E' dell’VIII
secolo la prima testimonianza, in quella Grecia in cui, come sarebbe
accaduto in Europa due millenni più tardi, si elabora una lenta rinascita,
si hanno ricordi del passato, si raccolgono gloriose tradizioni, memorie
della lontana età micenea, pur dopo la sua scomparsa e le distruzioni
degli invasori dorici: ciò quanto è stato fatto da Omero nei poemi a lui
attribuiti a seicento anni circa dalla caduta di Troia.
Ma i tempi cambiano; l’eroe omerico,
creazione di una società aristocratica e latifondista, lascia il passo,
specie dopo il processo di colonizzazione, ad un uomo nuovo, al maestro –
artigiano, al piccolo mercante arricchito, al modesto proprietario
terriero. Di quest’epoca, pur così diversa, ma non così lontana, da quella
omerica abbiamo testimonianza diretta: è, appunto, il poema di Esiodo Le
Opere e i Giorni.
Il poeta crebbe nel "borgo selvaggio"
di Ascra, in Beozia, e sulla sua formazione esercitò un influsso notevole
l ambiente umano e fisico della regione, essenzialmente ad economia rurale
e profondamente diversa da quelle sull’Istmo e ad Occidente, animate da
grande intensità di vita e di commercio: in esso, infatti, prevalevano gli
elementi caratteristici di un’antica tradizione agreste. In particolare il
mondo dell’ascreo fu quello dei piccoli contadini liberi, un po’ figure
rappresentative della Grecia del tempo, impegnati nella spietata lotta per
la sopravvivenza e per la preservazione della libertà e della proprietà,
chiusi nel loro piccolo universo ed indifferenti allo sviluppo
dell’artigianato.
Esiodo, il quale, a fine proemio,
dice che esporrà a suo fratello Perse cose rette, introduce il concetto
con il mito delle due Discordie a cui fa seguire quello di Prometeo e
Pandora che, scrive il Colonna, "contiene la giustificazione del lavoro
umano" secondo un concetto, comune a molte religioni antiche, che la donna
ha fatto perdere all’uomo lo stato di felicità primitiva e lo ha reso
schiavo della fatica.
Alcuni studiosi circa questo mito
parlano di diffusa misoginia e, per l’opera in genere, di motivi della
satira popolare antifemminile; altri, invece, sostengono che il mito di
Pandora avrebbe avuto all’origine tutt’altro senso e che anche in Esiodo
la fanciulla sarebbe un dono prezioso e non una maledizione in quanto
Atena le ha insegnato i lavori femminili.
Ma l’ascreo, si nota, in altre parti
dell’opera dice che "chi presta fiducia ad una donna, presta fiducia ai
pirati", afferma che Pandora conosce l’arte del tessere ma riceve anche da
Argifonte nel petto "menzogne e discorsi ingannatori", esorta il fratello
ad avere una donna ma prima ancora una casa ed un bue, consiglia Perse non
a sposare ma a compare una donna affinché all’occorrenza possa star dietro
ai buoi, fa capire che l’uomo avviato al successo non deve lasciarsi
distogliere da donne volubili e "dal sedere azzimato" ma sposare una
vergine affinché possa insegnarle onesti costumi: non c’è niente di meglio
di una sposa onesta, niente di peggio di una moglie cattiva.
Che differenza con le donne di
omerica memoria!
E d’altronde lo stesso concetto di
misoginia non è certo nuovo dal momento che appare già nell’Epopeadi Gilgamesh, poema epico babilonese composto di racconti alcuni
risalenti al 3000 a.C. e messi per iscritto nel sec. VII a.C., in cui la
donna è intesa come un essere infido e pericoloso la cui bellezza sarebbe
uno strumento di rovinosa decadenza per l’uomo.
Rare sono, nei tre secoli che
seguono, le testimonianze di un processo, se e quando è avvenuto, di
emancipazione della donna.
