La Roma di Tacito

 

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(55 d.C.? ca – 120 ca)

Origini nobili. Molto incerti e lacunosi sono i dati biografici di T. (a partire già dai suoi "tria nomina"): nacque probabilmente nella Gallia Narbonese (ma forse a Terni, o addirittura nella stessa Roma), da una famiglia ricca e molto influente, di rango equestre. Studiò a Roma (frequentò probabilmente anche la scuola di Quintiliano), acquistò ben presto fama come oratore (dovette essere anche un valentissimo avvocato), e nel 78 sposò la figlia di Gneo Giulio Agricola, statista e comandante militare.

La fortunata carriera politica e letteraria. Iniziò la carriera politica sotto Vespasiano e la proseguì sotto Tito e Domiziano; ma, come Giovenale, poté iniziare la carriera letteraria solo dopo la morte dell'ultimo, terribile, esponente flavio (96 d.C.), sotto il cui principato anche il nostro autore, come altri intellettuali del resto, non dovette vivere momenti certo tranquilli. Questore poi nell’81-82 e pretore nell'88, T. fu per qualche anno lontano da Roma, presumibilmente per un incarico in Gallia o in Germania. Nel 97, sotto Nerva, fu console (anche se in veste di supplente) e pronunciò un elogio funebre per Virginio Rufo, il console morto durante l'anno in carica.

Gli ultimi anni profusi negli studi storici. Abbandonò poi decisamente oratoria e politica (ebbe solo un governatorato nella provincia d’Asia, nel 112-113), per dedicarsi totalmente alla ricerca storica. Fu intimo amico, nella vita e negli studi, di Plinio il Giovane.

Opere

- "Dialogus de oratoribus", dell’ 80 ca o di poco successivo al 100; d'incerta attribuzione (ma oggi si propende sull'attribuzione dell'opera a T.), è comunque dedicato a Fabio Giusto;

- "De Vita Agricolae", pubblicato nel 98;

- "De origine et situ Germanorum" o "Germania", dello stesso anno?;

- "Historiae", composte tra il 100 e il 110, in 12 o 14 libri di cui però ci sono pervenuti solo i primi 4 e metà del V;

- "Annales" o "Ab excessu divi Augusti", del 100-117?, comunque successivi alle "Historie", in 16 o 18 libri, di cui ci rimane, però, l'opera incompleta: i primi 4 libri, alcuni frammenti del V e del VI (mancante forse del principio) che trattano del regno di Tiberio; infine, gli ultimi 6, concernenti Nerone, ma per lo più lacunosi.

Contenuti e commenti delle opere

- Dialogus de oratoribus: le cause della decadenza dell'oratoria.

Incertezza di paternità e di stesura. Il "Dialogus de oratoribus" non è probabilmente la prima opera di T., se pure è davvero sua (come accennato, la paternità è incerta): la tesi che oggi prevale è che essa sia stata comunque composta dopo la "Germania" e dopo l' "Agricola". Il periodare presente in tale opera - e la stessa forma dialogica - ricorda, infatti, il modello neociceroniano, forbito ma non prolisso, cui si ispirava l'insegnamento della scuola di Quintiliano: per questo, c'è chi suppone che l'opera sia stata appunto scritta quando T. era ancora giovane e legato alle predilezioni classicheggianti proprie di quella scuola. Anche se questa ipotesi fosse vera, resta il fatto che l'opera fu pubblicata solo in seguito, dopo la morte di Domiziano.

La decadenza dell'oratoria. Ambientata nel 75 o nel 77, il "Dialogus" si riallaccia alla tradizione dei dialoghi ciceroniani su argomenti filosofici e retorici: riferisce di una discussione avvenuta a casa di Curiazio Materno fra lui stesso, Marco Apro, Vipstano Messalla e Giulio Secondo. In un primo momento, si contrappongono i discorsi di Apro e Materno (che forse è la maschera dietro cui si nasconde lo stesso T.), in difesa - rispettivamente - dell'eloquenza e della poesia. L'andamento del dibattito subisce però una svolta con l'arrivo di Messalla, spostandosi sul tema della decadenza dell'oratoria, la cui causa è individuata essenzialmente nel deterioramento dell'educazione e, soprattutto, nel clima di "censura" di parola e di pensiero vigente nella stessa età imperiale. Il dialogo, infatti, si conclude con il discorso di Materno, il quale sostiene, più specificamente, che una grande oratoria forse era possibile solo con la libertà, o piuttosto con l'anarchia; diviene invece anacronistica e noiosa - strumento al servizio del servilismo e dello sterile accademismo culturale, piuttosto che della lotta politica e civile - in una società (forzatamente) "tranquilla", come quella conseguente all'instaurazione dell'Impero, caratterizzata dalla degenerazione sociale, politica e culturale. L'opinione attribuita a Materno, come detto, rispecchia molto probabilmente il pensiero di T.: ma egli, nonostante tutto, sente la necessità dell'Impero - come vedremo del resto nelle opere successive - come unica forza in grado di salvare lo stato dal caos delle guerre civili, di garantire insomma la pace, anche se il principato restringe lo spazio per l'oratore e l'uomo politico.

- Agricola e la sterilità dell'opposizione.

Un'opera composita, tra biografia etnografia e politica. Verso gli inizi del regno di Traiano, T. approfittò del ripristino dell'atmosfera di libertà dopo la tirannide per pubblicare il suo primo opuscolo storico, la sua prima monografia (ma il carattere di quest'opera "sui generis" è decisamente ibrido: oscilla tra etnografia, storia, panegirico e biografia, mentre l'impronta è marcatamente politica), che tramandi ai posteri la memoria del suocero Giulio Agricola, valente generale del tempo di Domiziano e conquistatore della Britannia (o meglio, della parte settentrinale dell'isola). Per il suo tono encomiastico, lo stile di quest'opera si avvicina a quello delle "laudationes" funebri, integrate con materiali storici ed etnografici; notevole è anche l'influenza di Cicerone, soprattutto nella perorazione e celebrazione finale, che assume toni particolarmente commossi e di intensa e personale partecipazione.

La trama e il personaggio di Agricola, esempio di libertà ed onestà politica. Dopo una trattazione sommaria della vita del protagonista (incentrata esclusivamente sulla sua figura di uomo pubblico, mentre soltanto accennati, quando non taciuti, sono gli episodi relativi a vicende private e di vita quotidiana), T. si sofferma proprio sulla conquista della Britannia, lasciando un certo spazio alle digressioni geografiche ed etniche. Egli, tuttavia, non perde mai di vista il proprio personaggio: la Britannia è soprattutto un campo in cui si dispiega la "virtus" di Agricola, il teatro delle sue magnifiche imprese. T. mette in risalto come il suocero avesse saputo servire lo Stato con fedeltà e onestà, anche sotto un pessimo principe come Domiziano (si lascia trapelare anche il sospetto che proprio questi avesse fatto avvelenare, per invidia, il famoso generale): anche nella morte, tuttavia, Agricola mantiene la sua rettitudine: egli lascia la vita in silenzio, senza andare in cerca della gloria di un martirio ostentato. L'esempio di Agricola, insomma, indica come anche sotto la tirannide sia possibile percorrere la via mediana (la vera virtù consiste appunto nella "moderazione") fra quelle del martirio e dell'indecenza.

- Germania: virtù dei barbari e corruzione dei Romani.

Opuscolo etnico-geografico di "attualità". Gli interessi etnografici sono al centro della "Germania", non a caso scritta in quel particolare momento storico-politico, quando l’agitarsi delle popolazioni ultrarenane indusse Traiano ad affrontare decisamente il problema germanico: unica testimonianza, comunque, di una letteratura specificatamente etnografica che a Roma doveva godere di una certa fortuna.

[A tal proposito, non è certo se T. abbia ideato quest'opera come una composizione a sé stante o se l'abbia pensata come una parte, un "excursus", da inserire successivamente nelle "Historiae": invero, però, la critica odierna sembra agevolmente acquietarsi sulla prima ipotesi].

I contenuti e le fonti. L'operetta è divisa in 2 parti: nei primi 27 capitoli è descritta la Germania in generale, condizioni del suolo e del clima, abitanti, loro costumi, religioni, leggi, divertimenti, virtù e vizi; la II parte, invece, contiene un catalogo con le notizie particolari dei diversi popoli, in ordine geografico, da occidente ad oriente.

Le suddette considerazioni etnogeografiche (sui popoli e sui luoghi appunto tra Reno e Danubio) non derivano tuttavia da una visione diretta, ma da fonti scritte, e soprattutto dai "Bella Germaniae" di Plinio il Vecchio, che aveva prestato servizio nelle armate del Reno. T. sembra aver seguito la sua fonte con fedeltà, aggiungendo qua e là pochi particolari per ammodernare l'opera: ciò nonostante, rimangono alcune discrepanze, poiché la "Germania" sembra descrivere abbastanza spesso la situazione come si presentava, invero, prima che gli imperatori flavi avanzassero oltre il Reno e oltre il Danubio.

