
il quale non fa parte di questi filosofi cattedratici ma di
quelli genuini e vecchio stampo, che contro le passioni
bisogna combattere d'istinto, non di sottigliezza, e
respingerne la schiera (delle passioni) non con piccoli colpi
ma con un assalto: infatti esse devono essere pestate, non
punzecchiate. Tuttavia, per rinfacciare ad esse il loro
errore, bisogna non tanto rimproverarle ma ammaestrarle. La
vita si divide in tre tempi: passato, presente e futuro. Di
questi il presente è breve, il futuro incerto, il passato
sicuro. Solo su quest'ultimo, infatti, la fortuna ha perso la
sua autorità, perché non può essere ridotto in potere di
nessuno. Questo perdono gli affaccendati: infatti non hanno il
tempo di guardare il passato e, se lo avessero, sarebbe
sgradevole il ricordo di un fatto di cui pentirsi.
Malvolentieri pertanto rivolgono l'animo a momenti mal vissuti
e non osano riesaminare cose, i cui vizi si manifestano
ripensandole, anche quelli che vengono nascosti con qualche
artificio del piacere presente. Nessuno, se non coloro che
hanno sempre agito secondo la propria coscienza, che mai si
inganna, si rivolge volentieri al passato; chi ha desiderato
molte cose con ambizione, ha sprezzato con superbia, si è
imposto senza regola né freno, ha ingannato con perfidia, ha
sottratto con cupidigia, ha sprecato con leggerezza, ha paura
della sua memoria. Eppure questa è la parte del nostro tempo
sacra ed inviolabile, al di sopra di tutte le vicende umane,
posta al di fuori del regno della fortuna, che non turba né la
fame, né la paura, né l'assalto delle malattie; essa non può
essere turbata né sottratta: il suo possesso è eterno e
inalterabile. Soltanto a uno a uno sono presenti i giorni e
momento per momento; ma tutti (i giorni) del tempo passato si
presenteranno quando tu glielo ordinerai, tollereranno di
essere esaminati e trattenuti a tuo piacimento, cosa che gli
affaccendati non hanno tempo di fare. È tipico di una mente
serena e tranquilla spaziare in ogni parte della propria vita;
gli animi degli affaccendati, come se fossero sotto un giogo,
non possono piegarsi né voltarsi. La loro vita dunque
precipita in un baratro e come non serve a nulla, qualsiasi
quantità tu possa ficcarne dentro, se non vi è sotto qualcosa
che la raccolga e la contenga [come un recipiente senza
fondo], così non importa quanto tempo è concesso, se non
vi è nulla dove posarsi: viene fatto passare attraverso animi
fiaccati e bucati. Il presente è brevissimo, tanto che a
qualcuno sembra inesistente; infatti è sempre in corsa, scorre
e si precipita; smette di esistere prima di giungere, e non
ammette indugio più che il creato o le stelle, il cui moto
sempre incessante non rimane mai nello stesso luogo. Dunque
agli affaccendati spetta solo il presente, che è così breve da
non poter essere afferrato e che si sottrae a chi è oppresso
da molte occupazioni.
|
XI. Vuoi dunque sapere quanto poco tempo
(gli affaccendati) vivano? Vedi quanto desiderano vivere a
lungo. Vecchi decrepiti mendicano con suppliche l'aggiunta di
pochi anni: fingono di essere più giovani; si lusingano con la
bugia e illudono se stessi così volentieri come se
ingannassero al tempo stesso il destino. Però quando qualche
infermità (li) ammonisce del loro stato mortale, come muoiono
terrorizzati, non come uscendo dalla vita, ma come se ne
fossero tirati fuori! Van gridando di essere stati stolti,
tanto da non aver vissuto e se in qualche modo vengono fuori
da quella malattia, di voler vivere in pace; allora pensano a
quante cose si siano procurate invano, e delle quali non
avrebbero fatto uso, come nel vuoto sia caduta ogni loro
fatica. Ma per chi la vita trascorre lungi da ogni faccenda,
perché non dovrebbe essere di lunga durata? Nulla di essa è
affidato (ad altri), nulla è sparpagliato qua e là, nulla
perciò è affidato alla fortuna, nulla si consuma per
noncuranza, nulla si dissipa per prodigalità, nulla è
superfluo: tutta (la vita), per così dire, produce un reddito.
Per quanto breve, dunque, è abbondantemente sufficiente, e
perciò, quando che venga il giorno estremo, il saggio non
esiterà ad andare incontro alla morte con passo fermo.
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XII. Chiedi forse chi io definisco
affaccendati? Non pensare che io bolli come tali solo quelli
che soltanto cani aizzati riescono a cacciar fuori dalla
basilica [il centro degli affari], quelli che vedi esser
stritolati o con maggior lustro nella propria folla [di
clienti] o più vergognosamente il quella [dei clienti] altrui,
quelli che gli impegni spingono fuori dalle proprie case per
schiacciarli con gli affari altrui, o che l'asta del pretore
fa travagliare con un guadagno disonorevole e destinato un
giorno ad incancrenire [si riferisce alla vendita all'asta
dei bottini di guerra e degli schiavi, il cui commercio era
ritenuto disonorevole]. Il tempo libero di alcuni è tutto
impegnato: nella loro villa o nel loro letto, nel bel mezzo
della solitudine, benché si siano isolat da tutti, sono
fastidiosi a se stessi: la loro non deve definirsi una vita
sfaccendata ma un inoperoso affaccendarsi. Puoi chiamare
sfaccendato chi dispone in ordine con minuziosa pignoleria
bronzi di Corinto, pregiati per la passione di pochi, e spreca
la maggior parte dei giorni tra laminette rugginose? Chi in
palestra (infatti, che orrore!, neppur romani sono i vizi di
cui soffriamo) siede come spettatore di ragazzi che lottano?
Chi divide le mandrie dei propri giumenti in coppie di uguale
età e colore? Chi nutre gli atleti (giunti) ultimi? E che?
Chiami sfaccendati quelli che passano molte ore dal barbiere,
mentre si estirpa qualcosa che spuntò nell'ultima notte,
mentre si tiene un consulto su ogni singolo capello, mentre o
si rimette a posto la chioma in disordine o si sistema sulla
fronte da ambo i lati quella rada? Come si arrabbiano se il
barbiere è stato un po' disattento, come se tosasse un uomo!
Come si irritano se viene tagliato qualcosa dalla loro
criniera, se qualcosa è stato mal acconciato, se tutto non
ricade in anelli perfetti! Chi di costoro non preferisce che
sia in disordine lo Stato piuttosto che la propria chioma? Che
non sia più preoccupato della grazia della sua testa che della
sua incolumità? Che non preferisca essere più elegante che
dignitoso? Questi tu definisci sfaccendati, affaccendati tra
il pettine e lo specchio? Quelli che sono dediti a comporre,
sentire ed imparare canzoni, mentre torcono in modulazioni di
ritmo molto modesto la voce, di cui la natura rese il corretto
cammino il migliore e il più semplice, le cui dita cadenzanti
suonano sempre qualche carme dentro di sé, e di cui si ode il
silenzioso ritmo quando si rivolgono a cose serie e spesso
anche tristi? Costoro non hanno tempo libero, ma occupazioni
oziose. Di certo non annovererei i banchetti di costoro tra il
tempo libero, quando vedo con quanta premura dispongono
l'argenteria, con quanta cura sistemano le tuniche dei loro
amasi [giovani che si vendevano per libidine], quanto
siano trepidanti per come il cinghiale vien fuori dalle mani
del cuoco, con quanta sollecitudine i glabri [schiavi che
si facevano depilare per assumere un aspetto femmineo]
accorrono ai loro servigi ad un dato segnale, con quanta
maestria vengano tagliati gli uccelli in pezzi non irregolari,
con quanto zelo infelici fanciulli detergano gli sputi degli
ubriachi: da essi si cerca fama di eleganza e di lusso e a tal
punto li seguono le loro aberrazioni in ogni recesso della
vita, che non bevono né mangiano senza ostentazione. Neppure
annovererai tra gli sfaccendati coloro che vanno in giro sulla
portantina o sulla lettiga e si presentano all'ora delle loro
passeggiate come se non gli fosse permesso rinunziarvi, e che
un altro deve avvertire quando si devono lavare, quando devono
nuotare o cenare: e a tal punto illanguidiscono in troppa
fiacchezza di un animo delicato, da non potersi accorgere da
soli se hanno fame. Sento che uno di questi delicati - se pure
si può chiamare delicatezza il disimparare la vita e la
consuetudine umana - , trasportato a mano dal bagno e
sistemato su una portantina, abbia detto chiedendo: "Sono già
seduto?". Tu reputi che costui che ignora se sta seduto sappia
se è vivo, se vede e se è sfaccendato? Non è facile dire se mi
fa più pena se non lo sapeva o se fingeva di non saperlo.
