Il teatro, in tutte le sue forme, ha
avuto, specie nell’antichità, sempre un potere di contestazione esplicita
e questa opposizione alla realtà sociale è sempre divenuta il principio
motore di ogni creazione artistica.
Nei passaggi da una struttura sociale
ad un’altra e nei disordini che essi comportano possiamo considerare le
cause e le condizioni delle creazioni artistiche.
Bisogna, infatti, rilevare che i
grandi periodi creativi si realizzano quasi tutti in momenti di rottura
sociale: la creatività drammatica greca è al culmine nel momento in cui
gli effetti del lento passaggio dalla vita rurale patriarcale alla vita
urbana si fanno sentire con maggiore intensità; è il caso del 480 a.C.,
anno della battaglia di Salamina, battaglia che comporta un mutare della
società.
A quest’epoca corrisponde il momento
in cui nelle città greche si impone una nuova originale forma sociale,
tanto per il funzionamento del sistema politico, economico e giuridico di
questo, tanto per la veemenza dei conflitti che opposero le città le une
alle altre, ed è a quest’epoca che corrisponde anche una fioritura
improvvisa di importanti opere teatrali a cui fa seguito poi
un’interruzione repentina.
La forma teatrale, quindi, risulta
una forza sociale la cui funzione è quella di situarsi in maniera nuova in
rapporto agli eventi ed agli altri gruppi umani; la manifestazione
teatrale ha incarnato, perciò, spesso, il conflitto tra censure sociali e
libertà del futuro, profilando sulle scene individui in lotta contro
l’ordine stabilito.
Il teatro greco diventa, quindi,
anch’esso funzione essenziale della vita della pòlis ed è portatore di una
problematica politica e sociale essendo stato il poeta sollecitato da
specifiche situazioni che hanno determinato il suo atteggiamento e la sua
creazione: non possiamo, infatti, dimenticare come in qualsiasi forma
artistica si rifletta la posizione dell’artista nella vita del tempo.
Il patrimonio mitico, cresciuto su di
un terreno sociale ben diverso (la società tribale di re, sacerdoti e
pastori), poteva essere reinterpretato in funzione dei nuovi problemi
della città e della sua politica.
La reinterpretazione del mito in
senso moderno fu assolta soprattutto dal teatro tragico, che divenne un
momento centrale nella vita della comunità ateniese; fu, nello stesso
tempo, rito religioso, dibattito ideologico e riflessione collettiva a cui
partecipavano, spesso a spese dello Stato, tutti i cittadini ateniesi.
In Grecia, ed in particolar modo ad
Atene, quindi, le rappresentazioni teatrali furono un grandissimo "fatto
sociale" e molto più che ai nostri giorni un fenomeno di massa; esse
diverranno, inoltre, sempre più una conquista, un mezzo di conoscenza, uno
specchio della società, un legame sociale.
Non possiamo se non ripetere che il
teatro fu un vero centro di vita intellettuale che agiva efficacemente
sulle masse sia dal punto di vista estetico che da quello educativo e
culturale.
Non solo il teatro con le sue
rappresentazioni , ma anche gli edifici furono utilizzati come centri di
vita e servirono spesso come luogo di adunanze così per le assemblee come
per i giudizi…
Struttura architettonica ed
organizzazione scenica
A Creta
A Creta alcuni sacri recinti, ove
sembra si svolgessero cerimonie religiose con danze e cori, possono essere
riconosciuti tra i luoghi che in età più remota furono adibiti a
rappresentazioni teatrali.
In Grecia
Fu in Grecia, comunque, dopo un
periodo (quello più antico della storia di Atene) in cui le
rappresentazioni avevano luogo nell’agorà, che l'area destinata agli
spettatori assunse in origine la forma di gradinate a squadra, con
un'angolazione che venne poi smussandosi fino a determinare una sede
inclinata e semicircolare, come luogo stabile da cui assistere a
manifestazioni religiose e artistiche.
Il teatro in età
classica
Gli esemplari più antichi sono
identificabili nelle strutture di Eleusi e di Torico, databili al VII sec.
a.C., mentre si può assumere, come forma compiuta e paradigmatica
dell'evoluzione architettonica per l'età classica, il teatro di Dioniso
Eleutherios in Atene, situato sulle pendici meridionali dell’acropoli
entro il thèmenos ("recinto sacro") di Dioniso, complesso e
funzionale nell'eleganza definita dell'impianto.
L’"orchèstra"
L'area occupata dagli attori,
chiamata "orchestra", ossia luogo delle danze, di forma variamente
trapezoidale / semicircolare o circolare e del diametro di ca. m. 20, era
situata di solito in una zona piana, affiancata a un pendio, delimitata
all'intorno da un canale ricoperto di lastre, ampio poco meno di m. 1,
detto "euripo", che convogliava le acque defluenti dalla collina.
L’altare di Dioniso
Talvolta un rilievo in pietra segnava
con maggiore evidenza lo spazio dell'orchestra, il cui piano in terra
battuta celava sotterranei e "praticabili", ricavati per esigenze
di scena; al centro doveva essere primitivamente la
Jumelh ("altare"),
di forma circolare e con la statua di Dioniso, altare che serviva sia per
offerte sia come punto di riferimento per i movimenti del coro .
Le "pàrodoi"
L'accesso al teatro avveniva o
dall’alto (come spesso oggi) o attraverso le parodoi ("passaggi
laterali"), spesso lievemente inclinate, arricchite da statue e
dediche votive, utili agli attori e agli spettatori, chiuse da porte solo
in età più tarda. Da quella di destra, per convenzione, entravano i
personaggi provenienti dalla città, dall’altra di sinistra quelli che
giungevano dalla campagna.