Visione "manichea": barbari sani e Romani corrotti. E' possibile notare (ed anzi non è rilievo secondario), nell'opuscolo di T., l'esaltazione di una civiltà ingenua e primordiale, non ancora corrotta dai vizi raffinati di una civiltà decadente: in questo senso, tutta l'opera sembra percorsa da una vena implicita di contrapposizione dei barbari, ricchi di energie sane e fresche, ai romani, contrapposizione evidentemente frutto di un filtro etico attraverso il quale lo storico scandaglia osservazioni e descrizioni. E molto probabilmente, al di là di ogni "idealizzazione", T. intendeva sottolineare la pericolosità di quel popolo per l'Impero: i Germani potevano davvero rappresentare una seria minaccia per un sistema politico basato sul servilismo e sulla corruzione (ovviamente, T. parla anche dei molti difetti di un popolo che gli appare comunque come essenzialmente barbarico). Un accorato invito, dunque, a raccogliere le residue forze contro il potente e minaccioso nemico.

- Historie: i parallelismi della storia.

Dal 69 al 96 d.C. . Il progetto di una vasta opera storica era presente già nell'Agricola, ma nelle "Historiae" tale progetto appare modificato: mentre la parte che ci è rimasta contiene la narrazione degli eventi dal regno di Galba fino alla rivolta giudaica, l'opera nel suo complesso doveva estendersi fino al 96, l'anno della morte di Domiziano: nel proemio, T. afferma di voler trattare durante la vecchiaia dei principati di Nerva e di Traiano.

Le "Historiae" descrivono quindi un periodo cupo, sconvolto dalla guerra civile e concluso con la tirannide:

Il I libro parla del breve regno di Galba; seguono l'uccisione di questo e l'elezione all'Impero di Otone. In Germania le legioni acclamano però come Imperatore Vitellio. In particolare, il 69, anno in cui si aprono le "Historiae", vede succedersi 4 imperatori: questo perché il principe poteva essere eletto anche fuori da Roma, e la sua forza si basava principalmente sull'appoggio delle legioni di stanza in paesi più o meno remoti.

Nel II e III libro si parla della lotta tra Otone e Vitellio, con la sconfitta del primo, e tra Vitellio e Vespasiano. Quest'ultimo, eletto imperatore in Oriente, lascia il proprio figlio Tito ad affrontare i giudei e fa dirigere le sue truppe a Roma dove si era rifugiato Vitellio, che viene ucciso.

Nel IV libro si parla dei tumulti ad opera dei soldati flaviani, e dei tumulti contro Vespasiano scoppiati in Gallia e in Germania.

Il V libro parla degli avvenimenti di Germania e dei primi segni di stanchezza mostrati dai ribelli.

Il significato di "historiae". Come già si evince dallo stesso titolo, nonché dal breve sommario proposto qui sopra, T. vuol soddisfare un desiderio di ricerca e di comprensione dei fatti che va al di là della pura e semplice raccolta di testimonianze: ciò in piena rispondenza e fedeltà al significato stesso che il termine "historiae" rivestiva nella lingua latina, mutuandolo strettamente dal greco "historìa" (indagine, ricerca storica), ovvero come esposizione sistematica della storia, sia come racconto storicamente attestato dei singoli avvenimenti sia come sguardo d'insieme retrospettivo sul passato.

Parallelismi storici. Così, T. scrive a distanza di 30 anni dagli avvenimenti del 69, ma la ricostruzione di quell'anno avveniva nel vivo del dibattito politico che aveva accompagnato l'ascesa al potere di Traiano. A tal proposito, è stato notato un certo parallelismo tra questa e gli avvenimenti del 69: il predecessore di Traiano, Nerva, si era trovato come Galba ad affrontare un rivolta di pretoriani che faceva traballare le basi del suo potere, e come Galba aveva designato per "adozione" un suo successore. L'analogia però si ferma a questo punto: mentre Galba si era scelto come successore Pisone, un nobile di antico stampo poco adatto, Nerva aveva invece consolidato il proprio potere associandosi nel governo Traiano, un capo militare autorevole, comandante dell'armata della Germania superiore. Con il discorso di Galba in occasione dell'adozione di Pisone, lo storico ha inteso mostrare nella figura dell'imperatore il divario fra il modello di comportamento rigorosamente ispirato al "mos maiorum" e la reale capacità di dominare e controllare gli avvenimenti. Solo l'adozione di una figura come quella di Traiano placò i tumulti fra le legioni e pose fine a ogni rivalità.

La necessità del principato. Come già detto, T. è convinto che solo il principato sia in grado di garantire la pace e la fedeltà degli eserciti: già il proemio delle "Historiae" sottolinea come - dopo la battaglia di Azio - la concentrazione del potere nelle mani di una sola persona si rivelò indispensabile, o quantomeno ineluttabile: ovviamente il principe non dovrà essere uno scellerato tiranno come Domiziano, né un inetto come Galba; piuttosto, dovrà invece assommare in sé quelle qualità necessarie per reggere la compagine imperiale, e contemporaneamente garantire i residui del prestigio e della dignità del ceto dirigente senatorio. Quindi, per T. l'unica soluzione sembra consistere nel principato moderato degli imperatori d'adozione.

Lo stile. Lo stile delle "Historiae" ha un ritmo vario e veloce, che richiede da parte di T. un lavoro di condensazione rispetto ai dati forniti dalle fonti: a volte qualcosa è omesso, ma più spesso T. sa conferire efficacia drammatica alla propria opera suddividendo il racconto in più scene. Lo storico è poi molto bravo nella descrizione delle masse, da cui traspare il timore misto a disprezzo del senatore per le turbolenze dei soldati e della feccia della capitale.

Tra storiografia tragica ed abilità ritrattistica. Le "Historiae" raccontano, del resto, per la maggior parte, fatti di violenza e di ingiustizia: ciò non toglie che T. sappia tratteggiare in modo abile i caratteri dei propri personaggi, alternando notazioni brevi a ritratti compiuti come quello di Muciano o di Otone. Lo storico, ad es., insiste sulla consapevolezza di questo personaggio, della sua subalternità nei confronti degli strati inferiori urbani e militari: forse Otone deve proprio a questo servilismo la sua capacità di incidere nelle cose. Egli è dominato da una "virtus" inquieta, che all'inizio della sua vicenda lo porta a deliberare, in un monologo quasi da eroe tragico, una scalata al potere decisa a non arrestarsi. Ma Otone è un personaggio in evoluzione e decide così di darsi una morte gloriosa. Nella sua descrizione T. si affida alla "inconcinnitas", alla sintassi disarticolata, alle strutture stilistiche slegate per incidere nel profondo dei personaggi. Egli ama ricorrere a costrutti irregolari e a frequenti cambi di soggetto per dare movimento alla narrazione.

- Annales: le radici del principato.

Da Augusto a Nerone. Nemmeno nell'ultima fase della sua attività T. mantenne il proposito di narrare la storia dei principati di Nerva e Traiano: anzi egli, negli "Annales", intraprese il racconto solo della più antica storia del principato, dalla morte di Augusto (il giudizio su questo primo principe non può essere che negativo, viste le nefaste conseguenze - anche se nei tempi lunghi - della sua "rivoluzione" politica) a quella di Nerone. Come del resto già si arguisce dallo stesso titolo, continuò il metodo degli annalisti, giacché lo schematismo dei fatti non urtava con la sua funzione critica, che tendeva (come abbiamo visto e come ancora vedremo) prevalentemente allo studio dei caratteri e dei moventi psicologici e morali delle azioni. Probabilmente, T. intendeva la sua opera anche come un proseguimento di quella di Livio: in effetti, già il "sottotitolo" presente nei manoscritti ("Ab excessu divi Augusti") sembra ricordare proprio quello liviano, "Ab urbe condita".

I libri sopravvissuti. Come accennato, degli "Annales" sono conservati i libri I-IV, un frammento del V e parte del VI, comprendenti il racconto degli avvenimenti dalla morte di Augusto (14) a quella di Tiberio (37); inoltre sono conservati i libri XI-XVI, col racconto dei regni di Claudio e di Nerone.

Ancora sulla necessità del principato. Negli "Annales" T. sembra mantenere la tesi della necessità del principato: ma il suo orizzonte sembra essersi notevolmente incupito, o comunque fatto più amaro (nonostante egli si trovi a vivere in un secolo definito unanimemente, da storici e studiosi di età successive, come il "secolo d'oro" dell'impero: ma che si tratti di una mera, crudele, illusione?). La storia del principato è, infatti, anche la storia del tramonto della libertà politica dell'aristocrazia senatoria, anch'essa coinvolta in un processo di decadenza morale e di corruzione, e sempre più incapace - per colpe dirette o per cause indirette - di giocare ancora un ruolo politico significativo. Scarsa simpatia lo storico presenta anche nei confronti di coloro che scelgono l'opposta via del martirio, sostanzialmente inutile allo Stato, e continuano a mettere in scena suicidi filosofici.

T. sembra condurre insomma il lettore attraverso un territorio umano desolato, senza luce o speranza; ma forse, a ben vedere, un barlume di speranza rimane: la parte sana dell'élite politica, infatti, continua a dare il meglio di sé nel governo delle provincie e nella guida degli eserciti (ad es., l'opera bellica di Germanico risulta grandiosa rispetto alla meschina politica urbana di Tiberio). E' proprio su questi uomini che, secondo il nostro autore, bisognerebbe puntare per la ricostruzione politica e morale di Roma.