Certamente di molte cose soffrono in realtà la dimenticanza,
ma di molte anche la simulano; alcuni vizi li allettano come
oggetto di felicità; sembra che il sapere cosa fai sia tipico
dell'uomo umile e disprezzato; ora va e credi che i mimi
inventano molte cose per biasimare il lusso. Certo trascurano
più di quanto rappresentano ed è apparsa tanta abbondanza di
vizi incredibili in questo solo secolo, che ormai possiamo
dimostrare la trascuratezza dei mimi. Vi è qualcuno che si
consuma a tal punto nelle raffinatezze da credere ad un altro
se è seduto! Dunque costui non è sfaccendato, dagli un altro
nome: è malato, anzi è morto; sfaccendato è quello che è
consapevole del suo tempo libero. Ma questo semivivo, a cui è
necessaria una spia che gli faccia capire lo stato del suo
corpo, come può costui essere padrone di alcun momento?
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XIII. Sarebbe lungo enumerare uno ad uno
coloro la cui vita consumarono gli scacchi o la palla o la
cura del corpo con il sole. Non sono sfaccendati quelli i cui
piaceri costano molta fatica.. Infatti di essi nessuno
dubiterà che non fanno nulla con fatica, che si tengono
occupati in studi di inutili opere letterarie, le quali ormai
anche presso i Romani sono un cospicuo numero. Fu malattia dei
Greci questo domandarsi quanti rematori abbia avuto Ulisse, se
sia stata scritta prima l'Iliade o l'Odissea e inoltre se
fossero dello stesso autore, e poi altre cose di questo genere
che, se le tieni per te per nulla sono utili ad una silenziosa
conoscenza, se le divulghi non sembrerai più istruito ma più
importuno. Ecco che ha invaso anche i Romani un vano desiderio
di apprendere cose superflue. In questi giorni ho sentito un
tizio che andava dicendo quali cose ognuno dei generali romani
ha fatto per primo: per primo Duilio vinse in una battaglia
navale, per primo Curio Dentato introdusse gli elefanti nella
sfilata del trionfo. Ancora queste cose, anche se non mirano
ad una vera gloria, almeno trattano esempi di opere civili:
questa conoscenza non sarà di utilità, perlomeno è tale da
tenerci interessati dalla splendida vanità delle cose.
Perdoniamo anche ciò a chi si chiede chi per primo convinse i
Romani a salire su una nave - è stato Claudio, proprio per
questo chiamato Codice ["caudica" era una barca, ricavata
in un tronco, detto "caudex"], perché l'aggregato di
parecchie tavole era chiamato "codice" presso gli antichi, per
cui i pubblici registri si dicono "codici" e anche ora le
navi, che trasportano le derrate lungo il Tevere, per antica
consuetudine vengono chiamate "codicarie" - ; certamente anche
ciò ha importanza, che Valerio Corvino per primo debellò
Messina e fu il primo della gente Valeria ad esser chiamato
Messana, avendo trasferito nel suo nome quello della città
conquistata, e poi fu detto Messalla avendone il popolo poco
alla volta alterato le lettere: ma permetterai anche che
qualcuno si occupi del fatto che Lucio Silla per primo
presentò nel circo leoni sciolti, quando normalmente venivano
esibiti legati, essendo stati inviati dal re Bocco [re
della Mauritania] degli arcieri per ucciderli? E si
perdoni pure questo: forse che serve a qualcosa di buono che
Pompeo per primo abbia allestito nel circo una battaglia di
diciotto elefanti opposti come in combattimento a dei
condannati? Il primo della città e tra i primi degli antichi,
come si tramanda, di eccezionale bontà, considerò un genere di
spettacolo degno di esser ricordato il far morire degli uomini
in una maniera nuova. "Combattono all'ultimo sangue? È poco.
Sono dilaniati? È poco: vengano schiacciati dall'enorme mole
degli animali!". Era meglio che queste cose andassero nel
dimenticatoio, affinché in seguito nessun potente imparasse ed
invidiasse una cosa del tutto disumana. Quanta nebbia mette
avanti alle nostre menti una grande fortuna! Egli allora
ritenne di essere al di sopra della natura, esponendo a bestie
nate sotto un cielo straniero tante schiere di infelici,
organizzando combattimenti tra animali tanto dissimili,
spandendo molto sangue al cospetto del popolo Romano, che
presto lo avrebbe costretto a versarne di più [si riferisce
alla guerra civile di Pompeo contro Cesare]; ma poi,
ingannato dalla perfidia alessandrina [il tradimento del
faraone Tolomeo, fratello di Cleopatra], si offrì per
essere ucciso dall'ultimo schiavo [l'eunuco Achillas, che
pugnalò Pompeo a tradimento], capendo solo allora
l'inutile vanagloria del proprio soprannome [Magno] Ma
per tornar lì da dove principiai e per dimostrare nella stessa
materia il vacuo zelo di certuni, quello stesso narrava che
Metello, dopo aver sconfitto in Sicilia i Cartaginesi, fu il
solo tra quelli che ottennero il trionfo tra tutti i Romani ad
aver condotto davanti al cocchio centoventi elefanti
prigionieri; che Silla fu l'ultimo dei Romani ad aver ampliato
il pomerio [spazio di terreno, consacrato e lasciato
libero, all'interno e all'esterno della cinta muraria di Roma],
che mai fu esteso, per antica consuetudine, con l'acquisizione
di terreno provinciale, ma italico. Sapere ciò è più utile
(che sapere) che il monte Aventino si trova fuori dal pomerio,
come quegli asseriva, per uno dei due motivi: o perché la
plebe da lì aveva fatto la secessione [nel 494 a.C.], o
perché mentre in quel luogo Remo prendeva gli auspici, gli
uccelli non avevano dato buoni presagi, e via dicendo altre
cose innumerevoli, che o sono farcite di bugie o sono simili a
bugie. Infatti, anche ammesso che essi dicano tutto ciò in
buona fede, che scrivano cose che sono in grado di dimostrare,
tuttavia di chi queste cose faranno diminuire gli errori? Di
chi freneranno le passioni? Chi renderanno più saldo, chi più
giusto, chi più altruista? Talora il nostro Fabiano diceva di
dubitare se fosse meglio non accostarsi a nessuno studio
piuttosto che impelagarsi in questi.
|
XIV. Soli tra tutti sono sfaccendati coloro
che si dedicano alla saggezza, essi soli vivono; e infatti non
solo custodiscono bene la propria vita: aggiungono ogni età
alla propria; qualsiasi cosa degli anni prima di essi è stata
fatta, per essi è cosa acquisita. Se non siamo persone molto
ingrate, quegli illustrissimi fondatori di sacre dottrine sono
nati per noi, per noi hanno preparato la vita. Siamo guidati
dalla fatica altrui verso nobilissime imprese, fatte uscire
fuori dalle tenebre verso la luce; non siamo vietati a nessun
secolo, in tutti siamo ammessi e, se ci aggrada di venir fuori
con la grandezza dell'animo dalle angustie della debolezza
umana, vi è molto tempo attraverso cui potremo spaziare.
Possiamo discorrere con Socrate, dubitare con Carneade,
riposare con Epicuro, vincere con gli Stoici la natura
dell'uomo, andarvi oltre con i Cinici. Permettendoci la natura
di estenderci nella partecipazione di ogni tempo, perché non
(elevarci) con tutto il nostro spirito da questo esiguo e
caduco passar del tempo verso quelle cose che sono immense,
eterne e in comune con i migliori? Costoro, che corrono di qua
e di là per gli impegni, che non lasciano in pace se stessi e
gli altri, quando sono bene impazziti, quando hanno
quotidianamente peregrinato per gli usci gli tutti e non hanno
trascurato nessuna porta aperta, quando hanno portato per case
lontanissime il saluto interessato [del cliente verso il
patrono, ricompensato in cibarie], quanto e chi hanno
potuto vedere di una città tanto immensa e avvinta in varie
passioni? Quanti saranno quelli di cui il sonno o la libidine
o la grossolanità li respingerà! Quanti quelli che, dopo
averli tormentati a lungo, li trascureranno con finta premura!
Quanti eviteranno di mostrarsi per l'atrio zeppo di clienti e
fuggiranno via attraverso uscite segrete delle case, come se
non fosse più scortese l'inganno che il non lasciarli entrare!