Alla donna, d’altronde, forse
anch’essa guerriera, delle società preistoriche e rudimentali, formate di
famiglie erranti e combattenti una lotta aspra e continua per l’esistenza,
senza matrimoni e senza, quindi, vera famiglia, tocca, allorquando la
tribù errante si stabilisce in un paese, ne coltiva la terra, vuol goderne
i frutti e vive e muore in quello, tocca, ripetiamo, un’altra parte.
Rapita o comperata, ella diventa "la sposa", superiore alle concubine,
anche in quelle civiltà dove si stabilisce o perdura la poligamia; ed ecco
che il matrimonio, fondamento della famiglia, diviene un contratto di
natura sociale e religiosa: la donna di famiglia, la madre, sta in casa
per custodire la "roba" acquistata dal marito e per dargli forti figlioli,
che possano continuare la stirpe.
Nella società, invece, a cui la lotta
per l’esistenza dà carattere guerriero ed eroico, il marito e la moglie,
l’uomo e la donna, hanno doveri e diritti ripartiti in modo disuguale;
anzi, la dove la storia ci può illuminare, ed è il caso di quella greca
del V-IV secolo a.C., noi troviamo che la donna non ha già più alcun
diritto: essa è cosa del marito. E questo e nella Sparta aristocratica e
militare e nella Atena democratica e gentile: le si aprono, si, le porte
del gineceo, ma le si chiude ogni adito alla vita sociale e perfino
intellettuale; è la materia del poetare, è fonte di ispirazione, ma quando
diviene soggetto cjhe opera la si esclude.
Atene non ha mogli o madri da
segnalare all’ammirazione della posterità; la coltura dell’intelletto,
gloria della genialissima civiltà ellenica, non è diritto della donna; la
cultura femminile non si diffonde perché non è sentito il bisogno di
elevare la donna: Saffo e Corinna sono decantate a parole, ma, in pratica,
le si considera pericolose eccezioni.
Sparta e, soprattutto, Atene pagano,
dunque, lo scotto di un precedente ed eccessivamente negativo giudizio
sulle donne se anche Semonide d’Amorgo del VII secolo a.C. dice che
"Giove creò dei mali il più pestifero, le femmine: anche quando par che
giovino, son … una disgrazia"; anche se indimenticabili sono per noi
ancora oggi le figure di donne quali l’energica Clitemestra o la devota
Antigone o la Medea di Euripide; anche se la donna, specie quella
non della media borghesia, di Senofonte, vissuto quando epicureismo e
stoicismo sostengono idee di uguaglianza fra gli uomini, rivela,
eccezionalmente, una sua più ampia autonomia.
Nella Roma severa e virtuosa dei
primi secoli, quando la stirpe di Romolo, a dirla col Vico, lotta
tenacemente per conquistare poche miglia di territorio, modesta e bella è
la parte che spetta alla matrona, alla donna romana, anche se la legge non
le riconosce alcun diritto: ella è veramente proprietà del capo famiglia.
La famiglia costituisce il nucleo
della società e dello Stato romano, che condannano il celibato e mirano
all’indissolubilità del vincolo matrimoniale. La donna, vincolata alla
piena potestà del padre, passa col matrimonio sotto la potestà del marito.
La forma più completa del matrimonio
è quella detta perconfarreationem, dal panis farreus, un
pane preparato con l’antico cereale, il farro, che viene mangiato dagli
sposi, appena entrati nella nuova casa. Accanto a questo rito di
matrimonio, sempre seguito dal patriziato, si hanno altre due forme meno
solenni: la coemptio, una vendita simbolica con la quale il padre
cede la figlia allo sposo mediante un compenso pecuniario, e l’usus,
una specie di sanatoria di una condizione di fatto, per cui diventa moglie
la donna che abbia abitato con un uomo per un anno intero senza
interruzione di tre notti consecutive. Con questi due ultimi modi si
raggiungono le iustae nuptiae, dando al marito quel diritto di
protezione e di tutela, ma spesso non di padronanza assoluta, che si dice
manus.
Ma la moglie, sebbene sia sotto la
potestà del marito, a cui obbedisce come figlia, filiae loco, in
effetti è la regina della casa ed una conferma l’abbiamo dai nomi
onorifici con i quali è chiamata: mater familias, matrona, domina.