Ancora storiografia tragica. T. alla forte componente tragica della sua storiografia assegna soprattutto la funzione di scavare nelle pieghe dei personaggi per sondarli in profondità e portarne alla luce le ambiguità e i chiaroscuri. Lo storico, infatti, sa bene <<che né la volontà degli dèi, né la Provvidenza o la Fatalità sono cause immediate del divenire storico. Le azioni umane, che sono le più visibili, le più immediatamente percepibili, in questo divenire, dipendono dal libero arbitrio>> [P. Grimal]. Le conseguenze, quindi, delle opinioni e soprattutto delle passioni che scatenano i comportamenti umani ricadono sul divenire storico e ne determinano il corso: ciò è tanto più vero, poi, se il protagonista di tale divenire è un principe investito, per la durata del suo regno, di un potere illimitato. Per T. è indispensabile, quindi, per comprendere la trama della storia, analizzare la personalità di colui dal quale dipende il destino dell'impero. Ecco, così, spiegato come mai, soprattutto negli "Annales", si perfezioni ulteriormente la tecnica del ritratto e si accentui la componente "tragica" del racconto.

I "ritratti" degli imperatori. Ad es., Claudio è rappresentato come un imbelle che, dopo la morte della prima moglie Messalina, cade nelle mani del potente liberto Narciso e della seconda moglie Agrippina, che alla fine fa avvelenare il marito e mette sul trono Nerone, il figlio avuto da un precedente matrimonio. Quindi, è narrato il regno di Nerone, nella giovinezza influenzato dalle figure della madre, del filosofo Seneca e del prefetto del pretorio Burro. Poi acquista indipendenza e cade sempre più nella pazzia: instaura quindi un regime da monarca ellenistico e si dedica soprattutto ai giochi e ai spettacoli. Riesce a far uccidere la madre Agrippina mentre Seneca si ritira a vita privata. Nerone si abbandona a eccessi di ogni sorta, ma intorno a Gaio Pisone si coagula un gruppo di congiurati che si propongono di uccidere il principe. La congiura di Pisone viene scoperta e repressa.

Ma il vertice dell'arte tacitiana è stato individuato nel ritratto di Tiberio, del tipo cosiddetto indiretto: lo storico non dà cioè il ritratto una volta per tutte, ma fa sì che esso si delinei progressivamente attraverso una narrazione sottolineata qua e là da osservazioni e commenti. Un certo spazio è anche dato al ritratto del tipo paradossale: l'esempio più notevole è la descrizione di Petronio. Il fascino del personaggio sta proprio nei suoi aspetti contraddittori: Petronio si è assicurato con l'ignavia la fama che altri acquistano dopo grandi sforzi, ma la mollezza della sua vita contrasta con l'energia e la competenza dimostrate quando ha ricoperto importanti cariche pubbliche. Egli affronta la morte quasi come un'ultima voluttà, dando contemporaneamente prova di autocontrollo e di fermezza.

Lo stile. Nello stile degli "Annales" si assiste ad un allontanamento dalla norma e dalla convenzione, ad una ricerca di straniamento che si esprime nel lessico arcaico e solenne: è a partire dal libro XIII che quest'involuzione verso modelli più tradizionali, meno lontani dai dettami del classicismo, sembra assumere una importante consistenza: forse il regno di Nerone, abbastanza vicino nel tempo, richiedeva una trattazione con minore distanziamento solenne.

Comunque, in linea di massima, gli "Annales" risultano meno eloquenti, più concisi e austeri delle opere precedenti. Si accentua il gusto della "inconcinnitas", ottenuta soprattutto grazie alla "variatio", cioè allineando un'espressione a un'altra che ci si attenderebbe parallela, ed è invece diversamente strutturata.

Considerazioni conclusive.

Storico impegnato e partecipe… Come si vede, l’opera di T. è tutta sostenuta da un’esplicita e tesa passione etico-politica e dalla con-partecipazione alle sorti della Roma a lui contemporanea: è il corrosivo e dettagliato bilancio (soprattutto nelle opere maggiori) del primo secolo di esperienza monarchica dal punto di vista di un intellettuale, il quale - benché proclami di voler fare storia in modo imparziale ("sine ira et studio", ovvero "senza risentimento e senza partigianeria") - esprime tuttavia, giocoforza, il punto di vista della "sana" opposizione senatoriale alla pratica imperiale (leitmotiv ne è l’inconciliabile tensione tra "libertas" e "principatus").

Evidentemente, <<T. non sarebbe mai giunto alla storia, se al fondo di tutta la sua esperienza politica e forense non ci fosse stato un forte disinganno>> [F. della Corte]: quello sulla vera natura e sulle reali conseguenze del principato.

Ecco perché la sua visione della storia risulta in definitiva, come già detto, fortemente impregnata dell'elemento morale (anche se non legata a credenze, filosofiche o religiose, preconcette) ed essenzialmente individualistica (come tipico della storiografia antica), facendo discendere la dinamica degli eventi dalla personalità e dalle scelte dei "grandi".

… e grande. Il nostro autore, anche dal punto di vista artistico, rappresenta forse il momento davvero più importante della storiografia romana, superiore - volendo - allo stesso momento liviano. Proprio di contro a Livio, in particolare, egli - scrittore veramente profondo ed informato sugli avvenimenti - è storico "contemporaneo", sia nel senso preciso del vocabolo, sia perché ha saputo rendere contemporanea anche l'età che non aveva vissuto. Anche il suo stile - volutamente controllato, rapido e conciso - è un aspetto fondante di questa sua concezione della storia, <<storia di idee più che storia di fatti>> [F. della Corte].

La decadenza di Roma. Di quest'ultima affermazione, è una testimonianza lampante il fatto che T. individui il "peccato originale" della decadenza di Roma nella svolta anticostituzionale operata da Augusto, dietro una formale facciata repubblicana, e denunci le conseguenze nefaste del sistema dinastico, pur senza rifiutare totalmente l’istituzione – oramai (come più volte ripetuto) necessaria per l’unità, l’ordine e la pace dell’Impero – del "principato" stesso.

Le fonti. Ancora aperto è, infine, il "problema delle fonti" di T.. Alcuni punti sono comunque assodati: lo storico consultò la documentazione ufficiale ("acta senatus", più o meno i verbali delle sedute; "acta diurna", contenenti gli atti del governo e notizie su quanto avveniva a corte a Roma) ed ebbe inoltre a disposizione raccolte di discorsi imperiali. Il tutto vagliato con uno "scrupolo" inusuale tra gli storici antichi. Numerose anche le fonti storiche (Plinio, Vipsiano Messala, Pluvio Rufo, F. Rustico…) e letterarie (epistolografia, memorialistica, libellistica ["Exitus illustrium virorum"]…).

Così, dopo il mito dell’utilizzo di un’unica fonte (almeno per ciascuna sezione delle opere maggiori), si è sempre più sostenuta piuttosto l’idea di una molteplicità di fonti, per giunta talune anche di opposta tendenza, ed utilizzate con una certa libertà.

N. Castaldi

III

Poi Nerone evitava di incontrarsi con lei in luoghi appartati, la lodava quando si ritirava nei suoi giardini o nella ville di campagna al tuscolo o nelle terre di Antonia, perché si prendeva un po' di riposo. Alla fine, pensando che ella sarebbe stata insopportabile ovunque si trovasse, decise di ucciderla, esitando solo su questo punto, e cioè se ucciderla tramite il veleno, un'arma o qualche mezzo violento. In un primo tempo decise per il veleno, ma se il veleno fosse stato dato al principe durante un banchetto non si sarebbe potuto attribuirlo al caso, poiché tale era stata la mortae di Britannico; e sembrava difficile corrompere i servi della donna, vigile per l'esperienza che aveva di delitti e, d'altra parte, assumendo preventivamente deglia ntidoti, proteggeva il corpo. Nessuno sapeva escogitare in che modo nascondere un delitto a mano armata,e in più Nerone temeva che colui che fosse stato scelto per un delitto così grande, si rifiutasse di eseguire gli ordini. Un piano geniale lo propose il liberto Aniceto, comandante della flotta presso Miseno, precettore dei figli di Nerone e e con reciproci sentimenti d'odio verso Agrippina. Dunque spiegò che era possibile allestire una nave, una parte della quale, staccata ad arte in mare aperto, scaraventasse in acqua Agrippina senza che se ne accorgesse.: argomentò che non c'e niente tanto capace di apportare disgrazie quanto il mare; e se fosse stata inghiottita da un naufragio, chi sarebbe stato tanto malevolo da attribuire ad un delitto ciò che i venti i flutti avevano causato? Il principe avrebbe poi innalzato un tempio in onore della defunta per fare bella mostra del suo affetto filiale.