Quanti mezzo addormentati e imbolsiti dalla gozzoviglia del
giorno precedente, a quei miseri che interrompono il proprio
sonno per aspettare quello altrui, a stento sollevando le
labbra emetteranno con arroganti sbadigli il nome mille volte
sussurrato! Si può ben dire che indugiano in veri impegni
coloro che vogliono essere ogni giorno quanto più intimi di
Zenone, di Pitagora, di Democrito e degli altri sacerdoti
delle buone arti, di Aristotele e di Teofrasto. Nessuno di
costoro non avrà tempo, nessuno non accomiaterà chi viene a
lui più felice ed affezionato a sé, nessuno permetterà che
qualcuno vada via da lui a mani vuote; da tutti i mortali
possono essere incontrati, di notte e di giorno.
|
XV. Nessuno di essi ti costringerà a
morire, tutti (te lo) insegneranno; nessuno di essi logorerà i
tuoi anni o ti aggiungerà i propri; di nessuno di essi sarà
pericoloso il parlare, di nessuno sarà letale l'amicizia, di
nessuno sarà dispendiosa la considerazione. Otterrai da loro
qualsiasi cosa vorrai; non dipenderà da essi che tu non
assorba quanto più riceverai. Che gioia, che serena vecchiaia
attende chi si rifugia in seno alla clientela di costoro! Avrà
con chi riflettere sui più piccoli è sui più grandi argomenti,
chi consultare ogni giorno su se stesso, da chi udire il vero
senza oltraggio, da chi esser lodato senza servilismo, a
somiglianza di chi conformarsi. Siamo soliti dire che non era
in nostro potere scegliere i genitori che ci sono toccati in
sorte: ma ci è permesso nascere secondo la nostra volontà. Vi
sono famiglie di eccelsi ingegni: scegli in quale (di esse)
vuoi essere accolto; non solo sarai adottato nel nome, ma
anche negli stessi beni, che non dovranno essere custoditi né
con avarizia né con grettezza: (i beni) diverranno più grandi
quanto a più li distribuirai. Costoro ti indicheranno il
cammino verso l'eternità e ti eleveranno in quel luogo dal
quale nessuno viene cacciato via. Questo è il solo modo di
estendere lo stato mortale, anzi di mutarlo in stato
immortale. Onori, monumenti, tutto ciò che l'ambizione ha
stabilito con decreti o ha costruito con le opere, presto va
in rovina, nulla non distrugge e trasforma una lunga
vecchiaia; ma non può nuocere a quelle cose che la saggezza ha
consacrato; nessuna età (le) cancellerà o (le) sminuirà;
quella seguente e poi quelle sempre successive apporteranno
qualcosa in venerabilità, poiché appunto da vicino domina
l'invidia, più schiettamente ammiriamo quando (l'invidia) e
situata in lontananza. Dunque molto si estende la vita del
saggio, non lo angustia lo stesso confine che (angustia) gli
altri: lui solo è svincolato dalle leggi della natura umana,
tutti i secoli gli sono soggetti come a un dio. Passa un certo
tempo: lo tiene legato col ricordo; è pressante: se ne serve;
sta per arrivare: lo anticipa. Gli rende lunga la vita la
raccolta di ogni tempo in uno solo.
|
XVI. Molto breve e travagliata è la vita di
coloro che sono dimentichi del passato, trascurano il
presente, hanno timori sul futuro: quando saranno giunti
all’ultima ora, tardi comprendono, infelici, di essere stati a
lungo affaccendati, pur non avendo combinato nulla. E non vi è
motivo di credere che si possa provare che essi abbiano una
lunga vita col fatto che invochino spesso la morte: li
tormenta l’ignoranza in sentimenti incerti, che incorrono in
quelle stesse cose che temono; perciò invocano spesso la
morte, perché (la) temono. Non è neppure prova credere che
vivano a lungo il fatto che spesso il giorno sembri ad essi
eterno, che mentre arriva l’ora convenuta per la cena si
lamentino che le ore scorrano lentamente; difatti, se talora
le occupazioni li abbandonano, ardono abbandonati nel tempo
libero e non sanno come disporne e come impiegarlo. E così si
rivolgono a qualsiasi occupazione e tutto il tempo che
intercorre è per essi gravoso, proprio così come, quando è
stato fissato un giorno per uno spettacolo di gladiatori, o
quando si attende il momento stabilito di qualche altro
spettacolo o piacere, vogliono saltare i giorni di mezzo. Per
essi è lungo ogni rinvio di una cosa sperata: ma è breve e
rapido quel tempo che amano, e molto più breve per colpa loro;
infatti passano da un posto all’altro e non possono fermarsi
in un’unica passione. Per essi non sono lunghi i giorni, ma
odiosi; ma invece come sembrano brevi le notti che trascorrono
nel vino o nell’amplesso delle meretrici! Dsi qui anche la
follia dei poeti, che alimentano con le (loro) favole gli
errori umani: secondo loro pare che Giove, sedotto
dall’amplesso (lett.: addolcito dal piacere), abbia
raddoppiato (il tempo di) una notte [è il mito di Alcmena,
cui Giove si era presentato sotto le sembianze del marito
Anfitrione: raddoppiò la durata della notte, frutto della
quale sarebbe stato poi Ercole]. Cosa altro è alimentare i
nostri vizi che attribuire ad essi gli dei quali autori e dare
al male giustificata licenza mediante l’esempio della
divinità? Possono a costoro non sembrare brevissime le notti
che acquistano a caro prezzo? Perdono il giorno nell’attesa
della notte, la note per paura del giorno.
|
XVII. Gli stessi loro piaceri sono ansiosi
ed inquieti per vari timori e subentra l'angosciosa domanda di
chi è al massimo del piacere (lett.: di chi massimamente
gioisce): "Fino a quando ciò (durerà)?". Da questo stato
d'animo dei re piansero la propria potenza, né li consolò la
grandezza della propria fortuna, ma li atterrì la fine
imminente. Avendo dispiegato l'esercito attraverso enormi
spazi di territori e non abbracciandone il numero ma la
dimensione, l'orgogliosissimo re dei Persiani [Serse]
versò lacrime, perché di lì a cento anni nessuno di tanta
gioventù sarebbe sopravvissuto: ma ad essi stava per
affrettare il destino proprio lui che (li) piangeva e che ne
avrebbe perduti altri in mare, altri in terra, altri in
battaglia, altri in fuga ed in breve tempo avrebbe portato
alla rovina quelli per i quali temeva il centesimo anno. E
pure le loro gioie non sono forse ansiose? Non appoggiano
infatti su solide basi, ma sono turbate dalla stessa nullità
dalla quale traggono origine. Quali perciò credi che siano i
periodi tristi per loro stessa ammissione, quando anche questi
(periodi), nei quali si inorgogliscono e si pongono al di
sopra dell'umanità, sono poco veritieri? Tutti i beni più
grandi sono ansiogeni e non bisogna fidarsi di nessuna fortuna
meno che di quella più favorevole: è necessaria nuova felicità
per preservare la felicità e si devono fare voti proprio per i
voti che si sono esauditi. Infatti tutto quel che avviene per
caso è instabile; ciò che assurgerà più in alto, più
facilmente (cadrà) in basso. Certamente le cose caduche non
fanno piacere a nessuno: è dunque inevitabile che sia
penosissima e non solo brevissima la vita di coloro che si
procacciano con grande fatica cose da possedere con fatica
maggiore. Faticosamente ottengono ciò che vogliono,
ansiosamente gestiscono ciò che hanno ottenuto; mentre nessun
calcolo si fa del tempo che non tornerà mai più: nuove
occupazioni subentrano a quelle vecchie, una speranza
risveglia la speranza, un'ambizione l'ambizione. Non si cerca
la fine delle sofferenze, ma si cambia la materia. Le nostre
cariche ci hanno tormentato: ci tolgono più tempo quelle
altrui; abbiamo smesso di penare come candidati: ricominciamo
come elettori; abbiamo rinunziato al fastidio dell'accusare:
cadiamo (in quello) del giudicare; ha cessato di essere
giudice: diventa inquisitore; è invecchiato
nell'amministrazione a pagamento dei beni altrui: è tenuto
occupato dai propri averi. Il servizio militare ha congedato
Mario: (lo) affatica il consolato. Quinzio [Cincinnato]
si affanna ad evitare la carica di dittatore (lett.: la
dittatura): sarà richiamato dall'aratro. Scipione marcerà
contro i Cartaginesi non ancora maturo per tanta impresa;
vincitore di Annibale [a Zama, nel 202 a.C.], vincitore
di Antioco [re di Siria, a Magnesia nel 190 a.C.],
orgoglio del proprio consolato, garante di quello fraterno [Lucio],
se non vi fosse stata opposizione da parte sua, sarebbe
collocato accanto a Giove [Scipione rifiutò che la sua
statua fosse posta nel tempio di Giove Capitolino]:
sommosse civili coinvolgeranno (lui) salvatore dei cittadini e
dopo gli onori pari agli dei, rifiutati da giovane, ormai
vecchio (lo) compiacerà l'ostentazione di un orgoglioso
esilio. Non mancheranno mai motivi lieti o tristi di
preoccupazione; la vita si trascinerà attraverso le
occupazioni: giammai si vivrà il tempo libero, sempre verrà
desiderato.
|
XVIII. Allontànati dunque dalla folla,
carissimo Paolino, e ritirati alfine in un porto più
tranquillo, spintovi non a causa della durata della vita.