Le si cede il passo e chi le rivolga insulti o parole sconvenienti è
punito severamente, anche con la pena capitale; partecipa in ogni attività
alla vita familiare, governa la casa, sorveglia ancelle e schiavi, fila la
lana nell’atrio della casa ed il marito la consulta in tutti gli affari,
non delibera nulla di importante senza aver prima udito il consiglio della
moglie per la quale mostra sempre la più alta considerazione ed il massimo
rispetto.
Quegli uomini semplici ed austeri,
dunque, onorando nella donna la custode del costume, a lei affidano la
prima educazione del bambino, il primissimo insegnamento orale, e di essa
fanno in certo modo la sacerdotessa del focolare domestico, così come
appunto a donne, alle vestali, affidano la custodia del fuoco sacro,
simbolo dei destini di Roma.
E a queste nobili vergini, consacrate
dal pontefice massimo e rispettanti per un trentennio il voto di castità,
che godono di un enorme prestigio ed hanno addirittura il privilegio di
graziare i condannati a morte, secondo la leggenda riportata da uno
scrittore del IV secolo d.C., Eutropio, appartiene Rea Silvia.
La morte della madre di Romolo,
condannata dallo zio ad essere seppellita viva per aver infranto il voto
ed essere stata resa gravida da Marte, ci mostra in un certo senso ancora
l’assoluta sottomissione della donna ai voleri dell’uomo.
E alla figura di Rea Silvia, quale è
pervenuta ad Eutropio nella versione indigena della leggenda non possiamo
non collegare quella dell’Ilia enniana, allorché si fa del primo
leggendario re di Roma un nipote o pronipote di Enea. Medesima la
funzione: entrambi Vestali; medesimo il personaggio; diversa la fine:
quest’ultima, per comando di Amulio re di Alba, sarà precipitata nel
Tevere.
Ma già la figura di Tullia, così come
ci viene presentata dalla leggenda, rivela, eccezionalmente, larghi
margini di autonomia. Non solo Tullia partecipa all’assassinio del padre,
ma si vuole, addirittura, che col cocchio ne abbia calpestato il cadavere.
è una figura quasi unica per questo periodo.
Per la terza volta una donna compare
sulla scena ed è presa a pretesto per spiegare avvenimenti storici di
importanza capitale: è Lucrezia, moglie di Collatino e nobile matrona.
Una donna della nobiltà di Lucrezia
non può tollerare né che alcuno attenti alla sua fedeltà coniugale, né
l’affronto arrecatole, né tantomeno rimanere in vita dopo quanto ha
subito.
La sua morte segnerà la fine della
monarchia dei Tarquini e del potere regio a Roma.
Il tipo paradigmatico della donna
onesta, casta, quella che "vive in casa, filando la lana", tesa a
conservare la santità della fede coniugale, ritorna sovente, d'altronde,
in quest’alba della romanità, si alzi dalla tomba la voce di una madre o
parli il sepolcro di una bella donna.
Pur condizionata in età arcaica dalla
presenza del padre e del marito, la posizione della donna romana,
tuttavia, risulta diversa secondo anche le classi sociali e, così, mentre
le donne del popolo, afflitte da infiniti problemi quotidiani, continuano
a rimanere come sono sempre state, cioè solerti collaboratrici del marito
nei piccoli commerci e nella coltivazione dei campi, quelle dei ceti più
elevati, con il passar del tempo, si "liberano".
E del resto, anche ai primordi
dell’urbe, in quell’assoluto isolamento, in cui sono vissute le mogli
greche, lontane dalla vita e dal mondo, non lo sono state quelle romane. A
paragone della donna greca, rinchiusa nel proprio gineceo, quella romana,
anche per una certa influenza della civiltà etrusca e l’alta
considerazione sociale di cui godeva la donna presso questo popolo (nelle
epigrafi etrusche è precisata anche l’origine materna, oltre a quella
paterna: non così in quelle latine), è sempre stata più libera.
