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Viaggio inchiesta alla ricerca delle radici dello
sport, in pratica sino ai primordi del genere umano. Perché, se è vero che
ufficialmente si fa coincidere l'inizio della storia dello sport con il
776 a. C., ovvero con i primi Giochi di Olimpia, si può legittimamente
ritenere che già prima di quella data gli uomini si esercitassero in
alcune attività e discipline. D'altronde la mitologia classica ci tramanda
testimonianze preziose circa le gesta e le imprese sportive di dei ed
eroi: possono leggersi in questa chiave le fatiche di Ercole e di Sisifo.
In India, come ci spiega il professor Giuliano Boccali,
docente di Indologia all'Università di Venezia, rinveniamo tracce di
attività sportiva attorno al 1500 a. C. con il tiro con l'arco, che
dapprima consisteva più che altro di un modo di andare a caccia e più
tardi si trasformò in un esercizio sportivo: rientrava infatti tra le
prove di quei tornei indetti dai re locali per assegnare in moglie una
delle proprie figlie al vincitore. Soltanto in era cristiana, tra il IV-V
secolo ad ogni modo diventerà una vera e propria disciplina sportiva e si
chiamerà tiro a bersaglio con l'arco. Sempre sulle rive del Gange si
praticava una speciale ginnastica, che rientrava nella filosofia dello
yoga, già nella seconda metà del XIV sec. a. C. Erano diffuse tra gli
Indiani in quell'epoca anche le corse su bighe, ma non venivano
considerate delle gare ma semplici esibizioni individuali. Venendo agli
immediati e più vicini precursori dei Greci, va ricordato che furono Ioni,
Eoli e Dori, tutti provenienti dal nord della penisola, a creare la
civiltà cretese-micenea che si è sviluppata a partire dal XVI secolo a. C.
per più di cinquecento anni: e lì sappiamo, grazie a importanti scoperte,
in particolare del tedesco Enrico Schliemann (Neubukov l822 - Napoli
l890), che quasi tutta l' educazione poggiava sull'esercizio fisico: la
lotta in palestra o nei cortili, la corsa in campagna e le prove
agonistiche di ogni genere. A Creta, come rileviamo dai reperti
archeologici e letterari, i passatempi preferiti erano la corsa dei
cavalli e la caccia al cervo e al cinghiale che venivano celebrate in
occasione di feste religiose. Paradossalmente si potrebbe sostenere
credendo nel mito che i primi aviatori siano per l'appunto cretesi :
Dedalo ideatore e artefice delle ali appiccicate a spalle umane, e Icaro,
suo figlio, la prima vittima del volo.
Lasciamo l'isola di Creta, risaliamo dall'Argolide fino al Peloponneso,
passando quindi alla Beozia e all' Attica, e troviamo che in ogni regione
della vecchia Ellade si propagò la passione dei Giochi che avrebbe trovato
la sua massima espressione nei riti quadriennali di Olimpia. Quando i
Greci abbandonarono le loro terre per conquistare la ricca e potente città
di Troia sulle coste dell'Asia Minore, non trascurarono nei lunghi anni di
assedio la pratica sportiva. Lo si rileva dai poemi omerici dove troviamo
i vari capi greci intenti non soltanto alle corse dei cocchi e ai
combattimenti pugilistici ma anche impegnati in una corsa allestita da
Achille in onore del defunto amico Patroclo attorno alle mura di Troia,
dove Aiace di Oileo scivolò su un mucchio di letame concedendo tristemente
la vittoria a Ulisse. Il grande poeta Omero in versi bellissimi anticipa
così la cronaca sportiva: " Pose,
ciò fatto, i premi alla pedestre / corsa: al primo un cratere ampio
d'argento, / Messo a rilievi... / un grande e pingue / tauro al secondo;
all'ultimo d'or mette/ mezzo talento ... / E sursero di subito il veloce /
Aiace d'Oileo, lo scaltro Ulisse, / e il Nestoride Antiloco, il più ratto
/ de' giovinetti Achei. Posti in diritta / riga alle mosse, additò lor la
meta / il Pelide, e die' il segno. In un baleno s'avventar dalla sbarra, e
innanzi a tutti / l'Oilide spiccossi: Ulisse a lui / vicino si spingea.../
E come fur per avventarsi entrambi / ad un tempo sul premio, l'Oilide/
......sdrucciolò/ in lubrico terren sparso dal fimo / de' buoi
mugghianti... / ...Ivi il caduto / nari e bocca insozzossi. Il precorrente
/ divo Ulisse il cratere ampio si prese, / e l'Oilide il bue... / Ultimo
giunto Antiloco si tolse / l'ultimo premio....."