Pensa quanti flutti hai affrontato, quante tempeste private
hai sopportato, quante (tempeste) pubbliche ti sei attirato;
già abbastanza il tuo valore è stato dimostrato attraverso
faticosi e pesanti esempi: sperimenta cosa (il tuo valore) può
fare senza impegni. La maggior parte della vita, di certo la
migliore, sia pur stata dedicata alla cosa pubblica: prenditi
un pò di tempo pure per te. E non sto ad invitarti ad una
pigra ed inerte inattività, non perché tu immerga quanto c'è
in te di vigorosa indole nel torpore e nei piaceri cari al
volgo: questo non è riposare; troverai attività più importanti
di tutte quelle finora valorosamente trattate, che portai
compiere appartato e tranquillo. Tu di certo amministrerai gli
affari del mondo tanto disinteressatamente come (di) altri,
tanto scrupolosamente come tuoi, con tanto zelo come pubblici.
Ti guadagni la stima in un incarico in cui non è facile
evitare il malvolere: ma tuttavia, credimi, è meglio conoscere
il calcolo della propria vita che (quello) del grano statale.
Allontana questa vigoria dell'animo, capacissima delle cose
più grandi, da un ufficio sì onorifico ma poco adatto ad una
vita serena e pensa che non ti sei occupato, fin dalla tenera
età, di ogni cura degli studi liberali perché ti fossero
felicemente affidate molte migliaia (di moggi) di grano: avevi
aspirato per te a qualcosa di più grande e di più elevato. Non
mancheranno uomini di perfetta sobrietà e di industriosa
attività: tanto più adatte a portar pesi sono lente giumente
che nobili cavalli, la cui generosa agilità chi mai ha
oppresso con una gravosa soma? Pensa poi quanto affanno sia il
sottoporti ad un onere così grande: ti occupi del ventre
umano; il popolo affamato non sente ragioni, non è placato
dalla giustizia né piegato dalla preghiera. Or ora, entro quei
pochi giorni in cui morì Caio Cesare [Caligola] - se vi
è una qualche sensibilità nell'aldilà, sostenendo ciò con
animo molto grato, perché calcolava che al popolo Romano
superstite rimanessero certamente cibarie per sette o otto
giorni -, mentre egli congiunge ponti di navi [Caligola
fece costruire un ponte di navi da Baia a Pozzuoli, come ci
tramanda Svetonio] e gioca con le risorse dell'impero, si
avvicinava il peggiore dei mali anche per gli assediati, la
mancanza di viveri; consistette quasi nella morte e nella fame
e, conseguenza della fame, la rovina di ogni cosa e
l'imitazione di un re dissennato e straniero e tristemente
orgoglioso [il re Serse, che costruì un porto sullo stretto
dei Dardanelli per la sfortunata spedizione in Grecia].
Che animo ebbero allora quelli a cui era stata affidata la
cura del grano pubblico, soggetti alle pietre, al ferro, alle
fiamme, a Gaio? Con enorme dissimulazione coprivano un male
così grande nascosto tra le viscere e a ragion veduta; infatti
alcuni mali vanno curati all'insaputa degli ammalati: per
molti causa di morte è stato il conoscere il proprio male.
|
XIX. Rifugiati in queste cose più
tranquille, più sicure, più grandi! Credi che sia la stessa
cosa se curi che il frumento venga travasato nei granai
integro sia dalla frode che dall'incuria dei trasportatori,
che non sia madido di umidità accumulata e non fermenti, che
sia conforme alla misura e al peso, o se ti accosti a queste
cose sacre e sublimi per conoscere quale sia la materia di
Dio, quale la volontà, la condizione, la forma; quale
condizione attenda il tuo spirito; dove la natura ci disponga
una volta usciti dai (nostri) corpi; cosa sia che sostenga
ogni cosa più pesante al centro di questo mondo, sospenda al
di sopra quelle leggere, sollevi il fuoco in cima, ecciti gli
astri nei loro percorsi; e via via le altre cose colme di
strabilianti fenomeni? Vuoi, una volta abbandonata la terra,
rivolgere l'attenzione a queste cose? Ora, finché il sangue è
caldo, pieni di vigore dobbiamo tendere a cose migliori. Ti
aspettano in questo genere di vita molte buone attività,
l'amore e la pratica delle virtù, l'oblio delle passioni, il
saper vivere e il saper morire (lett.: la conoscenza del
vivere e del morire), una profonda quiete delle cose.
|
XX: Certamente miserevole è la condizione
di tutti gli affaccendati, ma ancor più misera (quella) di
coloro che non si danno da fare nemmeno per le loro faccende,
dormono in relazione al sonno altrui, camminano secondo il
passo altrui, a cui viene prescritto (come) amare e odiare,
cose che sono le più spontanee di tutte. Se costoro vogliono
sapere quanto sia breve la loro vita, considerino quanto
esigua sia la loro quota parte. Perciò quando vedrai una toga
pretesta già più volte indossata o un nome famoso nel foro,
non provare invidia: queste cose si ottengono a scapito della
vita. Affinché un solo anno si dati da loro, consumeranno
tutti i loro anni [gli anni si datavano dal nome dei
consoli]. Prima di inerpicarsi in cima all'ambizione,
alcuni la vita abbandonò mentre si dibattevano tra le prime
(difficoltà); ad alcuni, essendo passati attraverso mille
disonestà per il raggiungimento della posizione, venne in
mente l'amara considerazione di essersi dannati per
l'epitaffio; di certuni venne meno l'estrema vecchiaia, mentre
come la gioventù attendeva a nuove speranze, indebolita tra
sforzi enormi e gravosi. Vergognoso colui che il fiato
abbandonò in tribunale, in età avanzata, difendendo litiganti
del tutto sconosciuti e cercando l'assenso di un uditorio
ignorante; infame colui che stanco del vivere più che del
lavorare, crollò tra i suoi stessi impegni; infame colui che
l'erede, a lungo trattenuto, deride mentre egli muore
dedicandosi ai suoi conti. Non posso tralasciare un esempio
che mi sovviene: Sesto Turranio è stato un vecchio di accurata
coscienziosità, che dopo i novant'anni, avendo ricevuto
inaspettatamente da Caio Cesare [Caligola] l'esonero
dalla procura, diede disposizioni di essere composto sul letto
e di esser pianto come morto dalla famiglia attorno a lui.
Piangeva la casa l'inattività del vecchio padrone e non cessò
il lutto prima che gli fosse restituito il suo lavoro. A tal
punto è piacevole morire affaccendato? Lo stesso stato d'animo
ha la maggior parte: in essi vi è più a lungo il desiderio che
la capacità del lavoro; combattono contro la decadenza del
corpo, la stessa vecchiaia giudicano gravosa e con nessun
altro nome, perché li mette da parte. La legge non chiama
sotto le armi a partire dai cinquant'anni, non convoca il
senatore dai sessanta: gli uomini ottengono il riposo più
difficilmente da se stessi che dalla legge. Nel frattempo,
mentre sono rapinati e rapinano, mentre vicendevolmente si
tolgono la pace, mentre sono reciprocamente infelici, la vita
è senza frutto, senza piacere, senza nessun progresso dello
spirito: nessuno ha la morte davanti agli occhi, nessuno non
proietta lontano le speranze, alcuni poi organizzano pure
quelle cose che sono oltre la vita, grandi moli di sepolcri e
dediche di opere pubbliche e giochi funebri (lett.: presso il
rogo) ed esequie sfarzose. Ma sicuramente i funerali di
costoro, come se avessero vissuto pochissimo, devono
celebrarsi alla luce di fiaccole e ceri. |
traduzione di Luigi Chiosi
3
1 Mi scrivi che hai dato a un tuo amico delle
lettere da consegnarmi; mi inviti poi a non discutere con lui di
tutto quello che ti riguarda, poiché tu stesso non ne hai
l'abitudine. Così nella stessa lettera affermi e poi neghi che
quello è tuo amico. Se usi una parola specifica in senso generico e
lo chiami amico come noi chiamiamo "onorevoli" tutti quelli che
aspirano a una carica pubblica, oppure salutiamo con un "caro" chi
incontriamo, se il nome non ci viene in mente, lasciamo perdere. 2
Ma se consideri amico uno e non ti fidi di lui come di te stesso,
sbagli di grosso e non conosci abbastanza il valore della vera
amicizia. Con un amico decidi tranquillamente di tutto, ma prima
decidi se è un amico: una volta che hai fatto amicizia, ti devi
fidare; prima, però, devi decidere se è vera amicizia. Confondono i
doveri dell'amicizia sovvertendone l'ordine le persone che,
contrariamente agli insegnamenti di Teofrasto, dopo aver concesso il
loro affetto, cominciano a giudicare e, avendo giudicato, non
mantengono l'affetto. Rifletti a lungo se è il caso di accogliere
qualcuno come amico, ma, una volta deciso, accoglilo con tutto il
cuore e parla con lui apertamente come con te stesso. 3 Vivi in modo
da non aver segreti nemmeno per i tuoi nemici. Poiché, però ci sono
cose che è abitudine tener nascoste, dividi con l'amico ogni tua
preoccupazione, ogni tuo pensiero. Se lo giudichi fidato, lo
renderai anche tale. Chi ha paura di essere ingannato insegna a
ingannare e i suoi sospetti autorizzano ad agire disonestamente.