IV

L'idea geniale fu accolta, favorita anche dalle circostanze, dal momento che Nerone celebrava presso Bala le feste quinquatrie. Qui attese Agrippina, mentre andava ripetendo a tutti che si dovevano tollerare i malumori della madre, e che gli animi si dovevano rappacificare; da ciò sarebbe sorta la voce di una riconciliazione, ed Agrippina l'avrebbe accolta con la facile credulità delle donne per le cose che suscitano piacere. Nerone, poi, sulla spiaggia, mosse incontro a lei che veniva dalla sua villa di Anzio, ed avendola presa per mano l'abbracciò e la condusse a Bauli. Questo è il nome di una villa che è lambita dal mare, nell'arco del lido tra il promontorio Miseno e l'insenatura di Baia. Era là ancorata, fra le altre navi una più fastosa, come se anche ciò volesse rappresentare un segno d'onore alla madre; Agrippina, infatti, era solita viaggiare su una trireme con rematori della flotta militare. Fu allora invitata a cena, poiché era necessario attendere la notte per celare un misfatto. È opinione diffusa che vi sia stato un traditore e che Agrippina, informata della trama, nell'incertezza se prestare fede all'avvertimento , sia ritornata a Bala in lettiga. Qui le manifestazioni d'affetto del figlio cancellarono in lei ogni paura; accolta affabilmente fu fatta collocare al posto d'onore. Coi più svariati discorsi, ora con tono di vivace famigliarità, ora con atteggiamento più grave, come se volesse metterla a parte di più serie faccende, Nerone trasse più a lungo possibile il banchetto; nell'atto poi di riaccompagnare alla partenza Agrippina, la strinse al petto, guardandola fisso negli occhi, o perché volesse rendere più verisimile la sua finzione o perché guardandola per l'ultima volta il volto della madre che andava a morire sentisse vacillare l'animo suo, per quanto pieno di ferocia.

V

Quasi volessero rendere più evidente il delitto, gli dei prepararono una notte tranquilla piena di stelle ed un placido mare. La nave non aveva percorso ancora un lungo tratto; accompagnavano Agrippina appena due dei suoi famigliari, Crepereio Gallo che stava presso il timone e Acerronia, che ai piedi del letto ove Agrippina era distesa andava rievocando lietamente con lei il pentimento di Nerone, e il riacquistato favore della madre; quando all'improvviso ad un dato segnale, rovinò il soffitto gravato da una massa di piombo e schiacciò Crepereio che subito morì. Agrippina ed Acerronia furono invece salvate dalle alte spalliere del letto, per caso tanto resistenti da non cedere al peso. Nel generale scompiglio non si effettuò neppure l'apertura della nave, anche perché i più, all'oscuro di tutto, erano di ostacolo alle manovre di coloro che invece erano al corrente della cosa. Ai rematori parve opportuno allora di inclinare la nave su di un fianco, in modo da affondarla; ma non essendo possibile ad essi un così improvviso mutamento di cose, un movimento simultaneo ed anche perché glia altri che non sapevano facevano sforzi in senso contrario, ne venne che le due donne caddero in mare più lentamente. Acerronia, pertanto, con atto imprudente, essendosi messa a gridare che lei era Agrippina e che venissero perciò a salvare la madre dell'imperatore, fu invece presa di mira con colpi di pali e di remi e con ogni genere di proiettile navale. Agrippina, in silenzio, e perciò non riconosciuta (aveva avuto una sola ferita alla spalla), da prima a nuoto, e poi con una barca da pesca in cui si era incontrata, trasportata al lago di Lucrino, rientrò nella sua villa.

VI

Qui ripensando alla lettera piena d'inganno colla quale era stata invitata, agli onori coi quali era stata accolta, alla nave che, vicino alla spiaggia e non trascinata da venti contro gli scogli, s'era abbattuta dall'alto come fosse stata una costruzione terreste, considerando anche il massacro di Acerronia e guardando la sua propria ferita, comprese che il solo rimedio alle insidie era fingere di non aver capito. Mandò perciò, il liberto Agermo ad annunciare a suo figlio che per la benevolenza degli dei e per un caso fortunato , si era salvata dal grave incidente; lo pregava, tuttavia, che, per quanto emozionato per il grave pericolo corso dalla madre, non pensasse per ora di venirla a trovare, perché per il momento lei aveva bisogno di tranquillità. Frattanto, affettando piena sicurezza, si prese cura di medicare la ferita e di riconfortare il suo corpo; un solo atto non fu in lei ispirato a simulazione, l'ordine di recare il testamento di Acerronia e di porre i beni di lei sotto sequestro.

VII

Nerone, intanto in attesa della notizia che il delitto era stato consumato, apprese che invece (Agrippina) aveva corso un pericolo così grande da non farla dubitare intorno all'autore dell'insidia. Allora Nerone, morto di paura, cominciò ad agitarsi gridando che da un momento all'altro Agrippina sarebbe corsa alla vendetta, sia armando gli schiavi, sia eccitando alla sollevazione i soldati, sia appellandosi al senato ed al popolo, denunciando il naufragio, la ferita e gli amici suoi uccisi. Quale aiuto contro di lei egli avrebbe avuto se non ricorrendo a Burro e Seneca? Perciò fece subito chiamare l'uno e l'altro che forse erano già prima al corrente della cosa. Stettero a lungo in silenzio per non pronunciare vane parole di dissuasione o forse perché pensavano che la cosa fosse giunta ad un punto tale che se non si fosse prima colpita Agrippina, Nerone avrebbe dovuto fatalmente perire. Dopo qualche momento , Seneca in quanto soltanto si mostrò molto più deciso, in quanto, guardando Burro, gli domandò se fosse mai possibile ordinare ai soldati l'assassinio. Burro rispose che i pretoriani, troppo devoti alla casa dei Cesari e memori di Germanico non avrebbero osato compiere nessun atto nefando contro la prole di lui; toccava ad Aniceto di assolvere le promesse. Costui senza alcun indugio chiese per sé l'incarico di consumare il delitto. A questa dichiarazione Nerone si affrettò a proclamare che in quel giorno gli era conferito veramente l'impero e che il suo liberto era colui che gli offriva dono sì grande: corresse subito via e conducesse con sé i soldati, deliberati ad eseguire gli ordini. Egli, poi, saputo dell'arrivo di Agermo messaggero di Agrippina, si preparò ad architettare la scena di un delitto e nell'atto in cui Agermo gli comunicava il suo messaggio, gettò tra i piedi di lui una spada e, come se lo avesse colto in flagrante, comandò subito di gettarlo in carcere, per poter far credere che la madre avesse tramato l'assassinio del figlio e che, poi, si fosse data la morte per sottrarsi alla vergogna dell'attentato scoperto.

VIII

Frattanto essendosi sparsa la voce del pericolo corso da Agrippina, come se ciò fosse avvenuto per caso, man mano si diffondeva la notizia, tutti accorrevano sulla spiaggia. Gli uni salivano sulle imbarcazioni vicine, altri scendevano ancora in mare per quanto consentiva la profondità delle acque. Alcuni protendevano le braccia con lamenti e con voti; tutta la spiaggia era piene delle grida e delle voci di coloro che facevano domande e di quelli che rispondevano; un gran moltitudine si affollò sul lido coi lumi, e come si seppe che Agrippina era incolume, tutti le mossero in contro per rallegrarsi con le, quando all'improvviso ne furono ricacciati dalla vista di un drappello di soldati armati e minacciosi. Aniceto accerchiò la villa con le sentinelle ed abbattuta la porta e fatti trascinare via gli schiavi che gli venivano incontro, procedette fino alla soglia della camera da letto di Agrippina, a cui solo pochi servi facevano la guardia, perché tutti gli altri erano stati terrorizzati dall'irrompente violenza dei soldati. Nella stanza vi erano un piccolo lume ed una sola ancella, mentre Agrippina se ne stava in stato di crescente allarme, perché nessuno arrivava da parte del figlio e neppure Agermo: ben altro sarebbe stato l'aspetto delle cose intorno se veramente la sua sorte fosse stata felice; non v'era che quel deserto rotto da urli improvvisi, indizi di suprema sciagura Quando anche l'ancella si mosse per andarsene Agrippina nell'atto di rivolgersi a lei per dirle: "anche tu m'abbandoni?" scorse Aniceto in compagnia del triarca Erculeio, e del centurione di marina Obarito. Rivoltasi allora a lui gli dichiarò che se era venuta per vederla annunziasse pure a Nerone che si era riavuta; se poi fosse lì per compiere un delitto, essa non poteva avere alcun sospetto sul figlio: non era possibile che egli avesse comandato il matricidio. I sicari circondarono il letto e primo il triarca la colpì con un bastone sul capo. Al centurione che brandiva il pugnale per finirla protendendo il grembo gridò: "colpisci al ventre" e cadde trafitta da molte ferite.