(Iliade, traduzione Monti, libro XXIII, vv. 944-1001, Sansoni, Firenze
1932).
Sempre in Omero, ma in Odissea canto VI, abbiamo la
descrizione del primo goal mancato della storia: " Nausicaa
in man tolse la palla, e ad una / delle compagne la scagliò: la palla /
desviossi dal segno cui voleva, / e nel profondo vortice cadè"
(Odissea; traduz. Pindemonte, libro VI, vv. 169 e sgg., Sansoni, Firenze,
1932).
Man mano che la Grecia cresceva, la polis ossia la
città-stato consolidava le proprie strutture e l'attività sportiva si
rivelava sempre maggiormente l'istituzione più gradita dai Greci perché ne
esaltava lo spiccato senso dell'autonomia e soprattutto lo spiccato
individualismo. Si giunge pertanto a un re di nome Ifido, discendente da
Oxilio, signore dell'Elide, il quale per ricordare la vittoria contro i
pisati nella battaglia per la conquista di Olimpia, organizzò nel 776 a.
C. i Giochi. In definitiva comunque Ifido non fece che ufficializzare una
situazione di per sé esistente. In quella circostanza e in quella data i
Giochi iniziarono la loro lunga storia che sarebbe durata per undici
secoli; contrassegnando il passaggio da forme di manifestazione limitata
nel tempo ad altre di ampio respiro. Dapprima il programma dei Giochi
consisteva in una sola gara, quella di velocità chiamata stadio per il
semplice fatto che la sua distanza corrispondeva alla lunghezza dello
stadio di Olimpia. Quest'ultimo era sistemato fuori dal recinto sacro,
dove sorgevano i templi più famosi, ed era una spianata rettangolare lunga
212 metri e larga 32, circondata da una gradinata di terra battuta su cui
trovavano posto 40 mila spettatori.
Passarono tredici edizioni di Giochi prima che venisse
introdotta una seconda gara, il "diaulo" cioè il doppio stadio, una prova
di velocità prolungata, molto simile - tanto per esemplificare - ai nostri
quattrocento metri. Ciò avveniva nel 728 a.C.; più tardi si aggiunse una
terza gara, il "dolico", una prova di resistenza, su una lunghezza
variabile dai sette a ventiquattro stadi. Alla diciottesima Olimpiade (708
a.C.) il programma di gare si arricchì con la lotta e il pentathlon,
quest'ultimo comprendente, come dice il nome, cinque gare: una di corsa
(stadio), una di salto (analoga al moderno salto triplo), una terza di
lancio del disco, una di getto del giavellotto e la quinta e ultima di
lotta in piedi. Quanto alla lotta e al pugilato che troviamo a partire
dalla ventitreesima edizione, ebbero come criterio basilare che
l'intelligenza dovesse superare la forza bruta: proprio per questo nella
boxe greca non vennero indicate le categorie di peso. Via via nei Giochi
trovarono spazio anche le corse dei cavalli che venivano disputate in
luogo diverso, l'ippodromo appunto. In queste corse la corona d'alloro -
spettante al vincitore - non veniva assegnata al fantino ma al
proprietario del cavallo. Si spiega così il fatto che negli elenchi dei
vincitori dei Giochi, il cui programma si ampliò ulteriormente con il
pancrazio, un tipo di lotta, figurino nomi di donne che erano
rigorosamente escluse non solo come partecipanti ma anche come
spettatrici, istruttrici e allevatrici.
Ad ogni buon conto, a un certo punto anche le donne
hanno avuto le loro Olimpiadi, che consistevano in una sola gara, la corsa
sui centotrenta metri: se ne ritrovano indicazioni interessanti in un
testo di C. Monti, "Cavalcate olimpiche", Zibetti, 1961.