Perché di fronte a un amico dovrei pesare le parole? Perché davanti
a lui non dovrei sentirmi come se fossi solo? 4 C'è gente che
racconta al primo venuto fatti che si dovrebbero confidare solo agli
amici e scarica nelle orecchie di uno qualunque i propri tormenti.
Altri, invece, temono persino che le persone più care vengano a
sapere le cose e nascondono sempre più dentro ogni segreto, per non
confidarlo, se potessero, neppure a se stessi. Sono due
comportamenti da evitare perché è un errore sia credere a tutti, sia
non credere a nessuno, ma direi che il primo è un difetto più
onesto, il secondo più sicuro. 5 Allo stesso modo meritano di essere
biasimati sia gli eterni irrequieti, sia gli eterni flemmatici. Non
è operosità godere dello scompiglio, ma lo smaniare di una mente
esagitata, come non è quiete giudicare fastidiosa ogni attività,
bensì fiacchezza e indolenza. 6 Ricordala bene, perciò questa frase
che ho letto in Pomponio: "C'è chi si tiene così ben nascosto che
gli sembra tempesta tutto ciò che succede sotto il sole." Bisogna
saper conciliare queste due opposte tendenze: chi è flemmatico deve
agire e deve calmarsi chi è sempre in attività. Consigliati con la
natura: ti dirà che ha creato il giorno e la notte. Stammi bene.
7
1 Mi chiedi che cosa secondo me dovresti
soprattutto evitare? La folla. Non puoi ancora affidarti a essa
tranquillamente. Quanto a me, ti confesserò la mia debolezza: quando
rientro non sono mai lo stesso di prima; l'ordine interiore che mi
ero dato, in parte si scompone. Qualche difetto che avevo eliminato,
ritorna. Capita agli ammalati che una prolungata infermità li
indebolisca al punto di non poter uscire senza danno: così è per me,
reduce da una lunga malattia spirituale. 2 I rapporti con una grande
quantità di persone sono deleterî: c'è sempre qualcuno che ci
suggerisce un vizio o ce lo trasmette o ce lo attacca a nostra
insaputa. Più è la gente con cui ci mescoliamo, tanto maggiore è il
rischio. Ma non c'è niente di più dannoso alla morale che
l'assistere oziosi a qualche spettacolo: i vizi si insinuano più
facilmente attraverso i piaceri. 3 Capisci che cosa intendo dire?
Ritorno più avaro, più ambizioso, più dissoluto, anzi addirittura
più crudele e disumano, poiché sono stato in mezzo agli uomini.
Verso mezzogiorno sono capitato per caso a uno spettacolo; mi
attendevo qualche scenetta comica, qualche battuta spiritosa, un
momento di distensione che desse pace agli occhi dopo tanto sangue.
Tutto al contrario: di fronte a questi i combattimenti precedenti
erano atti di pietà; ora niente più scherzi, ma veri e propri
omicidi. I gladiatori non hanno nulla con cui proteggersi; tutto il
corpo è esposto ai colpi e questi non vanno mai a vuoto. 4 La gente
per lo più preferisce tali spettacoli alle coppie normali di
gladiatori o a quelle su richiesta del popolo. E perché no? Non
hanno elmo né scudo contro la lama. Perché schermi protettivi?
Perché virtuosismi? Tutto ciò ritarda la morte. Al mattino gli
uomini sono gettati in pasto ai leoni e agli orsi, al pomeriggio ai
loro spettatori. Chiedono che gli assassini siano gettati in pasto
ad altri assassini e tengono in serbo il vincitore per un'altra
strage; il risultato ultimo per chi combatte è la morte; i mezzi con
cui si procede sono il ferro e il fuoco. 5 E questo avviene mentre
l'arena è vuota. "Ma costui ha rubato, ha ammazzato". E allora? Ha
ucciso e perciò merita di subire questa punizione: ma tu, povero
diavolo, di che cosa sei colpevole per meritare di assistere a
questo spettacolo? "Uccidi, frusta, brucia! Perché ha tanta paura a
slanciarsi contro la spada? Perché colpisce con poca audacia? Perché
va incontro alla morte poco volentieri? Lo si faccia combattere a
sferzate, che si feriscano a vicenda affrontandosi a petto nudo."
C'è l'intervallo: "Si scanni qualcuno, intanto, per far passare il
tempo." Non capite nemmeno questo, che i cattivi esempi si ritorcono
su chi li dà? Ringraziate gli dei perché insegnate a essere crudele
a uno che non può imparare.
6 Bisogna sottrarre alla folla gli animi deboli e
poco saldi nel bene: è molto facile subire l'influsso della
maggioranza. Frequentare una massa di gente diversa da loro avrebbe
potuto cambiare i costumi persino di Socrate, Catone, Lelio; nessuno
di noi, soprattutto quando il nostro carattere è in formazione, può
resistere alla pressione di tanti vizi tutti insieme. 7 Un solo
esempio di mollezza o di avarizia produce gravi danni: un commensale
raffinato a poco a poco ti guasta, ti infiacchisce, un vicino ricco
scatena la tua avidità, un compagno malvagio contamina anche un uomo
semplice e puro: che cosa pensi che succeda alle nostre convinzioni
morali quando vengono attaccate in massa dai vizi? 8 Due sono i
casi: o li imiti o li odi. Ma sono da evitare l'uno e l'altro
estremo: non devi assimilarti ai malvagi, perché sono molti, né
essere nemico di molti, perché sono dissimili. Ritirati in te stesso
per quanto puoi; frequenta le persone che possono renderti migliore
e accogli quelli che puoi rendere migliori. Il vantaggio è reciproco
perché mentre s'insegna si impara. 9 Non c'è ragione per cui il
desiderio di gloria debba spingerti a esibire a tutti il tuo ingegno
con declamazioni o discussioni pubbliche; ti consiglierei di agire
così, se tu avessi merce adatta alla massa, ma non c'è nessuno in
grado di capirti. Capiterà forse qualcuno, uno o due al massimo, e
tu dovrai formarlo ed educarlo perché ti possa capire. "Ma allora,
per chi ho imparato tutto questo?" Non temere di aver perso il tuo
tempo, se hai imparato per te.
10 Ma per evitare di aver imparato solo per me
oggi, ti scriverò tre belle massime che mi è capitato di leggere
all'incirca sullo stesso argomento: di queste una salda il mio
debito per questa lettera, le altre due prendile come anticipo.
Scrive Democrito: "Secondo me, una sola persona vale quanto tutto il
popolo e il popolo quanto una sola persona." 11 Dice bene anche
quell'altro, chiunque sia stato (è incerto, infatti, di chi si
tratti); gli chiedevano perché si applicasse con tanto impegno a una
materia che pochissimi avrebbero compreso, rispose: "A me bastano
poche persone, anzi anche una sola o addirittura nessuna."
Eccellente anche questa terza affermazione, di Epicuro; in una sua
lettera a un compagno di studi: "Io parlo non per molti, ma per te;"
scrive, "noi siamo l'uno per l'altro un teatro sufficientemente
grande." 12 Devi, caro Lucilio, serbare in te queste massime, per
disprezzare il piacere che deriva dal consenso generale. Molti ti
lodano; ma perché dovresti rallegrarti se sono in tanti a capirti? I
tuoi meriti ricerchino l'approvazione della tua coscienza. Stammi
bene.
44
1 Di nuovo ti fai piccolo ai miei occhi e dici
che la natura prima e la sorte poi si sono comportate piuttosto male
con te, e invece, potresti tirarti fuori dalla massa e innalzarti
alla più grande felicità umana. La filosofia ha, tra l'altro, questo
di buono: non guarda all'albero genealogico: tutti, se si rifanno
alla loro prima origine, discendono dagli dèi. 2 Tu sei un cavaliere
romano e a questo ceto ti ha condotto la tua laboriosità; sono molti
a non avere diritto alle prime quattordici file e il senato non
accoglie tutti; anche nell'àmbito militare gli uomini destinati a
imprese faticose e piene di pericoli si scelgono dopo un severo
esame: la saggezza, invece, è accessibile a tutti, tutti siamo
sufficientemente nobili per raggiungerla. La filosofia non respinge,
non sceglie nessuno: splende per tutti. 3 Socrate non era patrizio;
Cleante attingeva l'acqua e irrigava lui stesso il giardino; la
filosofia non ha accolto Platone già nobile, ma lo ha reso tale:
perché disperi di poter diventare pari a loro? Sono tutti tuoi
antenati, se ne sarai degno; e lo sarai, se ti convincerai sùbito
che nessuno è più nobile di te. 4 Tutti noi abbiamo un ugual numero
di avi; la nostra origine va oltre la memoria umana. Platone
sostiene che non c'è re che non discenda da schiavi e schiavo che
non discenda da re. Vicende alterne nel corso dei secoli hanno
sconvolto tutte queste categorie e la fortuna le ha sovvertite. 5
Chi è nobile? Chi dalla natura è stato ben disposto alla virtù.