La "cavea"
Il pendio, con i sedili sistemati a
gradinata, costituiva la cavea, costruita nel sec. IV al posto dei
sedili di legno, generalmente a semicerchio abbondante intorno
all'orchestra; era divisa in tredici cunei da dodici scalette verticali,
mentre i diazwmata
("corridoi") separavano orizzontalmente i settori secondo il
prestigio di chi l’occupava.
I sedili
I primitivi sedili in legno furono
successivamente sostituiti, originariamente, con sessantasette seggi in
pietra od in marmo pentelico, con schienali e braccioli di varia forma e
dignità per i personaggi più autorevoli (quello centrale era assegnato al
sacerdote di Dioniso).
I pannelli scenici
La scena, tangente
all'orchestra, era originariamente una costruzione improvvisata con
tendaggi e pali, ma in età classica assunse una linea architettonica
stabile come sfondo all'azione, alla quale spesso si adeguava; si ebbero
infatti riproduzioni della facciata di un palazzo reale o di un tempio,
rocce, grandi sepolcri e altari; talvolta su
pinakeV (tavole
dipinte issate lungo le antenne, quando servivano, altrimenti calate
dentro la fossa scenica per mezzo di corde) o prismi girevoli erano
raffigurati paesaggi di città o di campagna; pedane, gru, fosse e rotaie
di scorrimento venivano impiegate per gli artifici scenici necessari.
I parasceni
Due
strutture laterali, dette paraskhnia
("parasceni"), definivano con maggior compiutezza l'edificio di
fondo, in cui si aprivano le porte, tre normalmente, a indicare vicine o
lontane provenienze.
Dietro erano i luoghi riservati agli
attori, ai costumi e agli attrezzi.
Gli attori
A proposito di attori ricordiamo che
questa professione era riservata esclusivamente ai maschi.
Il mestiere di "istrione", infatti,
diversamente che in Roma, era tenuto in grandissima considerazione (gli
attori professionisti erano spesso remunerati come divi dello Stato) e,
quindi, ruoli preminenti non potevano essere affidati se non a donne
libere: ma queste vivevano preminentemente in casa , né si faceva
comunemente uso di ragazzi per simulare le voci femminili (anche se brevi
parti infantili sono contemplate in più di una tragedia).
Protagonisti e
"spalle"
Il ruolo
del protagonista (in origine lo stesso autore della tragedia) era
preminente e secondo e terzo attore ("deuteragonista" e "tritagonista")
dovevano stare al loro posto; senza contare gli innumerevoli
kwja proswpa
("personaggi muti"; per lo più cittadini presenti sulla scena come
guardie di scorta, ancelle, giudici, …).
Plurifunzionalità
dell’attore
D’altronde la professione doveva
essere certamente molto impegnativa, se, a prescindere dalla nitidezza
della voce e da un’acconcia gestualità, soli tre attori erano costretti ad
interpretare otto-dieci personaggi (per l’"Edipo a Colono" si
ipotizza che il personaggio di Teseo fosse interpretato da tutti e tre gli
attori, a turno).
I costumi degli attori
Per quanto riguarda i costumi (forse
introdotti da Eschilo) indossati dagli attori fondamentale era il
citwn ("chitone"),
una tunica a maniche lunghe abbellita da ornamenti e legata da una cintura
sotto il petto (chitone ionico) o più corta ed aperta sui fianchi (chitone
dorico); sul chitone veniva indossato o un
imation (lungo mantello raccolto sulla
spalla destra) o una clamuV
("clamide"), un mantello corto portato sulla spalla sinistra.
Anche il colore dei costumi era
importante (il nero indicava lutto o sventura, il porpora la dignità
regale, …), ma i personaggi erano distinguibili pure da particolari
caratterizzanti (ad esempio, la bakthria,
cioè il bastone, per i vecchi; la spada per il guerriero; una ghirlanda
per il messaggero; …).
Ad incrementare la già notevole
statura dell’attore, imbottito e munito di un
ogkoV ("parrucca")
per motivi scenici (cioè per essere distinto anche dagli spettatori posti
sulle ultime gradinate), era diffuso l’uso del
koJornoV ("coturno"), un tipo
di calzatura che, nata con suola bassa, ma resa più spessa in epoca tarda,
aumentava di buoni venti centimetri… la solennità del personaggio
interpretato.
Le maschere
La maschera, il cui uso è attestato
nell’arte greca con implicazioni religiose molto prima del dramma, era la
caratteristica più importante dell’attore greco.
Fatta di lino / sughero / legno e
munita di una parrucca, pur con una fisionomia fissa (viso dipinto di
bianco per le donne, di grigio per gli uomini ) ed una bocca leggermente
aperta per il solo fine di fungere da megafono (la scena poteva distare
dagli ultimi spettatori anche m. 90), era fondamentale per attori che
dovevano sostenere anche dieci ruoli diversi e, quindi, accessoriata
(colore, forma, natura dei capelli; varietà dei copricapi; …) in modo tale
da poter ottenere da pochi tipi una serie di personaggi dissimili.
Di quelle del sec. V ci sono
pervenute scarse informazioni, ma scavi effettuati a Lipari hanno portato
alla luce terrecotte raffiguranti personaggi teatrali che consentono di
contare ben 44 tipi da collocare nell’arco di tempo che va dalla prima
metà del sec. IV alla metà del sec. II a.C..
Nel periodo d’oro della tragedia
(sec. IV) la maschera diventa più imponente e presenta una bocca
decisamente sproporzionata al resto del volto.
Il coro
Accanto agli attori c’era il coro, i
cui componenti ("coreuti"; prima 12, poi 15; vestiti con chitone o,
se schiavi, con un farsetto), oltre a godere anch’essi di stima pubblica,
erano preparati da un istruttore (a volte lo stesso autore della tragedia)
e pagati dal "corego", un ricco ateniese disposto ad addossarsi il
peso della sponsorizzazione del dramma.