Man mano il concetto di donna onesta,
legato allo stare in casa, al filar la lana e all’accudire i figli diventa
un pallido ricordo.
Non è più la moglie "schiava" del
marito, ma, così come leggiamo già in Stazio, il contrario: "… è la nemica
mia, ed il suo schiavo io, io, nato libero". Ci si chiede addirittura se
la moglie non sia davvero troppo molesta e se il suo schioccare "subito un
bacio" al marito "a stomaco digiuno" non nasconda un secondo fine.
Scompare anche la donna modesta, e
certo non si può definire tale quella di Afranio che si autodefinisce
"giovane e belloccia anche".
Questa intraprendenza della donna
questo suo processo di emancipazione (coincidente con un generale decadere
della moralità) culmina in quel periodo di grave crisi politica ed
istituzionale per lo Stato romano che è il secolo I a.C.. è il secolo
delle guerre civili, caratterizzato dalla disordinata lotta per il potere
da parte di uomini come Mario e Silla, Cesare e Pompeo, Antonio ed
Ottaviano, che, con l’appoggio del proletariato militare, povero di
coscienza di classe, si creano un potere personale, alterando l’equilibrio
degli istituti tradizionali; siamo alla fine della repubblica.
È un’età, il secolo I a.C.,
antitradizionalista: Roma diventa la metropoli di uno stato sovranazionale;
si segna il distacco tra società civile e società politica; cambiano la
cultura ed il ruolo dell’intellettuale; si teorizza l’otium
letterario come attività altrettanto seria di quella politica; la cultura
si fa aristocratica; si verifica una rottura tra lingua scritta e lingua
popolare; entra in crisi la religione tradizionale e cominciano a
penetrare i culti orientali, le dottrine mistiche, e, al loro seguito, pur
se applicato inizialmente solo nei casi gravissimi contemplati dalla
legge, viene introdotto l’istituto del divorzio, destinato, però, ad
essere sotto Augusto all’ordine del giorno.
Antitadizionalista il secolo;
anticonformiste anche le figure femminili in una Roma in piena crisi di
valori, quando anche la morale è in completa dissoluzione.
Un primo abbozzo di quadro della
corruzione delle matrone romane ce lo offre già Sallustio. Lo storico,
nella sua prima monografia, distingue, tra le donne partecipi alla
congiura di Catilina, la nobilissima Sempronia, appartenente alla nota
gens Cornelia, e ce ne fa un ritratto in cui si riflette tutto un
mondo galante e vizioso, moventesi nell’insidioso e sottile gioco della
politica dell’ultimo periodo della Repubblica. Anche se colta ed
intelligente, Sempronia è soprattutto ambiziosa e spregiudicata: Sallustio
la condanna e la distingue sempre più dall’ormai antica immagine delle
donne romane dedite alla cura della casa.
Bellissime, colte, raffinate,
volubili, imprevedibili, superbe, indipendenti, spregiudicate, le donne
dell’epoca conducono una vita disordinata e splendida, unica loro regola
il capriccio, giocano con gli uomini come il gatto con il topo, cono le
più forti, lo sanno e ne profittano.
Tale è la Lesbia di Catullo, da
identificarsi presumibilmente con la colta e bellissima quanto corrotta
sorella del tribuno Clodio, moglie di quel Quinto Metello Celere della cui
morte per avvelenamento sulla donna permane ancora il sospetto.
Nei carmi del veronese si passa dalla
visione estatica di Lesbia alla gioia esultante; dai primi angosciosi
dubbi sulla fedeltà di lei alle paci brevi e gioiose pur venate di
malinconico scetticismo, alla certezza di un distacco che non si potrà più
colmare; nei suoi versi domina l’ebrezza, la passione corrisposta che teme
soltanto la fugacità della vita umana, la schiettezza dei sentimenti, ma
anche l’amara certezza dei primi sospetti, i primi angosciosi
interrogativi, il ricordo delle promesse, e, in quest’ultimo caso, si
colorano di mestizia, una mestizia in cui è racchiusa tutta la triste
esperienza che il poeta ha fatto della donna, della sua leggerezza e della
sua perfidia.