Con lo scorrere dei secoli, la Grecia veniva
accrescendo la propria influenza sul mondo circostante. Aumentava il
potere delle pòleis: l'egemonia si spostava dall'Atene di Pericle a
Sparta, specie dopo la sua vittoria nell'estenuante guerra del
Peloponneso, a Tebe, guidata da Pelopide ed Epaminonda. Il successo sui
Persiani spianò la strada alla supremazia ellenica. Di conseguenza i
Giochi vennero ad assumere un carattere panellenico. Ogni quattro anni ad
Olimpia, città del Peloponneso, accorreva il fior fiore della gioventù non
solo dalla Grecia ma dall'Italia, dalla Sicilia, dall'Asia Minore e da
ogni sponda del Mediterraneo. Cantore dei Giochi è stato indubbiamente il
poeta Pindaro (Chinocefale 520-446 a.C.): di lui è giunta fino ai nostri
giorni una raccolta di 44 odi corali suddivise in quattro libri: 14
Olimpiche, 12 Pitiche, 11 Nemee, 7 Istmiche. A tal proposito, va ricordato
che attorno alla metà del VI secolo a. C. in Grecia troviamo costituito un
calendario di gare: ogni quattro anni i Giochi di Olimpia in onore di Zeus
(Olimpiadi); sempre ogni quattro anni, il terzo di ciascuna Olimpiade, a
Delfi in onore di Apollo (giochi pitici); ogni due anni tra aprile e
maggio a Corinto in onore di Poseidone, il dio del mare, i giochi istmici;
a giugno e luglio nel secondo e terzo anno di ogni Olimpiade a Nemea, in
Argolide, i giochi nemei in onore di Zeus.
Si trattava di grandi feste atletiche che radunavano la
gioventù non solo greca. Pindaro che ci ha lasciato le sue belle odi
inneggianti ai vincitori dei Giochi (epinici) volle comunque immortalare
più che gli uomini-atleti gli dei e gli eroi. Affascinato e quasi
prigioniero del mito, il grande poeta esaltava il mondo dei valori
sovrannaturali, rappresentando gli uomini non come erano in realtà ma come
avrebbero dovuto essere. Tutto quello che egli ha cercato di fare per
l'auriga intrepido, per il pacratista formidabile, per il corridore
veloce, è stato di associarlo al mondo fantastico, leggendario illudendolo
(e illudendosi) che un raggio della virtù divina ed eroica balenasse anche
in loro. Ciò non toglie che le sue liriche siano ammirevoli. Ricordiamo la
XIII olimpica, quella che celebra Xenophon di Corinto, stadiodromeuta e
pentatleta: " Lodo
una casa tre volte olimpionica, / aperta ai cittadini e cortese / con gli
ospiti: riconosco / Corinto opulenta, atrio / di Poseidon Isthmios,
splendida di gioventù. / Perché Eunomia vi dimora e con lei la sorella, /
base sicura di città, / Dike ed Eirene cresciuta insieme, / datrice di
beni agli uomini, / auree figlie di Themis dal buon consiglio / esse sanno
respingere / Hybris, madre arrogante di Koros./ E' un tema nobile il mio,
franca / fiducia mi muove la lingua a dire./ Non si nasconde il talento
innato./ E a voi, figli di Alatas, spesso / trionfale splendore donarono,
/ a voi che per per alte virtù primeggiaste / nei giochi sacri e spesso /
in cuori umani invenzioni / di tempo remoto versarono / le Horai
fiorite... / Tu che regni supremo, ampio, / su Olimpia, risparmia invidia
/ per sempre alla mia lode, o Zeus padre: / conserva incolume questa
città/ e drizza il vanto del fato di Xenophon..."
Se Pindaro, come si nota, accenna al vincitore nelle
battute iniziali e nella chiusa con le lodi
("....Sei le vittorie sotto
/ il ciglio parnasio, e quante ad Argo / e in Tebe! E quante agli Arcadi /
attesterà l'ara regale del padre Lykaios...")
diverso l'atteggiamento di Pausania, non un poeta ma sicuramente uno
storico attento che ci fornisce attraverso un lavoro di ricerca un elenco
preciso dei vincitori di Olimpia.
Nonostante la disfatta subita dai Greci a Cheronea (338 a. C.) contro
l'esercito macedone di Filippo e successivamente contro la forza compatta
dei Romani, vincitori a Pidna (168 a.C.), i Giochi continuarono a
svolgersi, espressione della sportività e dello spirito di un popolo,
quello greco, che riuscì a imporre sempre ai vincitori la propria norma di
vita. Non è un caso che la dominazione macedone come diede origine allo
splendore della cultura ellenistica così ampliò gli orizzonti del mondo
olimpico. Alessandro Magno, Archelao, l'eroe di Cheronea, vinsero entrambi
nell'ippodromo. Dunque, il carattere panellenico non andò smarrito proprio
perché i macedoni seppero dimostrare ai vinti, scettici e dubbiosi, la
grecità del proprio sangue.