I coreuti, una volta entrati in
scena, si sistemavano, per facilità di manovra nel cambiare gli schemi, su
cinque file di tre elementi.
Di esso null’altro sappiamo e, anche
se gli autori ci hanno fornito nomi di balli e schemi di movimento ("la
tenaglia", "mani sulla testa", "la danza del bastone",
…), non ne forniscono spiegazioni, né chiariscono la posizione del coro
nei momenti di non-attività.
Il teatro in età
ellenistica
In età ellenistica si venne
accentuando l'importanza dell'edificio scenico, che assunse un valore
architettonico decorativo, nella forma, divenuta stabile, di costruzione
lunga e stretta; la fronte, rivolta verso gli spettatori (fronte scenica)
e movimentata con nicchie, portici, fondali e pannelli dipinti, era
sopraelevata rispetto all'orchestra, ormai occupata dal pubblico; gli
attori tragici (a differenza di quelli della commedia che agivano in
prossimità degli spettatori) recitavano su una pedana, profonda anche 3 m,
sostenuta da colonne o da murature, ornate da statue, semicolonne e grandi
vasi di bronzo per la risonanza.
L'edificio scenico, ormai divenuto
una costruzione a più piani, talora si apriva sul lato opposto
all'orchestra in un portico monumentale .
Il teatro greco come forma d'arte
Le origini
Il teatro greco ebbe origine
nell'Attica nella forma del dramma satiresco, della tragedia e, quindi,
della commedia, in stretta connessione con il culto di Dioniso e con le
sue feste esaltanti che, operando la comunione dell'umano con il divino,
crearono l'ambiente adatto perché sensibilità, passioni e fantasia dessero
vita a una finzione drammatica.
Infatti dal ditirambo lirico, in cui
i coreuti, disposti a circolo (cori ciclici) con il corifeo in mezzo,
esponevano in un canto univoco con più o meno particolari un mito o una
leggenda concernenti il dio, si passò al ditirambo dialogato, in cui
coreuti e corifeo assumevano le parti di due interlocutori, l'uno che
interrogava, l'altro che rispondeva.
Bastò che al corifeo, che
rappresentava Dioniso, e ai coreuti, costituenti lo stuolo dei suoi
seguaci, si aggiungesse un secondo personaggio, perché si avessero gli
elementi essenziali del dramma.
L'innovazione, feconda di successivi
ampliamenti, fu attribuita dalla tradizione a Tespi, ritenuto comunemente
l'inventore della tragedia.
Con lui, pertanto, l'elemento tragico
si sarebbe scisso da quello comico, con il quale era mescolato nel dramma
primitivo, e Dioniso, con le sue edificanti avventure, sarebbe stato
sostituito dagli eroi e dalle loro dolorose vicende.
Feste ed agoni
Tra il 536 e il 532 a.C., per volontà
di Pisistrato, ad Atene venne data la prima rappresentazione organizzata
dallo Stato e furono istituiti annuali agoni tragici.
Circa un cinquantennio dopo (486 a.C.)
pure la commedia, nata anch'essa dal culto di Dioniso e collegata con le
feste in suo onore, da spettacolo privato divenne pubblico e regolato da
norme precise (agoni comici).
Nel V e nel IV sec. a.C. in Atene e,
in misura minore, come è presumibile, in talune altre città elleniche
l'attività teatrale fu intensa e feconda.
Essa si svolgeva normalmente, poiché
i Greci combattevano solo a fine primavera ed in estate, nel corso delle
tre importanti feste dionisie (piccole dionisie o rurali [che si
svolgevano nel mese di Poseidone, cioè a dicembre/gennaio], lenee [attuate
nel mese di Gamelione, cioè a gennaio / febbraio; così chiamate da Lenai,
uno dei seguaci di Dioniso ], grandi dionisie o urbane [tenute nel mese di
Elafebolione, cioè a marzo / aprile] ) e talvolta delle antesterie ; ne
era soprintendente l'arconte eponimo nelle grandi dionisie, l'arconte re
nelle lenee, ai quali veniva riservata la designazione del cittadino
abbiente obbligato ad assumersi la coregia e l'ammissione dei concorrenti
al concorso drammatico.
Nello spirito competitivo proprio
dell'indole del popolo greco, i tre poeti scelti negli agoni tragici
dovevano presentare una tetralogia (tre tragedie e un dramma satiresco),
mentre i tre (più tardi cinque) degli agoni comici gareggiavano con una
sola commedia .
L'autore, che talvolta anche fungeva
da attore, o il corego stesso o un esperto corodidascalo curava
l'istruzione del coro, la distribuzione e recitazione delle parti e
l'allestimento scenico, che, primordiale agli inizi, si arricchì via via
di ingegnosi espedienti.
Una commissione di cinque cittadini
per la commedia, forse di dieci per la tragedia, estratti per lo più a
sorte, giudicava le opere presentate e stabiliva le graduatorie di merito.
Dopo il verdetto, l'arconte redigeva
un resoconto ufficiale con tutte le notizie relative ai drammi
rappresentati.
Raccolte da Aristotele nelle sue
Didascalie, pervennero a noi, insieme con gli argomenti ("Hypothéseis"),
con i testi manoscritti delle singole opere .
I vincitori, l'autore, l'attore e in
seguito anche il corego erano premiati con una corona di edera e di alloro
e con un tripode di metallo, che spesso veniva dedicato a Dioniso.
Sorto dal popolo e promosso per le
esigenze e l'educazione del popolo, il teatro in Atene concentrava
l'attenzione e l'interesse di tutti i cittadini .