La Germania di Tacito come fonte di studio per la mitologia nordica

L'opera etnografica di Tacito, scritta con ogni verosimiglianza intorno al 98 dc. , costituisce, come è noto, una miniera di notizie riguardo la società germanica antica: le principali istituzioni socio- politiche, come pure gli usi e i costumi dei "barbari," vengono per la prima volta prese in esame con una certa attenzione senza particolari condizionamenti ideologici, conducendo anzi in più di una occasione ad un giudizio positivo sul valore e sull'integrità morale del "nemico", soprattutto in contrapposizione alla dissolutezza dei costumi della Roma imperiale. Per quel che riguarda la religione, nel capitolo IX, sulla scia di Cesare e secondo la tecnica dell'interpretatio romana, vengono nominati come divinità comuni a tutta l'etnia germanica Mercurio Marte e Ercole. L'assimilazione di Odino a Mercurio segue due diverse linee interpretative: in primo luogo Mercurio, in qualità di "psicopompo", ha il compito di accompagnare le animi dei defunti nel loro viaggio verso l'Ade, così come <Odino.htm> riceve nella Valhöll le anime dei caduti in battaglia; in seconda istanza la tradizionale astuzia del Dio romano, spesso tendente alla malizia, (tanto da farlo diventare nell'immaginario classico protettore dei ladri), ben si riconosce nella divinità capo del Pantheon nordico che, tra i suoi innumerevoli nomi, annovera anche quello di Bolverkr, "malfattore". L'affinità Ercole- Thor, riposa evidentemente sulle caratteristiche positivamente eroiche di entrambe i personaggi, sul loro continuo vagare alla ricerca di avventure, sulle numerose "prove" che entrambi debbono sostenere. Meno sicura l'identificazione di Marte con Tyr, che nelle stesse fonti nordiche è figura piuttosto evanescente: Snorri, ad esempio, nel capitolo XIII della Gylfaginning, ne parla come di un Dio non certo pacifico "che possiede la vittoria", narrando poi la sua prova di coraggio con il lupo Fenrir, in cui egli perse la mano ( per i poeti runici norvegesi Tyr è hinn einhendi áss, "il dio dall'unica mano"), ciò nondimeno il culto di questa divinità fu assai diffuso in tutto il mondo germanico, anche in area anglosassone. Le notizie più originali che Tacito fornisce sulla mitologia germanica sono contenute tuttavia nel capitolo XL della Germania e riguardano la Dea Nerthus e il suo culto, diffuso tra le sette tribù di stirpe sueba (Longobardi, Reudigni, Avioni, Angli, Varini, Eudosi, Suardoni e Nuitoni). Lo storico racconta diffusamente le pratiche rituali che le erano dedicate, senza peraltro tentare alcuna assimilazione con nessun corrispettivo romano: la descrizione del cerimoniale che accompagna in estate l'uscita della statua della Dea dal santuario che sorge su un isola, e la visita che ella compie per le campagne, riconduce chiaramente ad una figura di nume tutelare del raccolto, una divinità dal forte legame con la terra, certamente parte della tribù dei Vani. L'annegamento sacrificale degli schiavi che ne avevano lavato il simulacro prima del rientro nel santuario, richiama alla memoria il racconto di Adamo di Brema sui sacrifici umani che si svolgevano nel grande tempio di Uppsala, ove esisteva un pozzo sacro deputato a tale pratica. Il Turville-Petre ritiene che Nerthus non sia altro che il corrispettivo femminile, cronologicamente più antico, del più noto Njord, il capostipite dei Vani nonché padre di Freyr e Freya, la coppia divina tutelare della fertilità umana e terrestre.

F. Liuti

[18] Eppure il matrimonio da loro è cosa molto seria, né potresti maggiormente lodare altro aspetto dei loro costrumi. Unici infatti tra barbari, si accontentano di una sola moglie, fatta eccezione di pochi, che hanno più mogli non per capriccio, ma perché ricercati da molti a causa della loro nobilità. Non la moglie al marito, ma il marito porta la dote alla moglie. Genitori e parenti intervengono al contratto nuziale e fanno la stima dei doni: non doni scelti a soddisfare la vanità femminile e ornare la novella sposa, ma una coppia di buoi, un cavallo bardato e uno scudo con lancia e spada. In cambio di tali donativi si acquista la sposa, la quale offre a sua volta qualche arma al marito: questo scambio è per essi massimo vincolo, rito e religioso e protezione divina. Perchè la moglie non creda di essere estranea a pensieri di ardimento e ai casi della guerra, dagli stessi riti iniziali del matrimonio è avvertita che sarà compagna al marito nelle fatiche e nei pericoli e insieme a lui sopporterà ed oserà ogni cosa: questo simboleggiano i buoi aggiogati, il cavallo bardato e il dono delle armi. Così dovrò vivere, così morire, e i doni che ella riceve li trasmetterà inviolati e degni ai figli; e le nuore, ricevendoli, li trasmetteranno a loro volta ai nipoti.

[19] Perciò trascorrono la vita in sicura pudicizia, non corrotte da allettamenti di spettacoli o da eccitamenti di banchetti. Uomini e donne ignorano del pari i segreti delle lettere. Rarissimi in tanta moltitudine sono gli adulterii, e le punizione è immediata e affidata al marito: alla presenza dei parenti egli cacciadi casa la moglie ignuda con i capelli tagliati, e la sferza per tutto il villaggi. Non vi è perdono per la donna disonorata: anche se bella, giovane e ricca, non troverà marito. Il vizio là non è materia di riso e non si chiama moda il corrompere e lasciarsi corrompere. Meglio ancora quelle tribù, dove si sposano soltanto le fanciulle e una volta sola si concede ad esse di aspirare al matrimonio. Hanno così un unico marito, come un sol corpo ed una sola vita, perché alla sua morte non sopravviva altro pensiero o desiderio d'amore,e non avvenga che esse amino non il marito, ma il matrimonio. È delitto limitare il numero dei figli o uccidere i nati dopo il primogenito e più valgono là i buoni costumi che altrove le buone leggi.


[20] In ogni famiglia, ignudi e senza cura, essi crescono con quelle membra vigorose e con quei corpi che noi guardiamo con ammirazione. Ogni madre allatta i propri figli, né mai li affidano ad ancelle o nutrici. Nessuna mollezza d'educazione distingue il padrone dal servo: vivono insieme tra lo stesso bestiame, sulla stessa terra, fino a che l'età separi i liberi e il valore li distingua. Tardi conoscono l'amore, e perciò più vigorosa si mantiene la loro virilità. Né le fanciulle si sposano prima dell'età conveniente: hanno la stessa robustezza dei giovani, simile statura; vanno a nozze quando i loro corpi sono ugualmente forti e sviluppati, e i figli rispecchiano la vigoria dei genitori. Egualmente cari allo zio materno come al padre sono i figli della sorella. Alcuni anzi giudicano più sacro e più stretto questo vincolo di sangue e nel ricevere ostaggi preferiscono i nipoti, come se vincolino più saldamente l'animo dello zio e più largamente la famiglia. Ma ciascuno ha come eredi e successori i figli propri, né vi sono testamenti. Se non vi sono figli, l'eredità spetta ai parenti più prossimi, i fratelli, gli zii paterni e materni. Quanto più numerosi sono i consanguinei e gli affini, tanto più onorata è la vecchiaia: nessun vantaggio arreca la mancanza di prole.

L'incendio di Roma

38[1] - Il centro di Roma è in fiamme

   Segue poi un disastro (non si sa se dovuto al caso o alla malvagità del principe[2], poichè gli scrittori tramandarono entrambe le versioni[3]), che fu più grave e più spaventoso di tutti quelli[4] che accaddero a questa città per la violenza degli incendi.

   L’inizio si verificò in quella parte del circo[5] che è vicina ai colli Palatino e Celio, dove, a motivo delle botteghe piene di merci infiammabili, il fuoco, appena scoppiato, si fece subito violento e, mosso dal vento, afferrò il circo in tutta la sua lunghezza.

   Infatti non c’erano palazzi cinti da ripari o templi circondati da mura o qualche altra cosa che valesse ad arrestare il flagello.

   Dilagando quindi con impeto prima nei luoghi bassi e piani, poi slanciandosi verso quelli alti e di nuovo portando la devastazione nei quartieri bassi, l’incendio, con la velocità del male, superava ogni possibilità di rimedio, tanto più che la città lo favoriva con le sue strade anguste e tortuose e con i quartieri irregolari, come aveva l’antica Roma.

   Si aggiungevano a tutto ciò[6] gli strilli delle donne spaventate e l’impaccio dei vecchi e dei bimbi, quelli che cercavano di salvare se stessi e quelli che cercavano di salvare gli altri, sia trascinando infermi che fermandosi ad attenderli.

   Indugiassero o si precipitassero, tutto provocava ingombro, impedimento.

   Spesso, mentre si guardavano alle spalle taluni venivano investiti dall’incendio ai fianchi o di fronte; oppure, se riuscivano a fuggire nei luoghi vicini, anche questi subito venivano assaliti dal fuoco e quei quartieri che avevano creduto lontani dalle fiamme li trovavano avvolti nella stessa rovina.

   Da ultimo, non sapendo più che cosa dovessero evitare e cercare, ingorgavano le strade, si gettavano sfiniti per i campi; alcuni avendo perduto tutti i loro beni, perfino il vitto quotidiano, altri per l’amore verso i loro cari che non avevano potuto strappare all’incendio, si lasciavano morire, anche se avevano una via di scampo[7].

   D’altra parte, nessuno osava combattere l’incendio per le continue minacce di coloro che impedivano di spegnerlo; altri, addirittura, lanciavano apertamente qua e là tizzoni ardenti e gridavano che ne erano stati autorizzati, sia che volessero attuare più libera­mente le loro rapine, o che avessero veramente ricevuto degli ordini[8].