Scomparso Alessandro, frantumato in molti regni
l'impero macedone, la Grecia, ormai abbandonata al proprio destino, venne
conquistata dai Romani. Ad ogni buon conto questi ultimi si mostrarono
rispettosi di una civiltà incomparabilmente più avanzata e seppero
adeguarsi ai riti e ai costumi della grande Grecia ormai entrata nella
stagione della decadenza. Tant'è vero che generali, consoli e imperatori
di Roma non disdegnarono di andare pellegrini ad Olimpia e anzi di
scendere essi stessi nel glorioso stadio in riva all'Alfeo.
Roma, come del resto è accaduto in ogni settore,
assimilò anche l'usanza dei giochi sportivi che ricevettero nuovo impulso
e un carattere di universalità. Gli ellenici non riuscirono più a
verificare al momento di iscrivere gli atleti se nelle loro vene scorresse
o no sangue greco. Pertanto, fatte salve le altre prerogative fisiche e
morali, tutti gli uomini sui quali i Romani avevano imposto le loro leggi,
ebbero il diritto di scendere nello stadio e di partecipare ai Giochi.
LO SPORT PROFESSIONISTICO COMINCIA NELL'ANTICA ROMA
Difficile stabilire con esattezza a qual epoca risale
l'amore per lo sport dei Romani: di certo è antichissimo. Si hanno
testimonianze concrete che tra l'Aventino e il Palatino, nella zona dove
sarebbe più tardi sorto il Circo Massimo, molto presto si disputarono gare
di cavalli e di carri, anche le cosiddette corse romane. Per l'appunto in
occasione di uno di questi "ludi" avvenne il ratto delle Sabine, primo
esempio di conquista romana. Fin dall'epoca repubblicana i cives, o ovvero
i cittadini romani, non furono soltanto spettatori ma anche attori e
cultori di una sana educazione fisica, curata in particolare perché
importante era soprattutto essere buoni cittadini e buoni soldati. Anche
se a Roma la scuola e i ginnasi avevano carattere privatistico, al
contrario di quanto avveniva nelle pòleis greche, non si può proprio
affermare che la vita ricreativa nella vita dei Latini fosse tenuta in
minor conto.
Nei confronti dell'attività sportiva c'è a Roma una caratteristica
diversa, del tutto originale: il culto del professionismo. Presente, per
la verità , sia pure in forme ridotte anche tra i Greci, specialmente dopo
la conquista macedone, soltanto nella Roma imperiale esso dilagò in
maniera addirittura preoccupante per certi aspetti.
Anche gli antichi Greci, per la verità, conoscevamo
forme di atletismo professionale. Ma in proposito non mancano voci
critiche, a cominciare da Galeno che non risparmiò rampogne al
professionismo nello sport rivalutato solo più tardi ad opera di
Filostrato. Del resto, il celeberrimo detto " Grecia
capta, victores cepit" potrebbe ben
interpretare un tormentato processo di decadenza che si prolungò per
almeno quattro secoli. Ma è fuor di dubbio che la mentalità romana non
poté sottrarsi a un nemico senza armi e senza una forza di urto di valenza
politica e proprio per questo motivo più difficile da battere. Di
conseguenza i Romani adottarono dai Greci l'aspetto professionale che era
divenuto il carattere dello sport ellenico dopo la conquista macedone e ne
divennero i fautori di una pratica dell'esercizio sportivo che facesse
spettacolo: in definitiva, se i germi del professionismo c'erano già stati
nella tarda Grecia, a Roma si affermarono trovando una maggior
specializzazione che giunse a un distacco completo tra atleti e
spettatori.