Ai poveri, perché potessero assistere
agli spettacoli, era concesso dallo Stato un sussidio di due oboli ("theorikón"):
sussidio, comunque, destinato ad aumentare con il tempo.
La tragedia: specchio
dei tempi
Ad eccezione del dramma satiresco
(che, pur muovendo dal mito, lo sfruttava in modo umoristico), della farsa
burlesca, del mimo e del pantomimo, rivolti a soddisfare un diletto di
breve durata, la drammatica ateniese del V e IV sec. a.C. nelle sue forme
più significative (Eschilo, Sofocle, Euripide) è legata alle condizioni
del tempo e ne riflette i fatti e i problemi di maggior rilievo.
La tragedia nella mirabile fusione di
epica e lirica e nell'armonia dei mezzi espressivi della parola, del canto
e della danza, adombra nella rappresentazione del mito la realtà
quotidiana nei suoi contrasti politici e sociali e nelle sue ansie morali
e religiose .
Nell'età ellenistica il teatro perse
l'originale carattere religioso e civico.
Mentre l'organizzazione degli
spettacoli passava dai coreghi agli agonoteti, funzionari statali, la
tragedia , perdendo ogni carica emotiva , si ridusse a esercitazione
letteraria o, per un processo di progressiva profanizzazione, si trasformò
nella commedia «nuova» (Menandro).
Il teatro a Roma
Venuto meno pressoché completamente il contatto con
la vita culturale e politica del tempo, il teatro si svincolò da ogni
intento educativo per diventare un semplice quanto diffuso divertimento
delle folle e delle corti ellenistiche.
Con siffatto carattere e tale
funzione fu accolto in Roma verso la metà del III sec. a.C. e costituì,
nel suo contenuto profano, la manifestazione più appariscente di festività
religiose e di celebrazioni di avvenimenti gloriosi.
La produzione teatrale, sebbene
mostrasse in genere preferenza per i modelli greci (Plauto, Terenzio,
Cecilio Stazio), non trascurò la produzione indigena e quella precedente
di provenienza etrusca, osca e italica (fescennini, satura, atellana,
mimo).
Cercò pure il genere di contenuto
nazionale, nella tragedia con la praetexta, nella commedia con la
togata, predominando fra le manifestazioni artistiche del mondo latino per
circa un secolo e mezzo dell'età arcaica. In seguito, nell'ultimo secolo
dell'epoca repubblicana e durante l'Impero, il teatro da una parte lasciò
sempre più posto alle lascive rappresentazioni del mimo, dall'altra subì
via via maggiormente la concorrenza degli spettacoli del circo, dei giochi
gladiatori, delle naumachie, ecc.
La drammatica propriamente detta,
rimasta in onore presso le classi colte, si esaurì nella riesumazione di
opere del passato o nella loro rielaborazione, come nelle truci tragedie
di Seneca, destinate alla privata o pubblica recitazione, o nella commedia
del «piagnone» (Querolus) modellata sulla Aulularia plautina.
All'avvento del cristianesimo la
condanna della Chiesa, volta soprattutto contro la troppo libera vita
degli attori, e l'arretramento culturale provocato dalle invasioni
barbariche determinarono nell'alto medioevo l'affievolirsi e infine la
scomparsa di ogni attività teatrale, ridotta all'esibizione di pochi
guitti vagabondi nelle piazze dei mercati.
ANCORA SUL TEATRO GRECO
Teatro: termine proveniente dal greco "theatron", che
significa "luogo per vedere", con cui si indica sia un particolare genere
di spettacolo o rappresentazione basata sul dialogo, sia l'edificio in cui
una tale rappresentazione ha luogo. Com'è noto, il teatro in quanto
organismo architettonico trae origine, in Grecia, dalle primitive
sistemazioni dei luoghi all'aperto in cui si svolgevano danze e cori
rituali, connessi al culto dionisiaco: l'altare era solitamente in un
breve spazio, pianeggiante e circolare, mentre i cittadini che
partecipavano ai riti si raggruppavano lungo il declivio concavo del
terreno. E' possibile che si prevedevano posti a sedere per gli spettatori
direttamente sull'erba del pendio naturale circostante il terreno piano
dello stadio, e che i posti a sedere sull'erba siano stati sostituiti da
strutture lignee che assicuravano al terreno panche di legno per fare
sedere gli spettatori, com'è possibile che si è creduto necessario
circondare tutta l'area con uno steccato, soprattutto nelle zone in cui
gli abitanti non godevano di uguaglianza di diritti, in modo che una parte
di essi veniva esclusa dalla partecipazione agli spettacoli, in quanto si
trattava di forme di culto più che di spettacolo. Più tardi venne
introdotto nel mondo greco il sistema minoico della scalinata di pietra,
restando immutato il resto della struttura. Successivamente con la nascita
della tragedia e della commedia, concepite anch'esse come manifestazioni
dell'"ethos" comune e, quindi, di significato mediatamente rituale, fu
consuetudine far svolgere entro il recinto dell'altare, già definito
"orchestra", le prime pubbliche e gratuite rappresentazioni sceniche. La
forma del teatro greco si suppone peraltro derivata in parte (Anti) anche
da quella dei teatri di corte minoici, tradizionalmente quadrangolari:
primi arcaici teatri della reggia di Phaistos e Knossos, infatti, come
quelli dell'Ellade anteriori al V sec. a.C., avevano l'orchestra in forma
quadrata e la cavea grosso modo trapezoidale (teatro di Leneo ad Atene del
450 a.C.). Un primo tentativo di teatro a forma semicircolare si attuò
durante il periodo di GeroneI e DionisioIII a Siracusa (per esempio il
teatro costruito nel 470 a.C. da Damacopo detto Myrilla), mentre solo con
il IV sec. a.C. si ebbero delle cavee interamente in pietra, come quelle
di Epidauro (370-360 a.C.) e di Megalopoli (360-330 a.C.).