Dell’invito a godere la vita, senza
preoccuparsi del domani, concetto del resto diffuso in questo secolo (e
non solo in Orazio), se ne fa banditrice ancora una colta una donna, una
ostessa, sira per giunta ed "esperta nel muovere al ritmo delle nacchere
il fianco flessuoso".
Né mancano consigli a chi si accinga,
"soldato nuovo", alle prime fatiche d’amore: sono di Ovidio, un poeta
interprete e beniamino della società mondana romana, in pieno contrasto
con la politica culturale di Augusto, ma sommamente abile nell’indugiare
sulla difficile e complessa psicologia femminile, facendo dell’Ars
amatoria una specie di summa erotica destinata alla società
elegante della Roma del tempo.
Ma questo secolo non è popolato solo
da ambiziose Sempronie, da spregiudicate ed indipendenti Lesbie, da
ostesse licenziose: l’intraprendenza, che la donna romana ha acquistato
grazie alla sua parziale autonomia, può portarla anche ad essere di valido
aiuto all’uomo. È il caso di una matrona sconosciuta la quale si spoglia
dei propri gioielli per darli al marito costretto a fuggire nel corso
delle guerre civili: si legge nel brano, cosa stana, un elogio che un
marito tesse alla moglie che gli è stata vicina nei momenti più difficili.
La vita, conclude, egli la deve non meno alla pietas della consorte
che alla clementia di Cesare Ottaviano.
Facciamo seguire, pur non dimentichi
delle bellissime e vive figure di Diodone, Camilla e Sofonisba, per
schiettezza, suggestione di contenuto e sittile liricità, un altro elogio,
notevole monumento epigrafico: la Laudatio Turiae… diffidens
fecunditati tuae et dolens orbitate mea… non desideravi altro, se non,
per la nostra ben nota concordia, di cercarmi e di scegliermi una moglie
degna di me, assicurandomi, che i figli che fossero per nascere li avresti
considerati come nostri, e che non avresti diviso i nostri patrimoni, … ma
saresti stata per me in seguito come una sorella o come una suocera".
Né potremmo trovare ad essa miglior
commento di quello dell’Ussani: "Come la prima volta per noi nasce nella
letteratura romana la donna moderna amorosa con la Lesbia di Catullo, con
questa supposta Turia nasce la prima volta la moglie moderna, affettuosa
compagna del marito…".
La "donna moderna amorosa" e la
"moglie affettuosa compagna del marito" come, in età repubblicana ed ancor
più in età imperiale, si sono andate emancipando, aggiungendo man mano al
fascino della femminilità quello più raffinato della cultura, così
continuano su questa strada negli "anni" successivi. Certo non manca chi
si volga con nostalgia ai tempi dell’antica Roma quando l’ingenuità e la
semplicità erano ancora intatte, pensando che è stata proprio la cultura a
minare al moralità della donna: uno di questi è Giovenale. Il poeta
considera addirittura la donna saccente peggiore di quella smodata nel
mangiare e nel bere; ama Giovenale la donna semplice, odia "quella che si
rifà di continuo al Metodo di Palemone, senza sbagliare mai una regola di
lingua e, ostentando le sue anticherie, cita versi a lui sconosciuti…".
È questo il ritratto di un tipo di
donna, pronta ad evidenziare la sua presunta cultura, molto comune; come
comune è la "modestia" della Fabulla di Marziale che si autodefinisce
bella et puella et dives.
Donne che è possibile incontrare
frequentemente in ogni tempo: nella Roma di ieri, ma anche in quella di
oggi; è il concetto di "donna" che è cambiato.
Del resto già Seneca a proposito
della virtù non fa alcuna distinzione tra i due sessi: entrambi hanno
egual forza, una stessa disposizione al bene, la medesima capacità di
sopportare il dolore, e, per lenire il dolore di Marcia per la morte del
figlio suicida, il poeta non può che portarle esempi di donne virtuose,
entrambe di nome Cornelia: l’una la madre dei Gracchi, l’altra moglie di
Livio Druso.