Bisogna guardare solo a questo: altrimenti, se ci rifacciamo ai
tempi antichi, tutti provengono da un punto prima del quale non c'è
niente. Una serie alterna di splendori e miserie ci ha condotto
dalla prima origine del mondo fino ai nostri tempi. Non ci rende
nobili un ingresso pieno di ritratti anneriti dal tempo; nessuno è
vissuto per nostra gloria e non ci appartiene quello che è stato
prima di noi: ci rende nobili l'anima, che da qualunque condizione
può ergersi al di sopra della fortuna. 6 Immagina, dunque, di essere
non un cavaliere romano, ma un liberto: puoi ottenere di essere il
solo uomo libero tra uomini nati liberi. "Come?" mi chiedi. Se
distinguerai il male e il bene senza seguire il parere della massa.
Bisogna considerare non l'origine, ma il fine delle cose. Se ce n'è
qualcuna che può rendere felice la vita, è un bene di per sé; non
può infatti, degenerare in un male. 7 Qual è, allora, lo sbaglio che
si fa, visto che tutti desiderano la felicità? Gli uomini la
confondono con i mezzi per raggiungerla e mentre la ricercano, ne
fuggono lontano. Il culmine di una vita felice è una sicura
tranquillità e una inalterata fiducia in essa, e invece tutti
raccolgono motivi di inquietudine e portano, anzi trascinano, il
loro carico attraverso l'insidioso cammino della vita; così si
allontanano sempre di più dallo scopo al quale tendono e, più si
danno da fare, più si creano impedimenti e retrocedono. Lo stesso
accade a chi cerca di avanzare in fretta in un labirinto: la
velocità stessa lo ostacola. Stammi bene.
47
1 Ho sentito con piacere da persone provenienti
da Siracusa che tratti familiarmente i tuoi servi: questo
comportamento si confà alla tua saggezza e alla tua istruzione.
"Sono schiavi." No, sono uomini. "Sono schiavi". No, vivono nella
tua stessa casa. "Sono schiavi". No, umili amici. "Sono schiavi."
No, compagni di schiavitù, se pensi che la sorte ha uguale potere su
noi e su loro. 2 Perciò rido di chi giudica disonorevole cenare in
compagnia del proprio schiavo; e per quale motivo, poi, se non
perché è una consuetudine dettata dalla piú grande superbia che
intorno al padrone, mentre mangia, ci sia una turba di servi in
piedi? Egli mangia oltre la capacità del suo stomaco e con grande
avidità riempie il ventre rigonfio ormai disavvezzo alle sue
funzioni: è più affaticato a vomitare il cibo che a ingerirlo. 3 Ma
a quegli schiavi infelici non è permesso neppure muovere le labbra
per parlare: ogni bisbiglio è represso col bastone e non sfuggono
alle percosse neppure i rumori casuali, la tosse, gli starnuti, il
singhiozzo: interrompere il silenzio con una parola si sconta a caro
prezzo; devono stare tutta la notte in piedi digiuni e zitti. 4 Così
accade che costoro, che non possono parlare in presenza del padrone,
ne parlino male. Invece quei servi che potevano parlare non solo in
presenza del padrone, ma anche col padrone stesso, quelli che non
avevano la bocca cucita, erano pronti a offrire la testa per lui e a
stornare su di sé un pericolo che lo minacciasse; parlavano durante
i banchetti, ma tacevano sotto tortura. 5 Inoltre, viene spesso
ripetuto quel proverbio frutto della medesima arroganza: "Tanti
nemici, quanti schiavi": loro non ci sono nemici, ce li rendiamo
tali noi. Tralascio per ora maltrattamenti crudeli e disumani:
abusiamo di loro quasi non fossero uomini, ma bestie. Quando ci
mettiamo a tavola, uno deterge gli sputi, un altro, stando sotto il
divano, raccoglie gli avanzi dei convitati ubriachi. 6 Uno scalca
volatili costosi; muovendo la mano esperta con tratti sicuri
attraverso il petto e le cosce, ne stacca piccoli pezzi; poveraccio:
vive solo per trinciare il pollame come si conviene; ma è più
sventurato chi insegna tutto questo per suo piacere di chi impara
per necessità. 7 Un altro, addetto al vino, vestito da donna, lotta
con l'età: non può uscire dalla fanciullezza, vi è trattenuto e, pur
essendo ormai abile al servizio militare, glabro, con i peli rasati
o estirpati alla radice, veglia tutta la notte, dividendola tra
l'ubriachezza e la libidine del padrone, e fa da uomo in camera da
letto e da servo durante il pranzo. 8 Un altro che ha il còmpito di
giudicare i convitati, se ne sta in piedi, sventurato, e guarda
quali persone dovranno essere chiamate il giorno dopo perché hanno
saputo adulare e sono stati intemperanti nel mangiare o nei
discorsi. Ci sono poi quelli che si occupano delle provviste:
conoscono esattamente i gusti del padrone e sanno di quale vivanda
lo stuzzichi il sapore, di quale gli piaccia l'aspetto, quale piatto
insolito possa sollevarlo dalla nausea, quale gli ripugni quando è
sazio, cosa desideri mangiare quel giorno. Il padrone, però non
sopporta di mangiare con costoro e ritiene una diminuzione della sua
dignità sedersi alla stessa tavola con un suo servo. Ma buon dio!
quanti padroni ha tra costoro. 9 Ho visto stare davanti alla porta
di Callisto il suo ex padrone e mentre gli altri entravano, veniva
lasciato fuori proprio lui che gli aveva messo addosso un cartello
di vendita e lo aveva presentato tra gli schiavi di scarto. Così
quel servo che era stato messo tra i primi dieci in cui il banditore
prova la voce, gli rese la pariglia: lo respinse a sua volta e non
lo giudicò degno della sua casa. Il padrone vendette Callisto: ma
Callisto come ha ripagato il suo padrone!
10 Considera che costui, che tu chiami tuo
schiavo, è nato dallo stesso seme, gode dello stesso cielo, respira,
vive, muore come te! Tu puoi vederlo libero, come lui può vederti
schiavo. Con la sconfitta di Varo la sorte degradò socialmente molti
uomini di nobilissima origine, che attraverso il servizio militare
aspiravano al grado di senatori: qualcuno lo fece diventare pastore,
qualche altro guardiano di una casa. E ora disprezza pure l'uomo che
si trova in uno stato in cui, proprio mentre lo disprezzi, puoi
capitare anche tu.
11 Non voglio cacciarmi in un argomento tanto
impegnativo e discutere sul trattamento degli schiavi: verso di loro
siamo eccessivamente superbi, crudeli e insolenti. Questo è il succo
dei miei insegnamenti: comportati con il tuo inferiore come vorresti
che il tuo superiore agisse con te. Tutte le volte che ti verrà in
mente quanto potere hai sul tuo schiavo, pensa che il tuo padrone ha
su di te altrettanto potere. 12 "Ma io", ribatti, "non ho padrone."
Per adesso ti va bene; forse, però lo avrai. Non sai a che età Ecuba
divenne schiava, e Creso, e la madre di Dario, e Platone, e Diogene?
13 Sii clemente con il tuo servo e anche affabile; parla con lui,
chiedigli consiglio, mangia insieme a lui.
A questo punto tutta la schiera dei raffinati mi
griderà: "Non c'è niente di più umiliante, niente di più
vergognoso." Io, però potrei sorprendere proprio loro a baciare la
mano di servi altrui. 14 E neppure vi rendete conto di come i nostri
antenati abbiano voluto eliminare ogni motivo di astio verso i
padroni e di oltraggio verso gli schiavi? Chiamarono padre di
famiglia il padrone e domestici gli schiavi, appellativo che è
rimasto nei mimi; stabilirono un giorno festivo, non perché i
padroni mangiassero con i servi solo in quello, ma almeno in quello;
concessero loro di occupare posti di responsabilità nell'ambito
familiare, di amministrare la giustizia, e considerarono la casa un
piccolo stato. 15 "E dunque? Inviterò alla mia tavola tutti gli
schiavi?" Non più che tutti gli uomini liberi. Sbagli se pensi che
respingerò qualcuno perché esercita un lavoro troppo umile, per
esempio quel mulattiere o quel bifolco. Non li giudicherò in base al
loro mestiere, ma in base alla loro condotta; della propria condotta
ciascuno è responsabile, il mestiere, invece, lo assegna il caso.