Nei primi tempi la rappresentazione scenica si svolgeva
sul medesimo piano dell'orchestra, attorno all'altare (thymele) e a
stretto contatto con l'azione del coro, davanti ad un semplice fondale
mobile (skenè) di tela, posto dietro l'orchestra, dalla parte opposta
all'"auditorium" (o cavea). A questa primitiva scena di tela se ne
sostituì presto una stabile, costituita da un elemento rettangolare
ligneo, che aveva la duplice funzione di fondale e, nella sua parte
retrostante, di magazzino per gli attori.
La scena rappresentava ordinariamente la facciata di un
palazzo, con tre porte, e sosteneva le antenne per la manovra degli
scenari dipinti. Questi man mano che non servivano più erano calati in
apposita fossa, che correva lungo tutto il fronte della scena. Come nel
teatro di Dioniso ad Atene, dinanzi alla scena era pure una vasta pedana
di legno un poco sopraelevata rispetto al piano dell'orchestra e
notevolmente profonda, era il "logeion", da cui recitavano gli attori, per
i quali quella pedana costituiva una specie di cassa armonica.
All'orchestra e alla scena si accedeva attraverso due ingressi laterali (parodoi)
<glossario.html> ricavati nello spazio intercorrente fra la cavea e
l'orchestra: sotto il piano dell'orchestra erano praticate gallerie,
accessibili dalla fossa scenica e in comunicazione con l'altare (thymele)
<glossario.html> ergentesi al centro e con gli angoli dell'orchestra
muniti di uscite (kàthodoi), donde apparivano le ombre dei morti evocati
dal sottoterra (dette perciò anche "klimakes karonoi"). Infine sul tetto
dell'edificio scenico, accessibile dall'interno, era ricavata una
piattaforma destinata alle epifanie delle divinità (theologeion), che di
lassù prendevano parte diretta alle vicende degli uomini. Gli ambienti
raffigurati nella scena erano dipinti e manovrati in modo che
all'occorrenza, spiccati dai sostegni e lasciati cadere nella fossa,
provocassero il cambiamento della scena: dovendosi procedere a più di un
mutamento si montavano sulle antenne, prima della rappresentazione, le
scene occorrenti in modo che prima fosse quella di immediato impiego e
ultima, o più interna, quella riservata all'ultima scena. La tradizione
attribuisce al pittore Agatarco l'ufficio di scenografo ai tempi di
Eschilo e di Sofocle. S'intende che essendo il teatro greco privo di
qualsiasi riparo, cioè aperto, da "fondali" o da "cieli" nel senso moderno
della parola servivano il paesaggio e il cielo veri (l'aria aperta e gli
accidenti dell'ambiente - il gioco alterno del sole e delle nuvole, il
levarsi del vento, i rumori dall'esterno - accentuavano per un verso la
naturalità dell'evento scenico, per un altro la sua irripetibile
singolarità: ancora una volta contribuendo a istituire quell'interrelazione
fra spettatore e spettacolo che è caratteristica del teatro antico). Si
ripete dunque una grave inesattezza quando si dice che i Greci, assistendo
ad una rappresentazione, dovevano fare appello alle più riposte virtù
immaginative per compensare l'inadeguatezza dei mezzi tecnici a
disposizione della regia: l'illusione scenica non tanto difettava per
povertà ed ingenuità della ricostruzione ambientale, quanto era
compromessa dalla struttura stessa del teatro antico. Nella cavea, o
auditorium, la gradinata (koilon) era divisa solitamente in tre distinti e
separati ordini di posti mediante settori circolari (kerkides) riservati,
a partire da quello più prossimo all'orchestra, ai magistrati e ai
sacerdoti, ai militari ed al popolo. Queste gradinate poi erano
intervallate da una rete di scale radiali e di corridoi orizzontali
anulari (diazomata), che assolvevano il compito di coordinare i vari
percorsi della cavea per un continuo disimpegno dei singoli settori. Il
pubblico era ammesso dietro pagamento di un modico biglietto (due oboli),
il cui costo per i cittadini poveri era sostenuto dallo stato. Anche
questo fatto non va interpretato come espressione di una prassi demagogica
dello stato democratico, ma piuttosto come segno dell'essere il teatro
classico ateniese non puro divertimento, ma solenne funzione pubblica,
alla quale ogni cittadino doveva essere posto in grado di partecipare.
Durante l'età ellenistica hanno luogo la costruzione di numerosi teatri
nuovi e la trasformazione di molti preesistenti. Fra i principali di nuova
costruzione, quello di Delfi. Fra i più importanti di quelli rimaneggiati:
Atene ed Epidauro. Il teatro ellenistico subisce, rispetto al teatro
classico, graduali trasformazioni nell'orchestra, nella cavea e,
specialmente, nell'edificio della scena. Le trasformazioni sono legate
all'evoluzione che subisce il teatro antico con l'esaurirsi della
tragedia, l'affermarsi della commedia nuova e la conseguente diminuita
importanza che hanno, nella finzione scenica, le parti affidate al coro.
Per questi motivi, quello che era il fulcro del teatro antico,
l'orchestra, va perdendo sempre più della sua importanza a favore
dell'edificio della scena, dove gli attori, su un apposito palco (logeion),
svolgono la loro azione. I mutamenti subiti dalla cavea consistono in un
variare dei rapporti di funzione e di distanza fra esse e gli elementi
della scena, anche come conseguenza dell'introduzione del "logeion".