39 - Primi provvedimenti di Nerone e prime accuse  

   Nerone, che in quel momento si trovava ad Anzio[9], non rientrò a Roma se non quando l’incendio si avvicinò alla sua casa, che egli aveva costruito per congiungere il Palatino[10] con i giardini di Mecenate[11].

   Tuttavia non si potè impedire che sia il Palatino, sia la sua casa e tutto ciò che vi era intorno fossero inghiottiti dal fuoco.

   Ma, per andare incontro al popolo scacciato dalle sue case ed errabondo, Nerone fece aprire il Campo di Marte ed i monumenti di Agrippa[12] ed anche i suoi giardini; furono costruiti edifici improvvisati per accogliere la moltitudine senza mezzi; furono trasportati generi di prima necessità da Ostia e dai vicini municipi, mentre il prezzo del grano fu ridotto fino a tre sesterzi il moggio.

   Sebbene questi provvedimenti avessero come scopo la popolarità, tuttavia cadevano nel vuoto, perchè si era sparsa la voce che, proprio nel momento in cui la città era in preda alle fiamme, egli era salito sul palcoscenico di casa sua e vi aveva cantato la di­struzione di Troia[13], paragonando il disastro presente a quella antica sciagura[14].

40 - Scoppia un altro incendio, nuove dicerie  

   Finalmente, il sesto giorno si pose fine all’incendio alle falde dell’Esquilino, perchè furono abbattuti gli edifici per un tratto molto largo, affinchè all’incessante violenza delle fiamme si opponesse lo spazio libero e, per così dire, il vuoto del cielo.

   Ma il timore non si era ancora quietato e non ancora era tornata nella plebe la speranza, che di nuovo il fuoco si riaccese minaccioso nei quartieri cittadini più aperti: per questo, le perdite umane furono minori[15]; i templi degli dei e i portici, riservati al pubblico svago, lasciarono invece più vaste rovine.

   Questo secondo incendio[16] diede luogo a più sinistre dicerie, perchè era divampato da una proprietà di Tigellino[17] nel quartiere Emiliano e si credeva[18] che Nerone cercasse la gloria di fondare una città nuova e di chiamarla con il proprio nome.

   Effettivamente, dei quattordici quartieri, in cui Roma si divide, quattro soli rimanevano intatti, tre erano stati rasi al suolo e gli altri sette presentavano qua e là pochi resti di case sbrecciate e mezzo bruciate.

41 - La rovina delle opere d’arte

   Quante furono le case signorili, gli isolati popolari[19] ed i templi che andarono perduti?

   Non sarebbe agevole enumerarli: certo è che i più antichi monumenti della religione, il tempio che Servio Tullio aveva consacrato alla Luna, la grande ara[20] ed il tempietto[21] che l’Arcade Evandro[22] aveva dedicato ad Ercole protettore e presente, il tempio di Giove Statore[23] ed il santuario di Vesta[24], con i Penàti del popolo romano, furono di­strutti dal fuoco.

   Senza contare le ricchezze conquistate con tante vittorie e le meraviglie delle arti gre­che e infine i monumenti antichi, e ancora intatti, del genio letterario[25]; sicchè, pure in tanta bellezza della città che risorgea dalle macerie, gli anziani ricordavano molti tesori che non si potevano più recuperare.

   Alcuni osservarono che quell’incendio aveva avuto inizio il quattordicesimo giorno prima delle Kalende Sestili[26], il giorno stesso, cioè, in cui i Senoni avevano dato alle fiamme Roma, dopo averla espugnata.

   Altri spinsero il loro zelo del calcolo fino a determinare un numero uguale di anni, di mesi e di giorni.

42 - La splendida “Domus aurea”, un canale rimasto incompiuto

   Comunque sia, Nerone approfittò delle rovine della sua patria e si costruì una dimora[27], nella quale non tanto destavano meraviglia le pietre preziose e l’oro, che il lusso, da tempo ormai, ha reso comuni e banali[28], quanto i campi coltivati, gli specchi d’acqua e, come nei luoghi solitari, da una parte boschi, dall’altra spianate aperte a belle prospettive, disegnate e costruite da Severo e Celere[29], il cui audace estro pretendeva dall’arte di realizzare anche quello che la natura aveva proibito e si valevano delle risorse del principe come per un gioco.

   Infatti avevano promesso di scavare un canale navigabile dal lago Averno[30] fino alle foci del Tevere, lungo il litorale arido o attraverso i monti sovrastanti, poichè, tranne le paludi Pontine, non si trovava in quella zona altro luogo acquitrinoso che potesse ali­mentare il canale: tutto il resto è terreno secco e scosceso e, anche se si fossero potuti vincere gli ostacoli, la fatica sarebbe stata eccessiva e sproporzionata allo scopo.

   Nerone, tuttavia, siccome era smanioso di tutto ciò che sembrasse incredibile, tentò di far scavare i monti più vicini all’Averno e rimangono ancora le tracce di quella speranza andata delusa.  

43 - Roma più grande e più bella

   Frattanto quelle parti della città che restavano oltre la casa di Nerone non furono ri­costruite senza un piano regolatore o a caso[31]; ma la disposizione dei quartieri fu misurata a fil di squadra, con belle strade spaziose; fu ridotta l’altezza degli edifici, mentre si aprivano piazze e si aggiungevano portici per proteggere la facciata degli isolati.

   Questi portici Nerone promise di costruirli a sue spese e di consegnare ai proprietari i terreni sgombri dalle macerie.

   Aggiunse anche dei premi, secondo le condizioni e le possibilità economiche di cia­scuno, fissando un termine entro il quale, dopo aver ricostruito le case e gli isolati, li avrebbero ricevuti.

   Per lo scarico delle macerie aveva stabilito le paludi di Ostia e dato ordine che le navi che avessero risalito il Tevere per portare frumento lo discendessero cariche di detriti.

   Dispose poi che gli edifici stessi in certe loro parti non fossero sostenuti da travi di legno, ma rafforzati con pietra di Gabi o di Albano, perchè è inattaccabile dal fuoco; e, siccome l’acqua veniva intercettata per abuso di privati, vi pose dei custodi perchè più abbondante e in più luoghi scorresse per i bisogni di tutti.

   Ordinò che ognuno avesse in un luogo di facile accesso ciò che poteva servire a soffocare un incendio e che le case non avessero pareti in comune, ma ogni edificio fosse circondato da muri propri.

   Tali provvedimenti, accettati per la loro utilità, contribuirono anche ad abbellire la nuova città.

   C’erano tuttavia di quelli che pensavano che l’antica disposizione di Roma era stata più utile per la pubblica salute, perchè le vie strette con le case alte non lasciavano pe­ne­trare così i raggi ardenti del sole; ora invece le strade larghe e spaziose, non protette da ombra alcuna, sono bruciate da un calore più insopportabile.

44 - Sacrifici espiatori e martirio dei cristiani

   Tali[32] furono i provvedimenti suggeriti dalla prudenza umana, ma subito si fece ri­corso agli dei con riti espiatori: furono interpellati i libri della Sibilla[33] e, secondo il loro responso, si rivolsero pubbliche preghiere a Vulcano, a Cerere e a Proserpina; fu propi­ziata Giunone ad opera delle matrone, prima sul Campidoglio, poi sulla riva del mare più vicino, da cui si attinse l’acqua per aspergere il tempio e la statua della dea; infine sellisterni[34] e veglie sacre[35] vennero celebrate dalle donne che avevano ancor vivi i mariti.

   Ma nessun mezzo umano, nè largizioni del principe o sacre cerimonie espiatorie ri­uscivano a sfatare la tremenda diceria per cui si credeva che l’incendio fosse stato comandato.

   Per far cessare dunque queste voci, Nerone inventò dei colpevoli[36] e punì con i più raf­finati tormenti coloro che, odiati per le loro nefande azioni, il popolo chiamava Cristiani[37].

   Il nome derivava da Cristo, il quale, sotto l’imperatore Tiberio, era stato condannato al supplizio dal procuratore Ponzio Pilato: soffocata per il momento, quella rovinosa superstizione dilagava di nuovo, non solamente attraverso la Giudea, dove quel male era nato[38], ma anche in Roma, dove tutto ciò che c’è al mondo di atroce e di vergognoso da ogni parte confluisce e trova seguito[39].

   Dunque, prima furono arrestati quelli che confessavano la loro fede; poi, dietro indicazione di questi, una grande moltitudine di gente fu ritenuta colpevole non tanto del delitto di incendio, quanto di odio contro l’umanità[40].

   E non bastò farli morire, che fu aggiunto anche lo scherno; sicchè, coperti da pelli di fiera, morivano straziati dal morso dei cani o venivano crocefissi o dovevano essere dati alle fiamme perchè, quando la luce del giorno veniva meno, illuminassero la notte come torce.

   Per questo spettacolo Nerone aveva offerto i suoi giardini, intanto che dava un gioco circense, mescolandosi al popolino vestito da auriga e partecipando alla corsa ritto su un cocchio.