Alcuni siedano a mensa con te, perché ne sono degni, altri perché lo
diventino; se c'è in loro qualche tratto servile derivante dal
rapporto con gente umile, la dimestichezza con uomini più nobili lo
eliminerà. 16 Non devi, caro Lucilio, cercare gli amici solo nel
foro o nel senato: se farai attenzione, li troverai anche in casa.
Spesso un buon materiale rimane inservibile senza un abile artefice:
prova a farne esperienza. Se uno al momento di comprare un cavallo
non lo esamina, ma guarda la sella e le briglie, è stupido; così è
ancora più stupido chi giudica un uomo dall'abbigliamento e dalla
condizione sociale, che ci sta addosso come un vestito. 17 "È uno
schiavo." Ma forse è libero nell'animo. "È uno schiavo." E questo lo
danneggerà? Mostrami chi non lo è: c'è chi è schiavo della lussuria,
chi dell'avidità, chi dell'ambizione, tutti sono schiavi della
speranza, tutti della paura. Ti mostrerò un ex console servo di una
vecchietta, un ricco signore servo di un'ancella, giovani
nobilissimi schiavi di pantomimi: nessuna schiavitù è più vergognosa
di quella volontaria. Perciò codesti schizzinosi non ti devono
distogliere dall'essere cordiale con i tuoi servi senza sentirti
superbamente superiore: più che temerti, ti rispettino.
18 Qualcuno ora dirà che io incito gli schiavi
alla rivolta e che voglio abbattere l'autorità dei padroni, perché
ho detto "il padrone lo rispettino più che temerlo". "Proprio così?"
chiederanno. "Lo rispettino come i clienti, come le persone che
fanno la visita di omaggio?" Chi dice questo, dimentica che non è
poco per i padroni quella reverenza che basta a un dio. Se uno è
rispettato, è anche amato: l'amore non può mescolarsi al timore. 19
Secondo me, perciò tu fai benissimo a non volere che i tuoi servi ti
temano e a correggerli solo con le parole: con la frusta si
puniscono le bestie. Non tutto ciò che ci colpisce, ci danneggia; ma
l'abitudine al piacere induce all'ira: tutto quello che non è come
desideriamo, provoca la nostra collera. 20 Ci comportiamo come i
sovrani: anche loro, dimentichi delle proprie forze e della
debolezza altrui, danno in escandescenze e infieriscono, come se
fossero stati offesi, mentre l'eccezionalità della loro sorte li
mette completamente al sicuro dal pericolo di una simile evenienza.
Lo sanno bene, ma, lamentandosi, cercano l'occasione per fare del
male; dicono di essere stati oltraggiati per poter oltraggiare.
21 Non voglio trattenerti più a lungo; non hai
bisogno di esortazioni. La rettitudine ha, tra gli altri, questo
vantaggio: piace a se stessa ed è salda. La malvagità è incostante e
cambia spesso, e non in meglio, ma in direzione diversa. Stammi
bene.
dal "De brevitate vitae"
(traduzione + commento)
2
- L’uomo si lamenta della brevità della vita
Perchè ci lamentiamo
della natura?
Quella si comportò
generosamente: la vita è lunga, se si sa usarla.
Una insaziabile avidità
occupa l’uno,
una faticosa attività tiene impegnato l’altro in superflue
occupazioni; l’uno è ubriaco di vino, l’altro è abbrutito
dall’ozio; la vanità
sempre dipendente dai giudizi degli altri spossa l’uno, una
frenetica brama di commerciare conduce l’altro per ogni terra,
ogni mare con la speranza di guadagno; la passione per la guerra
sconvolge certi continuamente attenti o ai pericoli degli altri o
ansiosi per i propri; ci sono quelli che consuma l’ossequio
infruttuoso verso superiori per una volontaria schiavitù morale;
o l’emulazione della bellezza altrui o la cura a mantenere la
propria tenne interamente occupati molti; una volubilità
indeterminata, incostante e scontenta di sè agitò per nuove
decisioni la maggior parte che non segue niente di sicuro; a certi
non piace nessuna meta, verso la quale dirigere il proprio corso,
ma la sorte li sorprende fra il torpore e gli sbadigli, a tal
punto che non dubito che sia vero ciò che fu detto secondo l’uso
degli oracoli dal più grande dei poeti:
“la parte di vita, nella
quale viviamo, è esigua”.
Tutto il rimanente
spazio invero non è vita ma tempo.
Vizi
premono e incalzano da ogni parte e non permettono di risollevarsi
nè di alzare gli occhi per il discernimento del vero, bensì
pesano su coloro che sono immersi e attenti ai loro desideri.
Ad essi non è mai
possibile trovare rifugio in sè;
sono sballottati nè c’è per essi tregua dalle loro passioni,
anche se talvolta una qualche paura per caso toccò loro come per
il mare profondo, in cui c’è un lieve moto ondoso anche dopo la
tempesta.
Pensi che io parli di
costoro, dei quali i mali sono evidenti?
Guarda quelli per la
felicità dei quali ci si affanna: sono soffocati dai loro beni.
Per quanti la ricchezza
è un peso!
Di quanti l’eloquenza
e la quotidiana occupazione di mostrare il proprio genio fa sputar
sangue!
Quanti sono morti per le continue brame insaziabili!
A quanti non lascia un
minuto di libertà la folla accalcantesi dei clienti!
Esamina infine costoro
dai più umili fino ai più potenti: questo chiede difesa, questo
la presta, quello è in pericolo, quello difende, quello giudica,
nessuno rivendica la sua libertà per sè, l’uno si logora per l’altro.
Interroga circa coloro
dei quali i nomi si imparano a memoria, vedrai che essi si
distinguono per queste caratteristiche: quello è amico di quell’altro,
questo di quello; nessuno è padrone di sè.
Infine lo sdegno di
certuni è insensato: si lamentano dell’alterigia dei superiori,
per il fatto che non hanno trovato tempo per loro che desideravano
avvicinarli.
Qualcuno, che di persona
non abbia tempo mai per sè, osa lamentarsi della superbia di un
altro?
Tuttavia quello volse lo
sguardo a te, chiunque tu sia, con volto così insolente, ma
talvolta quello abbassò le sue orecchie alle tue parole, quello
accolse te al suo fianco: tu non ti sei degnato mai di guardare
in te, di ascoltarti.
Così non è che
addebiti questi servizi a qualcuno, poichè invero non volevi
stare con un altro, bensì non potevi stare con te, facendo quelle
cose.
3
- La lunghezza effettiva della vita dipende dall’uso che se ne
fa
Sia pure che tutti gli
intelletti che mai brillarono siano d’accordo su questo solo,
non si meraviglieranno mai abbastanza di questo annebbiamento
delle menti umane: non tollerano che le loro proprietà siano
occupate da alcuno
e alle pietre e alle armi ricorrono, se una piccola contesa si
presenta circa la disposizione dei confini:
permettono che altri mettano piede nella loro vita, anzi essi
stessi fanno entrare i futuri padroni di essa;
non si trova nessuno che voglia dividere il suo denaro: a quanti
ciascuno distribuisce la propria vita.
Sono tirati nel
conservare il patrimonio; sono generosissimi riguardo quello del
quale solo l’avarizia è morale, non appena si giunse allo
spreco del tempo.
Piace perciò prendere
uno della massa dei più vecchi: “Vediamo
che tu sei giunto all’estremo della vita, il centesimo anno è
pressato da te quasi sopra: suvvia, richiama al conto gli anni
della tua vita.
Calcola quanto di
codesto tempo il creditore ti ha sottratto, quanto l’amante,
quanto il patrono, quanto il protetto, quanto la lite coniugale,
quanto il tenere a freno i servi, quanto il correre per affari
attraverso la città; aggiungi i mali che ci siamo fatti di mano
nostra, aggiungi ciò che giacque anche senza impiego: vedrai che
tu hai meno anni di quelli che conti.
Rinvanga con la memoria fra te e
te, quando sei stato sicuro di una decisione, quanti pochi
giorni sono finiti come li avevi destinati, quando c’è stata
per te disponibilità di te, quando il volto impassibile, quando l’animo
intrepido, quale opera sia stata fatta da te in tanto lungo tempo,
quanti hanno saccheggiato la vita tua, mentre tu non avvertivi che
cosa perdevi, quanto
tempo l’inutile dolore ti ha strappato, quanto la stolta gioia,
l’insaziabile avidità, la fatua compagnia, quanto poco sia
rimasto a te del tuo: capirai che tu muori giovane”.
Che cosa è dunque in
causa?
Vivete come destinati a
vivere sempre, non mai viene in mente a voi la vostra caducità,
non osservate quanto tempo è passato già; consumate il tempo
come da una provvista piena, mentre frattanto quello stesso
giorno, che è donato a qualcuno o uomo o affare, potrebbe essere
l’ultimo forse.