Più interessanti sono le variazioni della scena. Esse
sono state così ricostruite: precede una fase (310-300 a.C.), in cui si
introduce un "proskenion" mobile di legno in teatri di vecchio tipo;
quindi (dal 250 a.C.), in teatri di nuova costruzione, il proscenio,
facente parte del progetto originario, è costruito in legno, con un basso
colonnato, ma è stabile. Segue la fase (dal 200 a.C.) del proscenio in
muratura. In certi casi, per esigenze del terreno, si manterrà l'uso della
scena mobile di legno, i cui elementi, dopo le rappresentazioni, si
conserveranno in apposite "skenothekai". Una volta trasferito sul logeion
(e cioè sul soffitto del proscenio) il sito della recitazione, l'edificio
della scena acquista la funzione di sfondo della finzione scenica con la
erezione di un secondo piano (episkenion). Anche in questo caso si pensa
che si sia passati da una fase di episcenio ligneo a una fase di episcenio
in muratura. Il proscenio presentavasi come una fronte rettilinea di
pilastri, colonne o semicolonne appoggiate a pilastri (per lo più di
ordine dorico). Riservati alcuni degli intercolumni (uno o tre) come vani
di comunicazione fra l'orchestra e l'edificio della scena, gli altri
potevano essere riempiti con pannelli di legno dipinti (pinakes). La
fronte dell'episcenio presentava un numero variabile di grandi aperture,
da tre a cinque e sette chiuse spesso da scenari dipinti mobili (thyromata).
I tipi principali di scena che meritano qui di essere ricordati sono: il
tipo cosiddetto a "paraskenia", o occidentale, in cui si conservano i
corpi laterali aggettanti dell'edificio della scena del teatro più antico,
fra i quali è inserito il logeion; il tipo a rampe, o continentale, con il
logeion accessibile dall'orchestra per mezzo di due rampe inclinate,
collocate alle estremità, lungo la linea dell'edificio della scena (Epidauro);
il tipo orientale con scena a parete diritta, proscenio senza chiusure
laterali prolungato, esteso talvolta sui lati o tutt'intorno all'edificio
della scena; il tipo con proscenio con vero e proprio colonnato
dell'avanzato ellenismo.
Problema fra i più controversi della filologia classica
è quello dell’origine della tragedia. Le Fonti sono troppo contraddittorie
per permetterci una soluzione.
Secondo alcune Fonti c’è la data del 524 a.C., quando
Tespi avrebbe rappresentato la prima tragedia ad Atene. Ma ciò è una
convenzione, perché la prima tragedia si ha quando un uomo lascia la
propria identità, riveste quella di un personaggio del passato e si
contrappone al Coro, coinvolgendo emotivamente e psicologicamente tutto il
pubblico e quindi rendendolo parte integrante della rappresentazione
stessa. La tragedia nasce quando lo spettatore scopre che nell’azione
teatrale egli può vivere un’altra realtà, diversa dalla propria, ma che in
ultima analisi rivela la sua realtà, attraverso il monito, sempre presente
nella tragedia, che la vita umana è dolore. Questa rivelazione della
propria condizione, l’uomo-spettatore, la può sostenere solo filtrata e
rispecchiata nella finzione del dramma, quasi a consolarsi che il dramma
non è cosa reale e quindi anche il proprio dolore viene ad essere, in
certo modo, esorcizzato e accettato.
Secondo Aristotele la tragedia nasce nel ditirambo e
dai suoi exàrchontes. Egli ci dice che fu Arione di Metimna ad inventare
la tragedia ed a comporre ditirambi, i quali prendevano nome dal Coro.
Aristotele ci informa anche che fu sempre Arione ad introdurre i satiri
che, appunto, dicevano parole in metro ditirambo.
L’esecuzione dei ditirambi sarebbe l’occasione per la
nascita della tragedia e così si confermerebbe il dato storico, secondo il
quale la tragedia si sviluppa nell’ambito del culto dionisiaco.
La seconda teoria (è significativo per essa un passo di
Erodoto) parla di Cori tragici per celebrare i patimenti (pàthea) di un
eroe.
Tanto è che nella tragedia ha un ruolo fondamentale il
lamento sul morto eroe.
Queste due teorie non si escludono, ma sono i prodromi
di qualcosa che le trascende entrambe: la tragedia stessa.
Localizzazione
Si è soliti riportare la preistoria della tragedia (la
proto-tragedia) in ambiente dorico.
Aristotele dice che il nome "drama" deriva dal dorico "dran"
"fare/agire", mentre gli Ateniesi dicevano "pràttein".
Ma gli Ateniesi rivendicano, della tragedia, la
paternità assoluta, anche se la lingua in cui parla il Coro è la lingua
dorica.
Il nome
La prima parte del nome va messo in rapporto con "tràgos"
"capro", quindi:
1) ‘Canto sul capro’; animale-totem a cui è assimilato
Dioniso.
2) ‘Canto per il capro’; come premio per un
componimento poetico.
3) ‘Canto dei coreuti mascherati da capri’; questa
terza interpretazione ci riporta al dramma satiresco.
Aristotele mette in connessione, in modo non affatto
chiaro, tragedia e dramma satiresco, e dice che la prima, discende dal
secondo.
Dramma satiresco
Esso è uno spettacolo sicuramente più primitivo
rispetto alla tragedia e alla commedia. Il tipo di rappresentazione è a
carattere pastorale con maschere, i tratti delle quali sono antichissimi.
In origine si hanno gruppi di satiri (metà uomini, metà
capri) insieme al padre Sileno, che ballano e cantano in onore di Dioniso.
Forse erano riti di iniziazione, legati alla fertilità
(vi era infatti la presenza del fallo).