   Per questo, sebbene essi fossero colpevoli e meritassero le punizioni più gravi, sorgeva verso di loro un moto di compassione, sembrando che venissero immolati non già per il pubblico bene, ma perchè avesse sfogo la crudeltà di uno solo.

45 - Il tentativo di “suicidio” di Seneca

   Frattanto, per accumulare denaro, fu devastata l’Italia, furono sconvolte le province, i popoli alleati e quelle città che vengono chiamate libere: sotto tale rapina caddero anche gli dei, poichè furono spogliati i templi della città e fu portato via l’oro che il popolo romano in tutta la sua storia, per trionfi o per pubbliche preghiere, aveva consacrato nei momenti felici o nei pericoli.

   Ma ben altra cosa avveniva in Asia e in Grecia, dove non ci si accontentava di portar via i doni, ma si asportavano addirittura le statue degli dei, ad opera di Acrato e Secondo Carrinate, che erano stati inviati in quelle province.

   Il primo era un liberto rotto a qualsiasi nefandezza; l’altro, della filosofia greca aveva soltanto sulla bocca i precetti, ma non ne aveva assorbito nell’animo le virtù.

   Si raccontava che Seneca, per allontanare da sè l’odio del sacrilegio, avesse supplicato di potersi ritirare lontano, in campagna; ma, non avendone ottenuto il permesso, si diede per ammalato e, come se avesse una crisi di nervi, non uscì più dalla sua stanza.

   Alcuni autori hanno tramandato che un suo liberto, di nome Cleonico, gli preparò il veleno per ordine di Nerone; ma Seneca evitò il pericolo, sia che il liberto avesse tradito il segreto, sia che egli stesso ne avesse il sospetto; tanto è vero che viveva con la più grande frugalità, sostenendosi con frutti selvatici e bevendo acqua di fonte, quando la sete si faceva sentire.

46 - Disastri

   In quel tempo stesso un certo numero di gladiatori che erano a Preneste tentarono di fuggire; ma furono bloccati dal presidio dei soldati di guardia.

   E già il popolino parlava di Spartaco e ricordava gli antichi malanni, perchè il popolo è bramoso e al tempo stesso timoroso di novità.

   Poco dopo un disastro colpisce la flotta, non già per azioni di guerra (poichè mai come allora c’era stata una pace così stabile), ma Nerone aveva ordinato che la flotta dovesse tornare in Campania un determinato giorno, qualunque fosse stata la condizione del mare.

   Dunque i timonieri, sebbene infuriasse la tempesta, mossero da Formia e, mentre cercavano di doppiare il promontorio Miseno, dalla violenza dell’àfrico furono spinti con­tro le spiagge di Cuma e perdettero un gran numero di triremi ed una quantità di navi­glio minore.

47 - Prodigi

   Alla fine dell’anno si parla dovunque di prodigi che annunciano mali imminenti: colpi di fulmine più numerosi che mai e l’apparizione di una stella cometa, fenomeno che Nerone espiò sempre con sangue illustri; feti a due teste, di uomini o di altri animali, gettati sulla pubblica via o trovati nei sacrifici, nei quali era di rito immolare vittime gravide.

   Inoltre nel territorio di Piacenza, lungo la strada, era nato un vitello che aveva la testa nella coscia e gli indovini ne davano questa interpretazione: si stava preparando un altro capo per l’impero, ma non sarebbe stato solido il capo, nè occulto il complotto, perchè il vitellino era stato ostacolato nel suo sviluppo nel ventre della madre ed era stato partorito lungo la strada.


 

[1] L’anno 64 d.C. inizia al cap. 33 e termina al cap. 47.

Cannata: Tacito parla del grande incendio di Roma, il più grave dopo altri due incendi recenti, che si verificò il 18 luglio del 64 d.C.. Scoppiato improvviso in sei giorni distrusse completamente tre dei quattordici rioni della città, mentre sette di essi rimasero con pochi ruderi e solo quattro rima­sero intatti. Le fiamme si svilupparono nei pressi del Circo Massimo, tra il Celio ed il Palatino, dove si ammassavano botteghe ed “insulae” malsane in cui erano addensati i cristiani. Di qui le fiamme si diffusero rapidamente verso il Palatino, distrussero alcuni dei monumenti più antichi, quali il tempio di Servio Tullio alla Luna, l’ara ed il santuario di Evandro ad Ercole, il tempio di Giove Statore, la reggia di Numa, il santuario di Vesta; crollò anche la “Domus transitoria” che Nerone aveva fatto costruire per congiungere il Palatino con gli orti di Mecenate. Nerone, che si trovava ad Anzio, venne a Roma solo quando le fiamme minacciarono il suo palazzo, dopo di che prese provve­dimenti. Ma chi provocò l’incendio? Il caso, Nerone o i cristiani? Lo storico non seppe decidere, ma sospettò (e non solo Tacito, ma anche Plinio il V., Svetonio, Giovenale, Dione Cassio, Eutropio e Paolo Oro­sio) di Nerone che forse si servì di tale incendio per soddisfare un’aspirazione segreta (ricostruire il centro di Roma, divenuto indegno di una metropoli potente) e poi riversare la responsabilità sui cristiani, che avevano fama di nefandezze. Nerone, ricostruendo la città, avrebbe riaffermato le sue capacità di imperatore geniale e generoso e avrebbe allontanato nel popolo il ricordo del suo recente matricidio.

[2] Tacito offre l’alternativa tra il caso e la malvagia volontà del principe, escludendo i cristiani, anche se ne parla con indifferenza quando descrive la feroce persecuzione di Nerone.

[3] Lo storico non decide per nessuna delle due ipotesi: l’incendio avrebbe potuto aver inizio per caso, ma Nerone non fece niente per fermarlo.

[4] Gli incendi erano frequenti a Roma, dove le case dei poveri erano in gran parte di legno, strette le une alle altre; si ricordano numerosi incendi anche sotto Cesare e Pompeo, due sotto Tiberio.

[5] Il Circo Massimo comprendeva fino a 350.000 spettatori ed era circondato da numerosissime bot­te­ghe e baracche

[6] Alla descrizione dell’incendio si aggiunge ora quella della tragedia umana: si mescolano lamenti, grida, il vociare di chi dà e chiede consigli, il tutto creando solo confusione ed impedimento.

[7] La scena ricorda la peste di Atene descritta da Lucrezio, per quel senso di straziante disperazione che alla fine porta al rifiuto della vita.

[8] Tacito sembra attribuire il motivo di quelle azioni delittuose ai teppisti e ai disonesti, più che ad un ordine vero e proprio ingiunto da Nerone; ma “iussu”, posto nell’ultima sede del capitolo, fa riaffiorare il dubbio sulle responsabilità dell’incendio.

[9] Patria di Nerone

[10] Colle che domina il Foro romano e sul quale oggi si ammirano le rovine dei palazzi dei Cesari.

[11] Erano i giardini che Mecenate aveva lasciato ad Augusto sull’Esquilino; il palazzo che congiungeva il Palatino con questi giardini, detto “Domus transitoria”, dopo l’incendio fu ricostruito e chia­mato “Domus aurea” (Svetonio, Ner. 31)

[12] Agrippa, genero di Augusto, aveva eretto edifici monumentali nel Campo di Marte; tra gli altri le Terme, il Pànteon ed il Portico degli Argonauti.

[13] Questo aneddoto è raccontato anche da Dione Cassio (LXII, 18) e da Svetonio (Ner. 38).

[14] De Bernardis: E’ un’ulteriore conferma della mania di grandezza di Nerone, di quella sua esasperata volontà di raggiungere cose mai raggiunte da nessuno, tanto che, qualsiasi cosa facesse nel bene e nel male, volle essere sempre il più grande di tutti gli uomini del passato e del presente. La sua fantasia fervida, spesso esaltata da ideali di suprema grandezza, gli aveva ispirato un poema sull’incendio di Troia dopo un baccanale, in cui era apparso, mutato in Diòniso, su un carro gemmato e tirato da due leoni, fra uno stuolo di coribanti, di satiri e di mènadi. Quindi, esaltato dal pensiero di rifondare la città e ritenendosi un artista di valore, non è improbabile che davvero Ne­rone salisse sul palcoscenico del suo palazzo per cantare quei versi che egli stesso aveva composto sull’incendio di Troia: credeva così di emulare un antico evento e che, come dalla Troia distrutta dalle fiamme era sorta per opera di Enea e dei suoi discendenti la grande Roma, così dalle ceneri di Roma egli avrebbe fatto sorgere un’altra città. Il megalomane si congiunge all’esteta, che, deca­dente e pervertito, gode dell’incendio come di uno spettacolo grandioso e irripetibile.

[15] Una contraddizione: infatti in quei luoghi aperti e più lontani dal rogo isolato furono distrutti più monumenti con minore strage di uomini; a meno che tali monumenti, templi e portici, non fossero poco frequentati proprio perchè si trovavano in zone più aperte e quindi lontane dal centro della città.

[16] Il popolo esasperato non riesce più a tollerare il nuovo incendio ed essendo corsa voce che fosse stato ordinato, formula varie ipotesi sulle intenzioni di Nerone, che lo avrebbe favorito.