Fin dal III sec. a. C. si svolgevano a Roma gli
spettacoli gladiatori. In età repubblicana, da quanto si sa, non contavano
quel numero impressionante di spettatori che ritroviamo più avanti, in
epoca imperiale. Furono infatti i Cesari, ovvero gli imperatori,
succedutisi via via da Augusto, a offrire al popolo con sempre maggior
frequenza tali spettacoli di svago per le masse. I ludi gladiatori erano
interpretati per lo più da una ristretta cerchia di persone, quasi sempre
provenienti da classi e ceti subalterni che , scendendo nell'arena,
cercavano di emanciparsi dalla loro condizione servile confidando nelle
proprie doti fisiche e atletiche. Non si può dare torto a quegli studiosi
come Ullmann che sostenevano che quegli atleti nudi che sapevano
affrontare anche la morte in prove pericolose costituivano i modelli in
cui una società ormai invecchiata e in declino riconosceva quello che
avrebbe voluto essere e si vendicava per quello che non aveva saputo
essere. Un'altra interessante osservazione al riguardo viene da Mumford
che in "Tecnica e civiltà" rileva che " lo
sport nel senso di uno spettacolo di massa con la morte come stimolante,
soggiacente appare quando una popolazione è stata impastoiata,
irregimentata e depressa a tale punto che le è necessario partecipare
almeno per interposta persona agli atti difficili di forza, abilità o
eroismo, al fine di risvegliare il suo diminuito senso della vita".
Non è certo difficile collegare questo alla civiltà romana che, con
l'avvento dei Cesari, smarrì il gusto della partecipazione politica.
Sull'attività sportiva in Roma imperiale, riteniamo che
non si possa prescindere dalla personalità di Nerone, ultimo esponente
della dinastia dei Giulio-Claudi, il quale si adoperò per accentuare in
vari modi la spinta all'ellenizzazione della civiltà romana: sulle prime
venne accolta con diffidenza e ostilità, ma poi sarebbe divenuta fatto
compiuto specie sotto il principato di Adriano. Dunque, proprio con
Nerone, si inserì in maniera organica l'olimpismo greco in Roma. Nel 59 p.
C. Nerone infatti lanciò i "ludi junilies", quindi l'anno successivo
indisse il "certamen quinquennale" ribattezzato in suo onore "Neronia". Lo
stesso imperatore volle suggellare questa sua attività febbrile con un
viaggio trionfale in Grecia, nell'autunno del 66, insieme con cinquemila "augustiani",
per far ritorno nell'Urbe l'anno seguente senza altro trionfo che quello
conseguito nei Giochi panellenici, senza altro bottino che le 1808 corone
con solenne rito appese al tempio di Apollo sul Palatino.
Un'idea di quello che potevano essere i ludi e le varie
gare allestite da Nerone ci viene efficacemente fornita da Svetonio, lo
storico dei Cesari, in un passo della vita di Nerone:
"...una novità assoluta per
Roma fu l'istituzione da lui voluta, di un certamen quinquennale, con tre
ordini di concorsi, secondo il costume greco: musico, ginnico ed equestre,
cui diede il nome di ludi neroniani in occasione dell'inaugurazione delle
terme e del ginnasio durante la quale offrì olio anche a senatori e
cavalieri. Alla guida dei tutto quanto il certamen propose ex consoli
tratti a sorte, sedenti al posto dei pretori. Poi (Nerone) scese
nell'orchestra, nei posti riservati ai senatori, e per sé prese la corona
del concorso di eloquenza e di poesia latina, della quale lo riconobbero
meritevole i rappresentanti della migliore nobiltà, che, tutti quanti,
avevano gareggiato per conquistarsela; si inchinò con ossequio, invece,
alla corona di cetra, che la giuria gli aveva decretato, e la fece deporre
ai piedi della statua di Augusto. Durante il concorso ginnico che si
teneva nel recinto delle elezioni, tra l'apparato del solenne sacrificio
dei buoi, si fece radere per la prima volta la barba e, racchiusa in una
pisside d'oro, adorna di preziosissime perle, la consacrò in Campidoglio.
Alle gare degli atleti invitò pure le vergini Vestali perché anche in
Olimpia la stessa cosa è concessa alle sacerdotesse di Cerere".
Dal canto loro, invece, Seneca e Giovenale mostrarono apertamente il loro
disprezzo per queste forme di spettacolo sportivo professionale; nella
decima satira Giovenale suggeriva che
"....orandus est ut mens
sana sit in corpore sano" (c'è da
augurarsi che una mente venga a trovarsi in un corpo sano):, un verso
ripetuto con compiacimento conferma la riprovazione per quanti avevano
fatto dell'attività sportiva una professione sottolineando altresì
l'apprezzamento per un giusto esercizio fisico.