Con il tempo si perde la capacità di capire le parole
ed i gesti. Per questo si viene a creare l’esigenza del corifèo, il quale,
staccandosi dal Coro, spiega agli astanti cosa viene detto e cosa viene
fatto.
A questo punto, con la presenza del corifèo, il quale,
verosimilmente, inizia un dialogo con un attore, o con il Coro stesso,
nasce il dramma satiresco.
Argomento del dramma satiresco
In un primo tempo gli argomenti del dramma satiresco
(la nascita del quale viene attribuita a Pratina -inizi V sec. a.C., come
si è detto), erano solo i culti dionisiaci. In un secondo tempo furono
introdotti temi epici, per cui la presenza dei satiri stonava troppo con
il tema trattato.
Questo è il motivo per cui nasce il personaggio del
Papposileno (padre dei satiri) che in certo modo giustificava le ‘azioni
stonate’ dei satiri.
Ai tempi di Eschilo, Sofocle, Euripide, era in uso
presentare, insieme alle tre tragedie, anche un dramma satiresco.
Struttura della tragedia
Inizialmente l’attore ha un ruolo subordinato al Coro e
interloquisce con esso, anziché con un altro attore. In questo si vede
riflessa la tipologia socio-psicologica della struttura connettiva della
Comunità. Nella quale il singolo non ha importanza, se non come parte di
un mosaico che crea l’ ‘inte-laiatura’costitutiva della Comunità-gruppo. È
infatti il gruppo che ha maggiore rilievo, mentre l’individuo si
caratterizza solo ed esclusivamente al suo interno. Ciò si può vedere
molto chiaramente nell’Iliade, dove ogni singolo personaggio si preoccupa,
non già di se stesso, ma di come può essere giudicato dalla Comunità
riguardo al proprio operato. Si pensi a tale proposito a ‘Iliade, libro
VI’, dove assistiamo al saluto fra Ettore e la moglie di lui, Andromaca.
Mentre la donna, con il figlioletto in braccio, prega il marito di non
andare contro Achille, perché teme per la sua vita, e rammenta all’uomo i
suoi doveri di marito, di padre e di figlio, facendogli presente che lui
verrà ucciso dai Greci e lei, rimasta vedova, sarà venduta come schiava;
il figlio loro, Astianatte, forse verrà ucciso; i genitori di lui, Priamo
ed Ecuba, non avranno più chi li difenderà. A tutto questo Ettore
risponde:
Il, VI – 430,3." E allora Ettore, elmo abbagliante
rispose: ‘Anche io penso a tutto questo, donna. Ma ho troppa vergogna dei
Troiani e delle Troiane trascinatrici di peplo, se resto come un vile
lontano dalla guerra."
Ecco un caso eclatante e tipico di come l’individuo non
conti niente, nella sua singolarità, ma possa trovare la propria identità
solo nell’ambito del gruppo.
In seguito, con il passare del tempo e mutando la
realtà socio-culturale del "gruppo-struttura", venendo cioè a disgregarsi
sempre di più quest’ultimo, perchè, per motivi vari, l’uomo si stacca come
cellula singola da esso, e all’improvviso si trova a fare ‘cose’ da sé e
per sé (si pensi al fiorire dei commerci; delle arti; del libero scambio),
così che viene a nascere in lui un senso completamente nuovo, quale
l’appartenenza al sé, rispetto al clan, e ciò gli fa percepire fortemente
la sua peculiare individualità; ecco che a questo punto muta anche il
rapporto tra attore e Coro.
Adesso prende molta più importanza l’attore (e ce ne
sono 3, non più 1 solo), mentre il Coro tende a diventare quasi uno sfondo
scenico.
Gli attori interloquiscono fra loro ed il Coro fa da
struttura coreografica (di qui anche l’etimologia della parola ‘coreografìa’).
La differenza fra Coro e attori viene accentuata anche dall’uso della
metrica che è diversa per l’uno, e per gli altri.
Gli attori parlano in trimetri giambici ( _ _/ X U ),
metro che produce una cadenza molto vicina al parlato: come se fosse una
filastrocca ( si confronti l’uso del trimetro giambico nella filastrocca
in lingua italiana: "qui – cò min – cia / l’av – vèn – tu – ra / del – Sì
– gnor – Bo / na – vèn – tu – ra") e non sono accompagnati dalla musica,
mentre il Coro è sempre accompagnato dal suono del flauto.
La funzione del Coro è anche quella di spiegare al
pubblico azioni e reazioni che avvengono sulla scena, le quali, per motivi
vari, non sono di facile e immediata comprensione.
Il Coro è neutrale rispetto agli attori e alle loro
azioni.
Struttura interna della tragedia
1) Parte iniziale; si ha prima che entri il Coro.
Questa parte si chiama PROLOGO.
A partire da Eschilo e Sofocle, il PROLOGO è un dialogo
fra due personaggi che spiegano la
trama del dramma.
2) pàrodos. È il canto dei due semi-cori che entrano
nell’orchestra, dai due passaggi laterali fra scena e orchestra. Continua
l’esposizione del dramma, iniziata nel Prologo.
3) Coro. Dopo il suo ingresso rimane fermo e ogni suo
canto successivo si chiama Stàsimon – "fermo".
4) Gli ATTI (da 3 a 7), che sono la recitazione vera e
propria degli attori.
5) Èxodos – "uscita"; è la parte finale del dramma.
Il Coro conclude, con un breve canto, l’ultima scena.
Alcuni cenni liberamente rivisitati e ampliati, tratti
da un seminario teorico della Prof.ssa Marina Manciocchi, sulla tragedia
ed il mondo greco del V sec. a.C.
La tragedia nasce in forma di canto e di danza corali.