Anzi, aggiunge Tacito, a volte una
donna può mostrarsi anche più coraggiosa dell’uomo: la liberta Epicari,
quando è scoperta la congiura del nobile Pisone, esponente
dell’aristocrazia sanatoria, contro Nerone e tutti, senatori e cavalieri,
si affrettano a parlare, o, come Seneca, ad aprirsi le vene, sopporta
senza lamenti la tortura e non rivela i nomi dei compagni. Un
comportamento tanto più degno di ammirazione in quanto venuto da una
liberta, mentre i "nati liberi" non esitano ad accusare le persone a loro
più care.
Il processo di emancipazione della
donna si esaurisce con il diffondersi del Cristianesimo: è con esso,
infatti, che si eleva alla prima condanna contro la donna.
Il Cristianesimo, comparso nel mondo
romano e destinato a vincerlo, depone come germi in seno alla società due
principi opposti tra loro: da questi la sorte delle donne viene per secoli
alternativamente ora favorita ora peggiorata la nuova dottrina insegna che
il male è venuto nel mondo per opera di Eva, e che il genere umano è
dannato per lei, per la donna fonte del peccato, creatura sempre
pericolosa, che i santi fuggono come demonio tentatore. E da qui certi
usi, certe prescrizioni consacrate dalle consuetudini e dalla Chiesa, e la
condizione umiliante fatta alla donna nella famiglia.
Erede di Eva essa ne porta le colpe e
ne subisce la maledizione; il suo corpo tentatore è uno strumento di
Satana: non si trucchi, non si curi, perché la bellezza più grande è nella
castità, sia sottomessa al marito, resti in casa e fili la lana (si
ritorna così al vecchio concetto pagano).
S. Paolo, S. Agostino, S. Tommaso,
non nascondono affatto la loro poca simpatia per la donna che giudicano
inferiore all’uomo, non soltanto da lui diversa. Ella non entri in casa se
non con il capo coperto, per rispetto agli angeli; non parli nelle
assemblee; non beva mai vino; sia sottomessa al marito, come Sara ad
Abramo, come Rebecca ad Isacco: divenuta madre, non le sia concesso
rientrare nel consorzio dei fedeli, se la benedizione del sacerdote non ne
avrà cancellato le impourità.
Sia pure onorato il matrimonio
cristiano, ma solo stato di perfezione, è, secondo i padri, il celibato,
che rende gli uomini simili agli angeli. Se il dogma del peccato originale
imperasse da solo sul mondo cristiano, la donna sarebbe morta per la
civiltà; tuttavia, al di là di frequenti invettive, la influenza che la
donna ha acquistato nel mondo romano impedisce la sua completa
mortificazione.
E uno splendido esempio di santità
rappresenta per i fedeli l’alta figura di Perpetua, che si sacrifica per
la fede, rifiutando le esortazioni del vecchio padre a rinnegare il
proprio credo. Christiana sum risponde Perpetua al procuratore
addetto a presiedere il dibattito et (eam) damnat ad bestias: la
esecuzione avviene il 7 marzo del 203 d.C. nell’anfiteatro di Cartagine
nel corso dei festeggiamenti per il compleanno del figlio dell’imperatore,
Geta.
Oltre a Perpetua anche Paola,
espiando con la penitenza la colpa del proprio sesso serve alla
propagazione della fede.
Nobile matrona romana, ispirata da S.
Girolamo, abbandona le comodità di una vita ricchissima per fondare con la
figlia Eustochio un monastero di vergini in Palestina: le fanciulle, pur
appartenendo a diverse classi sociali, in esso sono tutte eguali; unico
adornamento un panno di lino per asciugarsi le mani.
Terminiamo questa breve rassegna
considerando "il più bel monumento" che mai sia stato consacrato alla
memoria di una donna, di una madre: il passo descrivente le ultime ore
della vita terrena di Monica, madre di Agostino, e testimoniante l’epilogo
del dramma spirituale del santo, il passaggio in quest’ora di dolore dalle
tenebre del male alla luce della verità.