Ma ormai la repubblica romana si era trasformata,
degenerando in un impero moralmente fragile, contro il quale Seneca a più
riprese rivolgerà i suoi strali, non mancando altresì di sottolineare un
concetto di eguaglianza tra sanità di corpo e di mente così come viene
espresso in una lettera a Lucilio (Epistole, XV, 4-5-6) che bene potrebbe
intitolarsi 'Educazione e attività motoria':
"...ci sono esercizi comodi
e agevoli, che rilassano il corpo senza perdita di tempo di cui occorre
tenere in giusto conto: cioè la corsa, il getto del peso, il salto in alto
e in lungo: tra questi potrai scegliere quello per te più conveniente o
adatto. Qualunque attività svolgerai, pensa al corpo e allo spirito; l'uno
e altro si nutrono con poco sforzo. Nemmeno in vecchiaia si dovrà
arrestare l'esercizio, un bene questo che con gli anni non potrà che
migliorare. Non mi piace restare sempre immerso nei libri o stare troppo
in palestra: bisogna dare un po' di riposo all'animo, in maniera che non
abbia ad avvilirsi ma a ristorarsi e rinvigorirsi".
Da questo testo si può evincere abbastanza chiaramente come il severo
Seneca, fustigatore di costumi, esalti l'attività fisica senza spirito di
lucro, in contrasto con la moda degli spettacoli gladiatori diffusisi
nell'età imperiale con atleti di professione.
CON I CRISTIANI GLADIATORI PROIBITI IN TUTTO L'IMPERO
ROMANO
Il primo approccio del cristianesimo con l'attività
circense fu negativo. Addirittura l'imperatore Teodosio il Grande - una
volta proclamato il cristianesimo religione di stato - emanò un editto nel
393 d.C. con il quale venivano proibiti i giochi gladiatori in tutte le
regioni dell'impero. La vecchia Roma, ormai esautorata dalla nuova
capitale sul Bosforo (l'odierna Istanbul; ndr), pareva avviata a
scomparire come erano via via scomparse Ninive e Babilonia. Con una
differenza, però: Roma era la sede del Papa.
Riguardo al
CALCIO
- (Nel mondo romano prese il nome di
harpastum,
o detto in volgare il
piede-palla
(come in Cina dove era conosciuto da tempi
antichi come tsu ciu,
che significa
calcio palla)
A Roma i Giochi interessarono sia la politica sia
l'ambizione di qualche arricchito. La prima complicò i meccanismi con la
sua organizzazione sempre più burocratica, mentre i secondi per i propri
interessi i Giochi e gli atleti li mercificarono, un po' come oggi.
Le iscrizioni venute alla luce a Pompei, offrono delle
testimonianze inequivocabili. Es. sulla facciata della Casa di Giulia
Felice (documento nel Museo di Pompei CIL, IV, n. 1147) il "Palazzinaro"
arricchito Aulo Vettio, mecenate (!?), decise di "scendere in campo" anche
nella politica e opportunisticamente si mise a cercare i voti presso i
tifosi della squadra che lui sponsorizzava, dichiarando di " essere
meritevole dei voti per il lodevole e munifico piacere e il godimento che
lui offriva al "popolo" con la "sua"
"squadra di palla" allora
molto famosa fra le tante. Per ottenere questo consenso, utilizzò nella
sua propaganda elettorale il nome, le insegne e i colori della
squadra per farsi eleggere senatore.
Ai Giochi, gli atleti fino al giorno prima nella loro città o nel loro
Paese erano degli anonimi personaggi, dopo la vittoria, ritornando
al loro paese come campioni di questo o quell'altro sport, la fama
(diremmo oggi nazionalpopolare) di cui godevano tra la plebe,
li portava (venivano abilmente strumentalizzati dal furbo politico di
turno) ad assumere cariche cittadine prestigiose, spesso con il rammarico,
il disgusto e il disprezzo di uomini molto più dotti, capaci e
votati - nella stessa città - alla politica da una vita. Ma "nel sentir
della gente", come oggi afferma un politico in ascesa in Italia, quello
era l'uomo più acclamato e votato, anche se aveva usato i piedi piuttosto
che la testa per arrivare al governo o a pubbliche cariche che
invece ambivano validi magistrati e legislatori. Uno dei casi clamorosi fu
un "barbaro" Armeno: dopo aver vinto al pugilato, divenne
addirittura Re della sua gente; Varazdat. Nella Storia (lui, come
Vettio a Pompei e altri) ci sono entrati (infatti li stiamo citando),
ma non certo per le loro qualità di politici; il primo brillò con la
luce riflessa dalle grosse mani che menavano, l'altro con quella riflessa
dai piedi che calciavano. Ma uomini opachi erano e opachi rimasero.
(fonte internet) |
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