In una fase molto arcaica, venne inserito un attore, il quale nasce
enucleato dal Coro e con esso dialoga.
Con Eschilo (V sec. a.C.) appaiono il 2° e 3° attore.
Infatti con Sofocle, il 3° attore è già ben insediato al proprio posto. I
testi della tragedia erano imparati a memoria dagli attori e dal pubblico,
giacchè non esisteva un lavoro scritto da diffondere.
Licurgo (390 – 325 a.C., statista Ateniese) fu il primo
che fece scrivere i testi delle tragedie. È ancora Licurgo che permette
agli attori di organizzarsi in "associazioni"; essi giravano per le
colonie facendo le loro rappresentazioni.
Nel V sec. a.C. i cittadini maschi sono completamente
assorbiti dalla vita politica e rappresentano il tessuto connettivo della pòlis – "città".
Gli uomini liberi seguivano questo iter.
Dai 18 ai 20 anni si sottoponevano ad addestramento
militare.
Dai 20 ai 60 anni erano soldati e membri dell’ "ecclesìa",
che era l’assemblea depositaria di tutti i diritti. All’interno dell’
ecclesìa venivano scelti i giudici, gli arconti, gli strateghi; e fra
coloro che avevano compiuto i 35 anni venivano scelti i 500 che andavano a
costituire la bulè – che era il Consiglio Supremo.
Il cittadino, dunque, è partecipe totalmente di ogni
aspetto della collettività e non ha a disposizione tempo privato. La bulè
è gestita dai cittadini, e per questo motivo la libertà di pensiero e di
azione è molto controllata. Infatti ogni uomo di cui si sospettasse
un’eccessiva ambizione nell’esercizio delle pubbliche funzioni, veniva
"ostracizzato", cioè allontanato per 10 anni dalla città. Era questa una
penalità preventiva, in quanto non puniva una colpa, ma serviva a
prevenirla. Molto si curava questo aspetto: che l’uomo non andasse oltre
il consentito. Ci offre esempi di tale linea socio-politica la filosofia
delfica, ed anche Solone ci istruisce in questo senso. Egli nella sua
opera l’ "inno alle Muse" avverte l’uomo di non essere – ubristès –
"smodato/tracotante", perché questo è un atteggiamento che dispiace molto
agli dèi, i quali puniscono tale uomo e, ricorda Solone, può passare anche
molto tempo, prima che giunga la punizione, ma bisogna tenere sempre ben
presente che "Zeus punisce, anche se tardi". Per questo motivo le colpe
dei padri ricadono sui figli.
Ci istruisce in tal senso Eschilo, soprattutto nella
tragedia "Persiani"(472 a.C.), dove parla di uomini (i Persiani, appunto)
che hanno fatto cose andando oltre il lecito consentito agli umani, e per
questo sono stati puniti. Eschilo ci insegna tale verità anche nella
tragedia "Orestea"(458 a.C.) dove a causa della illeicità dei gesti
compiuti, Agamennone sarà duramente punito dagli dèi, addirittura con la
morte.
Sempre Eschilo continua ad istruire il suo pubblico in
questo insegnamento, di non ‘dispiacere’ agli dèi, anche nella tragedia
"Prometeo Incatenato".
Sofocle ci insegna che a sfidare gli dèi si cade nella
loro tenace trappola; è il caso della tragedia "Èdipo re". E così via.
Si doveva tenere l’uomo sottomesso ad una paura
preventiva, affinchè esso non cadesse nelle tentazioni della smodatezza e
della illeicità; cose entrrambe, che avrebbero arrecato danno al tessuto
connettivo di cui egli faceva parte.
Non esisteva, in questa società completamente al
maschile, nessuna forma di educazione per le donne. I bambini venivano
presi "in gestione" dalla comunità dei maschi e tolti alle madri all’età
di 6/8 anni. Veniva loro insegnato lo studio della letteratura, la
scrittura, la musica, la grammatica e la danza.
È molto facile capire come, in un mondo del tutto privo
del ‘femminile’, prosperasse l’omosessualità, vissuta semplicemente come
un fatto di costume e addirittura considerata molto importante nell’ambito
educativo. Sembra che essa fosse stata introdotta dai Dori.
E questi, che da bambini diverrano uomini, saranno i
fruitori del teatro.
Nel VI sec. a.C. Solone emana delle leggi per le donne,
o meglio, contro le donne!
Egli intanto distingue le "donne per bene", dalle
prostitute. Poi impone come legge, che il tutore (ogni donna doveva averne
uno: padre, marito, fratello) possa vendere la donna non sposata che
avesse perso la verginità.
Con altre leggi, poi, regola la durata e la quantità
delle passeggiate che le donne – sempre rigorosamente accompagnate da
un’ancella! – potevano fare. È sempre lui che decide che tipo di
nutrimento e quali bevande siano consone per la popolazione femminile.
Anche nel V sec. a.C. tutto sarà identico per le donne;
esse sono sempre considerate alla stregua degli schiavi, infatti non hanno
alcun diritto. Non possono avere beni e devono stare sempre sotto la
tutela di un uomo.
Ma c’era una città, la città cretese di Gortìna, dove
le donne erano proprietarie della loro dote!
Addirittura era un loro compito amministrare i propri
beni e quelli del marito. Queste donne potevano divorziare, se e quando lo
ritenessero opportuno. Era punita severamente la violenza carnale.
Sceglievano loro stesse liberamente il marito!
Ad Atene invece la donna vive fra le mura di casa. Le
case sono buie, umide e malsane; per questo tante di loro si ammalano e
muoiono. Solamente le prostitute come le etèree, sono donne libere, ma non
sono greche. Esse avevano accesso persino alla vita intellettuale e
ricevevano una istruzione.
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