La crisi della famiglia nel mondo
greco – romano
Oggi è quasi inevitabile, parlando
della famiglia, associarvi la parola crisi nella sua accezione negativa,
tuttavia, è opportuno sottolineare che tale crisi non è un fenomeno solo
di nostri giorni, in quanto si è verificato anche in epoche precedenti.
Risalendo alla storia greca, notiamo
che, proprio immediatamente dopo l’età di Pericle e dopo la guerra
Peloponnesiaca, subentrò la prima crisi della famiglia nel mondo
occidentale. Platone, preoccupato di questa disintegrazione, cercò di
offrire nelle "Leggi" un rimedio per sanare la dissoluzione del sistema
familiare, dissoluzione che, secondo il filosofo, era dovuta al fatto che
il particolare aveva già usurpato l’universale. Nel libro VI, capitolo XVI
delle "Leggi", egli affermava che non bisogna sfuggire nozze povere, né
creare matrimoni ricchi ma preferire in tali unioni partiti leggermente
inferiori e aspirare a nozze utili allo Stato e non rispondenti ad un
personale piacere. "Ognuno è, in genere, portato di natura verso ciò che
più gli assomiglia donde per tutto lo Stato nasce ineguaglianza di
ricchezze e di temperamenti; e questa è appunto l’origine di tutti quei
mali che noi vogliamo evitare al nostro Stato, e che in parte capitano
alla maggioranza degli altri… il nostro sforzo deve essere inteso,
incantando, a persuadere coloro che si sposano che l’aver figli ben
equilibrati è cosa che deve essere da tutti tenuta in maggior conto che lo
sposarsi con un partito di pari ricchezza, cui ci spinge insaziabile sete
di beni, e che bisogna orientare diversamente chi nel matrimonio si da
cura della sola ricchezza, senza tuttavia costringerlo con una legge
scritta". Nel capitolo XVII, il filosofo proponeva che se qualcuno viveva
senza alcun legame sociale e oltrepassava i 35 anni venisse "…ogni anno
colpito da una tassa di cento dramme se appartiene alla prima classe, di
70 se alla seconda, di 60 se alla terza, di 30 se alla quarta, … Chi anno
per anno non paga sia condannato a versare il decuplo della tassa… Alla
resa dei conti ogni cittadino celibe dovrà rispondere di tale pagamento…
sia inoltre totalmente privato del rispetto che i più giovani gli
dovrebbero…". Circa il divorzio, nel libro XI affermava che se marito e
moglie non andavano d’accordo si tentasse di conciliarli "ma se le anime
dell’uno e dell’altro sono troppo fluttuanti, tentino di cercare il tipo
che all’uno e all’altra si confaccia".
In seguito, con l’età ellenistica, la
filosofia stoica, assumendo l’apatia e la rassegnazione a norme di vita,
portò alla separazione dell’uomo della comunità in cui viveva, dalla
famiglia in cui era nato. Pertanto, "la società ellenistica si era
dissolta. Essa presenta lo squallido quadro di una civiltà in
decomposizione dalla morte di Aristotele (322 a.C.) al 90 d.C." (R.N.
Anshen).
Nell’epoca romana, la famiglia
appariva come un organismo essenzialmente giuridico in quanto il padre
possedeva diritto assoluto sulle persone e sulle cose; lo "Ius vitae ac
necis" ne costituiva la manifestazione più evidente. Era una famiglia di
tipo patriarcale e poggiava su solide basi morali. Però, nell’età
ciceroniana (85 – 31 a.C.), i vari eventi storici interni ed esterni di
Roma portarono alla crisi delle vecchie istituzioni, coinvolgendo anche
l’istituto familiare. In tale periodo, i divorzi, rarissimi in origine,
andarono via via facendosi più frequenti, giustificati da cause sempre
meno gravi. La patria potestas venne messa in discussione, e, per
la prima volta, la donna acquistò un indipendenza reale, anche se non
giuridica, e, uscendo dall’ambito familiare, cominciò a partecipare alla
vita politica e intellettuale. A testimonianza della crisi dell’istituto
familiare in tale periodo, citiamo l’ultima lettera, datata 1° ottobre 47
a.C., che Cicerone scrisse alla moglie Terenzia dal suo esilio:
Tullius s.d. Terentiae suae
In Tusculanum nos venturos putamus
aut Nonis aut postridie. Ibi ut sint omnia parata (plures enim fortasse
nobiscum erunt, et, ut arbitrot, diutius ibi commorabimur). Labrum si in
balineo non est ut sit. Item cetera quae sunt ad victum et ad valetudinem
necessaria. Vale. K. Oct. De Venusino.