Temete ogni cosa come
esseri mortali, desiderate ogni cosa come foste immortali.
Sentirai i più dire:
“Mi ritirerò nell’ozio a partire dal 50° anno, il 60° anno libererà
me dagli obblighi”.
E, dimmi, quale garanzia
di una vita più lunga hai?
Chi permetterà che le
cose vadano così come disponi?
Non ti vergogni a
riservare per te i residui della vita ed a destinare al
perfezionamento della mente solo quel tempo che non può essere
utilizzato in nessuna cosa?
Non è troppo tardi
cominciare a vivere allora quando si deve smettere?
Che sciocca dimenticanza del
genere mortale differire i buoni propositi al 50° e 60° anno e
voler cominciare la vita dal punto in cui pochi la protraggono?
Tumscitz:
Il “De brevitate vitae” appartiene al gruppo dei Dialoghi di Seneca,
che non hanno, se non parzialmente, le caratteristiche proprie
del genere che conosciamo attraverso Platone
e Cicerone.
Pochissimi sono i personaggi e il dialogo si riduce per lo
più ad un monologo: il destinatario viene interpellato due o
tre volte in tutto. Anche se manca un’attestazione
esplicita, sembra che Seneca stesso abbia chiamato “dialogo”
questo suo genere di composizione; è comunque Quintiliano che
definisce “Dialoghi” le opere di Seneca in dodici libri
comprendenti in tutto dieci opere. Tra i modelli greci
possiamo annoverare anche i dialoghi
aristotelici, di cui non siamo molto informati, che sembra
siano stati meno “mossi” di quelli platonici, con ampie
esposizioni degli interlocutori principali. Inoltre
alcune movenze stilistiche senecane sono riconducibili anche
al genere della diatriba
filosofica greca: il chiamare in causa l’interlocutore,
il prendere ad esempio il mito e la storia contemporanea, il
citare detti illustri, aneddoti, proverbi, il presentare scene
vivaci.
Vivere bene per Seneca vuol dire dedicarsi agli studi liberali
e alla pratica della virtù, conoscere l’oblìo dei desideri
e la scienza del vivere e del morire.
Inizia la serie delle passioni, riguardanti la vita privata
del cittadino, che logorano l’animo dell’uomo e fanno
perdere tempo; la serie di esempi, fornita come sostegno di una tesi, rientra nella
tecnica compositiva della “consolatio”
(vedere la senechiana ”Ad
Polybium” 4 2)
Segue l’elenco dei vizi legati alla vita pubblica e sociale:
sono esempi presi dalla vita politica, militare e dal
commercio tipici degli scritti diatribici e vengono citati,
come esempio di alienazione, anche da Orazio (Satira I)
Piazzi:
L’espressione dovrebbe riferirsi ad Omero o altrimenti a Virgilio, in
quanto ambedue meriterebbero tale designazione, ma la
frase riportata non si trova in nessuno dei due poeti: si
potrebbe trattare di un riferimento non letterale ad Omero
(“Iliade” VI, episodio di Glauco e Diomede “La
generazione degli uomini è come le foglie... Così la stirpe
degli uomini, una nasce, l’altra muore”) o a Virgilio
(“Georgiche” III 66 “i più bei giorni della vita sono i
primi a fuggire per i miseri mortali”). Altre ipotesi di
attribuzione riguardano il poeta Ennio o l’autore di
commedie Menandro.
Inizia una serie di immagini metaforiche tratte dalla vita
militare
Si tratta di un esempio, chiamato dal Traina
“linguaggio dell’interiorità”,
che sarà ripreso da Marco
Aurelio e troverà uno sviluppo nella filosofia di S.
Agostino.
In
questo brano, leggiamo in un saggio del Casillo, uno dei momenti più importanti della speculazione filosofica di
Seneca soprattutto per la grande attualità dei concetti che
vi si esprimono, l’autore tratta della nozione del tempo.
E, a proposito del filosofo e
delle sue idee, il Bacci
non si fa scrupoli a parlare di”fermenti esistenziali”.
Toccò, infatti, a Seneca, continua
il Traina, il
compito di bandire a Roma il messaggio dell’interiorità. E’
il programma di tutta la sua filosofia. E doveva bandirlo ad
un popolo a cui forse mancava il senso dell’interiorità
riflessiva, ma a cui certo era mancata la grande esperienza di
Socrate. Lucrezio considera l’uomo nei suoi rapporti con il cosmo, Cicerone
nei suoi rapporti con la società, toccò dunque a Seneca
foggiare il linguaggio latino dell’interiorità.
In Seneca, scrive
ancora il Bacci, notiamo
una asistematicità analoga a quella degli esistenzialisti. E
ancora è possibile trovare in lui la nozione di “noia”
radicale, connessa cioè al semplice fatto di vivere, quale ci
viene descritta da Martin Heidegger,
nato nel 1889 d.C.. Anche Heidegger, e così altri
esistenzialisti, ripetono l’antico “rientra in te stesso”,
che fu di S. Agostino,
ma prima ancora fu di Seneca. Secondo Heidegger quella che noi
viviamo a contatto con gli altri e con le cose è “esistenza
banale”: il contatto con la massa porta a spersonalizzarci,
a diventare uno dei tanti; d’altro canto, il legame con le
cose è dispersione di sè nel mondo e quindi alienazione. “Esistenza
autentica” è invece il vivere in se stessi, sentendo come
estraneo da noi sia l’altro sia il mondo: l’atto di
interiorità, con cui rientro in me stesso, è atto di
nientificazione del mondo, dell’essere nella sua totalità.
Ancora più radicale è questa fuga dal mondo e dall’altro
in Sartre; il quale
si sente addirittura pietrificato anche dal solo sguardo
altrui: essere osservato significa perdere la propria
libertà, divenire una cosa in mezzo alle altre cose. In un’opera
il Sartre arriva paradossalmente a dire: “L’Inferno sono
gli altri!”. Ebbene, se leggiamo Seneca, troveremo concetti
analoghi circa l’effetto inquinante, spersonalizzante,
alienante della folla, così come troveremo una definizione di
tempo e di vita autentica, che è quella vissuta dentro, negli
ampi spazi dell’animo, che fanno lunga la vita, e non già
buttata nelle banalità di ogni giorno, che oltre a rendere
breve la vita la espongono al pericolo che essa diventi
dominio degli altri.
Casillo:
Seneca, come si evince anche da quanto detto in contrapposizione subito
dopo, evidenzia l’inspiegabile e, per tanti aspetti, assurdo
comportamento degli uomini i quali, mentre non sono disposti a
tollerare la benchè minima occupazione delle loro proprietà,
si fanno, invece, e con molta disponibilità, espropriare
dalla loro vita. E’ un grido disperato, quello di Seneca,
che tende a stimolare l’uomo a riappropriarsi di sè.
Casillo:
Seneca vuole ancor di più accentuare l’assurdità del comportamento
di coloro che, per dispute insignificanti, rischiano anche di
uccidere o di farsi uccidere, mentre mostrano acquiescenza
verso chi ben altri danni procura alle loro persone.
Urraro: L’accusa dell’autore contro coloro che rinunciano ad essere se
stessi assume toni di impietosa condanna.
Bacci:
In modo conciso ed efficace Seneca anticipa il moderno concetto di “alienazione”.
Casillo:
Seneca vuol dire che gli uomini, mentre sono degli avari nella
salvaguardia del patrimonio, sono prodighi nel consumare il
loro tempo; e invece proprio del loro tempo dovrebbero essere
gelosi e parchi custodi.
Casillo:
L’invito rivolto ad una persona anziana riguarda un esame
retrospettivo del vissuto, non alla ricerca del tempo perduto
da recuperare sul piano della memoria, ma con la finalità
precisa di prendere consapevolezza di quanto tempo è stato
ben utilizzato e quanto, invece, è stato malamente consumato.
Urraro:
I quattro segni aggettivali non hanno valore puramente esornativo, ma
conferiscono ai relativi sostantivi una forte connotazione. Il
“dolor” è “vanus” perchè inutile o perchè non
veramente avvertito; la “laetitia” è “stulta” perchè
non poggia su serie motivazioni; la “cupiditas” è “avida”
perchè evidenzia l’incontrollata bramosìa di beni o di
potere; la “conversatio” è “blanda” perchè non si
tratta di conversazioni profonde, ma soltanto di dilettevoli
“pour parler”.
Urraro:
E’ questo, forse, il più drammatico fra i richiami rivolti agli
uomini affinchè non buttino via neanche un giorno, perchè
tutto il tempo della nostra vita è prezioso.
Urraro:
E’ probabile che Seneca voglia alludere ad un ritiro volontario, quasi
liberatorio, dall’attività militare, e ad un ritiro forzato
dall’attività politica imposto dall’età.
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