[17] D’Ambrosio: Tigellino, che fu prefetto del pretorio nel 62 succedendo a Burro, aveva vasti pos­sedimenti tra il Campidoglio ed il Quirinale. Nerone lo nominò perchè Burro era morto ed aveva bi­sogno di un uomo fidato. Tigellino ebbe da giovane varie avventure con le sorelle di Caligola, per cui Claudio, loro zio, relegò Tigellino nell’Acaia, dove l’esule si dedicò ai cavalli e alle corse del Circo. Ottenuto l’alto incarico di prefetto del pretorio, influì negativamente su Nerone, al quale consigliò di condannare con processo sommario chiunque fosse accusato o calunniato, così da poter confiscare i suoi beni dopo averlo costretto a darsi la morte: in tal modo l’imperatore avrebbe potuto reintegrare le casse dello Stato, dilapidate dalle spese abnormi che ordinava a suo capriccio. Tuttavia anche Tigellino fu colpito dalla stessa legge perchè, dopo la fine di Nerone, fu costretto da Galba a darsi la morte.

[18] Cannata: Vero o falso che ciò fosse, certo l’iniziale incuria di Nerone e le splendide costruzioni che dopo l’incendio egli fece innalzare su un’area di 120 iùgeri confiscati dopo l’incendio tra il Palatino e l’Esquilino, confermarono i sospetti che avesse voluto tale incendio. Si ricorda che nella zona tra il Palatino e l’Esquilino Nerone fece costruire, in un grande parco ricco di monumenti, il suo palazzo, cui fu dato il nome di “Domus aurea” per le statue e gli ornamenti d’oro che l’abbellivano.

[19] Grandi case d’affitto, dove si ammucchiavano i poveri, quasi prive d’igiene perchè occorreva portare l’acqua dal pozzo ai piani superiori, tanto che i piani bassi costavano molto di più di quelli alti.

[20] Era detta “Ara Maxima”, si trovava presso il Circo Massimo ed era dedicata ad Ercole.

[21] Era il tempio più antico di Ercole, posto sotto l’Aventino, ma ce n’erano molti altri dedicati ad semidio.

[22] Il tempietto fu dedicato ad Ercole da Evandro, mitico re giunto dall’Arcadia che mandò in aiuto di Enea il figlio Pallante ucciso da Turno, quando Ercole passò per il Lazio di ritorno dalla Spagna dove aveva preso i buoi di Gerione.

[23] Livio (I, 12, 6) narra che Romolo, combattendo contro i Sabini, fece voto di costruire un tempio a Giove Statore (= “che raccoglie gli eserciti e ferma la fuga”) in caso di vittoria, ma il tempio fu co­struito solo nel 264 a.C. dopo la battaglia di Lucèra.

[24] La dea Vesta trovò in Roma ed in Italia un grande culto, sia perchè era la dea della santità dome­stica, sia perchè Romolo, fondatore di Roma, era nato da una Vestale. Questo santuario di Vesta era di pianta circolare e si trovava nel Foro romano presso la “Regia”, sede del Pontefice Massimo.

[25] Si tratta dei manoscritti latini e greci custoditi nelle biblioteche pubbliche e private.

[26] Molti hanno notato che questo incendio di Roma corrispondeva a quello provocato in Roma dai Galli Sènoni nello stesso giorno di 418 anni prima, cioè nel giorno della battaglia dell’Allia, che tuttavia cadde nel 18 e non nel 19 luglio del 390 a.C..

[27] De Bernardis: E’ la “Domus aurea” costruita da Nerone nella zona centrale della città devastata dalle fiamme; era formata da una successione di edifici che chiudevano ad anello la zona ed erano dotati di ogni conforto e ricchi di ornamenti d’oro e di pietre preziose. Svetonio (Ner. 31) ricorda il suo vestibolo maestoso, i portici che si estendevano per tre miglia, un lago centrale vasto come il mare e poi, all’interno degli edifici, ori e gemme e nei triclini soffitti con tavole girevoli d’avorio che spargevano sui convitati fiori e profumi; tra un palazzo e l’altro c’erano prati, vigneti, pascoli, selve con ogni specie di animali. Anche Marziale (Spect. 2, 4) ricorda lo splendore di tale città.

[28] Roma era davvero “caput mundi” e ad essa affluivano merci e denaro da ogni parte del mondo, tanto che vi era una sovrabbondanza indicibile di ogni genere di lusso; a ciò si aggiungeva la mania di grandezza di Nerone, uomo di apprezzabili doti volte tuttavia allo spreco e alla costruzione di opere tanto grandiose, quanto impossibili.

[29] I due architetti avevano progettato di congiungere il lago di Averno con Ostia per mezzo di un ca­nale lungo 160 miglia e largo tanto da consentire il passaggio di due grosse quinqueremi in senso contrario (Svetonio, Ner. 31); Plinio il V. (Nat. Hist. XIV, 61) riferisce che per la costruzione di questo canale andarono distrutti i vigneti del famoso vino Cecubo, senza peraltro ottenere i risultati promessi.

[30] In Campania, vicino Cuma; il canale sarebbe stato lungo circa km. 250 e largo tanto che vi potes­sero passare due quinqueremi procedenti in senso opposto.

[31] La città fu quindi ricostruita secondo criteri di regolarità e funzionalità degni dell’architettura mo­derna, segno della solida organizzazione di un impero che, dovunque andasse, lasciava i segni di un’operosa attività civile ed efficiente; si nota il velato compiacimento dello storico che pure aveva tante volte accusato Nerone per le nefandezze e le follie, dimostrando, così, oltre ad un giustificato orgoglio di romano, anche una grande imparzialità nei confronti del principe.

[32] De Bernardis: Affiorano, dopo i provvedimenti di demolizione e di riedificazione, i problemi più ardui e più nascosti, quelli della responsabilità dell’incendio e quelli più comuni in tali circostanze, se cioè gli dei abbiano voluto punire colpe rimaste nascoste agli uomini, se vogliano un maggior tributo di sacrifici o se non convenga tornare ad una maggiore castigatezza di costumi e alla fede dei padri, per evitare il ripetersi di tali sciagure. Lo storico riassume tutto ciò in poche righe, in cui “et” e poi “mox” contrappongono i provvedimenti umani ai riti espiatori, rivelando un acume psi­co­logico oltre che critico degno di un grande pensatore.

[33] Narra la leggenda che questi libri furono consegnati al re Tarquinio dalla Sibilla Cumana e che in essi fosse racchiusa la storia di Roma. Custoditi nel tempio capitolino, dopo l’incendio gallico furono ricostruiti da un’apposita commissione. Difficili da intendersi, si prestavano a simulazioni, così che talvolta furono manipolati dal Senato o dagli imperatori per motivi politici: lo stesso Augusto fece coincidere il decimo anniversario del suo trionfo con la fine del secolo.

[34] Cerimonie religiose durante le quali alle immagini delle dee, poste sopra dei seggi, veniva offerto un solenne banchetto.

[35] Sono i riti sacri consegnati alla tradizione a cui si voleva restare ancora fedeli per timore di altre punizioni divine.

[36] In questo capitolo di immenso valore storico Tacito fa una rapida descrizione di coloro che da Cristo venivano detti cristiani, aggiungendo un giudizio affrettato e negativo, dovuto al suo forte senso di romanità ed alla scarsa conoscenza di questa nuova religione.

[37] Cannata: Tacito non vuole nemmeno essere garante del nome di questi prosèliti e riferisce solo una voce popolare, quindi accoglie, senza verificarle, le voci di tali nefandezze. Che ci fosse incomprensione tra il popolo romano e i cristiani ed i giudei, è testimoniato non solo da Pilato, che non capiva davvero i capi d’accusa dei sacerdoti ebraici contro Cristo, ma anche dal giudizio di Plinio il G. (Epist. X, 96). Perciò non deve sorprendere che Tacito esprima qui un giudizio complessivamente negativo su quei cristiani di cui si diceva ogni male, anche se li scagiona indirettamente dall’accusa di incendiari.

[38] Tacito aveva una profonda avversione per gli ebrei, tanto che nel V libro delle “Storie” (V, 4) lo storico accomuna cristiani ed ebrei, ritenendoli superstiziosi e facinorosi e quindi esclusi dallo spirito di romanità che invece pervadeva il suo animo e la sua opera.

[39] Lo stesso giudizio negativo espresso da Tacito nei confronti degli ebrei è ripetuto qui nei confronti dei cristiani, aggravato da una condanna morale; forse lo storico, che andava cercando i motivi più remoti della corruzione del suo popolo, li ravvisa anche nel miscuglio di genti e di culti che venivano soprattutto dall’Oriente, verso cui i Romani avevano sempre nutrito una diffidenza motivata non solo dalla grande lontananza di quei popoli così diversi, ma anche dalle insidie che venivano dagli Arabi ìnfidi e dai Parti invincibili.

[40] Tale odio era motivato dal rifiuto dei cristiani a partecipare alle cerimonie religiose pagane, alle feste ed anche alla vita pubblica, come afferma ancora Tacito in “Hist. V, 5”.

 

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Ultimo aggiornamento: 05-05-03

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