(Ad. Fam. XIV,20)
Tullio augura buona salute alla
sua Terenzia
Ritengo che piangerò nella villa
di Tiusculo o il 7 ottobre o il giorno dopo. Procura che tutto là sia in
ordine (infatti non sarò solo e, a quanto ritengo, mi tratterrò per un po’
di tempo. Fai in modo, qualora non vi sia, che la vasca sia posta nel
bagno. Parimenti provvedi a tutto ciò che attiene il vivere e lo stare
bene. Alle Calende di Ottobre dal territorio di Venosa.
Dal tono molto freddo di tale
lettera, si deduce che sono ormai lontani i tempi dell’affettuosa
intimità. Si delineava già, infatti, la rottura tra i coniugi che doveva
sfociare nel divorzio, pochi mesi dopo il ritorno di Cicerone a Roma, nel
46 a.C. …
Durante l’età imperiale, si accentuò
la crisi della famiglia. Nel 18 a.C., Ottaviano presentò la famosa Lex
Iulia de maritandis ordinibus, diretta a ricostruire la società
secondo i più rigidi principi morali. Infatti, la legge sanciva l’obbligo
al matrimonio, vietava l’unione dei senatori con liberte (schiave
affrancate) e prevedeva una serie di misure allo scopo di aumentare il
tasso demografico: si stabilivano, infatti, premi per i cittadini con
famiglie numerose e pene pecuniarie per i celibi e i coniugi senza figli.
I celibi restavano esclusi da vari diritti.
Le donne al terzo figlio ricevevano
parità di diritti conb gli uomini. Ottaviano promulgò, inoltre, la Lex
Iulia de pudicitia et de coercendis adulteriis, che riguardava il
libertinaggio ed il lusso licenzioso. Contro gli adulteri e le adultere
erano sancite gravissime pene economiche. Alla base vi era la volontà di
rinsaldare l’istituto familiare e la società uscita disfatta dalle guerre
civili.
Successivamente, con il Cristianesimo
si ebbe una nuova concezione della famiglia, vivente in conformità agli
insegnamenti del Cristo, e, quindi, un totale capovolgimento dei valori.
Questa famiglia si presentava come una società naturale fondata sul
matrimonio, elevato a sacramento e sulla procreazione. Essa era una
società costituita essenzialmente da genitori e figli, con una finalità
esclusivamente etico–religiosa, retta, nel reciproco comportamento dei
suoi membri, dalla pietas e dall’amorevole considerazione di ogni
relazione umana. Dominava in essa un vincolo d’amore, anziché giuridico;
la personalità di ciascuno dei suoi membri era rispettata. Comunque "fu
proprio il carattere trascendente e infinito del Cristianesimo a produrre
una condizione precaria per il gruppo familiare. La famiglia doveva essere
conseguita socialmente, ma trascesa religiosamente, poiché solo coloro che
unisce la comunione spirituale formano la vera famiglia dell’uomo" (R.H.
Anshen).
La nuova concezione cristiana era
destinata ad essere presente da allora innanzi, in ogni momento
dell’evoluzione della civiltà occidentale. La patria potestà cessò
pertanto di costituire in fondamento dell’istituto familiare, da potere
totale assoluto nell’interesse del gruppo, si trasformò in un dovere di
protezione e di correzione (paterna pietas) cui faceva riscontro il
dovere di obbedienza da parte del figlio, nel cui interesse la patria
potestà era esercitata.