La Napoli,
percorsa da Eracle nel suo mitico viaggio attraverso la
Penisola, come leggiamo in Dionigi ed in Diodoro del sec. I
a.C….
In Ant. I, 41-44 DIONIGI fa
giungere, quasi nei panni di un conquistatore, dall’Iberia Eracle
con la sua flotta, nel corso della 10^ fatica contro Gerione, in un
approdo tra Napoli e Pompei, dove l’eroe, dopo aver sacrificato alle
Divinità la decima del bottino, fonda Ercolano per, poi, salpare
verso la Sicilia.
DIODORO, Bibl. V, 21: "Dopo che
si fu allontanato dal Tevere, percorrendo il litorale di quella che
oggi è chiamata Italia, Eracle giunse nella pianura di Cuma, dove
narrano l’esistenza di uomini eccezionali per forza fisica e
conosciuti per il loro disprezzo delle leggi, uomini che si
chiamavano Giganti. Questa pianura, poi, era detta Flegrea dal colle
che anticamente emanava fuoco senza posa, alla stessa maniera
dell’Etna siciliano: ora si chiama Vesuvio e conserva molte tracce
del suo essere stato attivo in tempi antichi."
|
...la Napoli,
fonte d’ispirazione, sempre nel sec. I, sia per
Virgilio negli anni che videro il Mantovano perdere il podere paterno,
sia per Orazio…
VIRGILIO, Georg.
IV, 563-566: "In quel tempo me Virgilio nutriva la dolce
Partenope, sereno fra opere di un’oscura quiete: io che
rappresentavo la poesia dei pastori, e, audace di giovinezza, te
cantai, o Titiro, all’ombra di un ampio faggio." ORAZIO,
Epodo V, 43-44 |
...la Napoli,
considerata già "celeberrima", "frequentatissima",
nelle Metamorfosi ovidiane, oltre che per il clima anche per le
manifestazioni di cultura e d’arte…
...la Napoli,
culla dell’epicureismo con Filodemo e Sirone,
descritta, circa due secoli più tardi, mirabilmente da Stradone…
STRABONE, Geogr. V, 4, 7: "...c’è
Neapolis, città dei Cumani [...]. Viene indicata sul posto la tomba
di una delle Sirene, Partenope, e vi si tiene un agone ginnico,
secondo un antico oracolo. [...] Numerosissime tracce del modo di
vivere greco si sono mantenute là, così come i ginnasi, le efebie,
le fratrie e i nomi greci, sebbene la popolazione sia romana. Ai
giorni nostri hanno luogo ogni cinque anni, in questa città, dei
Giochi sacri comprendenti gare di musica e di ginnastica, che durano
più giorni e che sono degni di rivaleggiare con le feste più celebri
della Grecia." |
...la Napoli,
stimata "otiosa" da Stazio per la
dolcezza del clima e per la cordialità degli abitanti, ma anche "docta"
da Marziale e Columella soprattutto per la ricorrenza
periodica degli Augustali, una specie di festival musical-canoro "ante
litteram" reso successivamente ancora più importante dalla
partecipazione di Nerone…
STAZIO, Silvae,
IV, 83 ss.: "Colà l’inverno è mite, l’estate temperata
dalla frescura ed un mare sereno sfiora le coste con onde tranquille"
MARZIALE, Epigr. V, 78
STRABONE, V, 4, 7
SVETONIO, Aug. 98: "[...] passò
quindi a Napoli, e [...] assistette alle gare ginniche quinquennali,
istituite in suo onore [...]"
SVETONIO, Nero, 20: "[Nerone] Si
esibì a Napoli per la prima volta e, quantunque il teatro venisse
scosso da un terremoto, non smise di cantare, finchè non ebbe finito
il suo pezzo. In quello stesso teatro cantò parecchie volte e per
vari giorni. [...] Commosso dagli elogi in musica che gli facevano
gli Alessandrini da poco affluiti a Napoli, ne fece venire altri da
Alessandria affinchè [...] lo sostenessero mentre cantava, dopo aver
fatto insegnare loro vari tipi di applausi." |
Napoli,
la mite Partenope, la città fondata dalla Sirena figlia
dell’Achelòo ricordata anche da Dante, già in Silio Italico
è simbolo di tutta una tradizione strumentale e canora, menzionata, sì,
con fastidio da Seneca il Filosofo, ma destinata a vivere fino ai
nostri giorni.
SILIO ITALICO:
Puniche XII, 27 SENECA IL GIOVANE, Epist. ad Luc. 76, 4:
"[…] chi va alla casa di Metronatte deve passare davanti al
teatro dei Napoletani. È sempre pieno zeppo e vi si giudica con
grande attenzione chi sia un buon flautista; il suonatore di tromba
greco ed il banditore hanno anch’essi una grande folla di
ammiratori."
DANTE, Purgatorio XIX, 19-21:
"<<Io son>>, cantava, <<io son dolce serena,
che’ marinari in mezzo mar dismago;
tanto son di piacere a sentir piena!>>" |
"Il dialetto napoletano, uno dei più musicali
d’Italia, deve la sua notorietà", leggiamo in un saggio del De Mura,
"oltre che alla propria dote espressiva, alla sua canzone, da sempre
messaggero di grazia e di poesia".
Ed essa,
secondo il Fierro, attestata già nel 1200 quando
sulle colline del Vomero le ragazze invocavano il sole affinchè uscisse
per asciugare le lenzuola stese,
Jesce sole, jesce sole,
nun te fa cchiù suspirà.
Siente maje che le ffigliole
hanno tanto da prià"
|
soffocata sotto Federico II allorchè era proibito
cantare per le strade,
sorta a nuova vita nel secolo di Alfonso V con freschi
canti popolari piuttosto che con gli strambotti ed i rispetti, pure in
vernacolo, della corte aragonese,
Chiena de nfamità, faoza nascisti,
chiena de nfamità ti generasti […] –
L’acqua m’assuga e lo sole me nfonne,
tutte le ccose meje contrarie vanno […]
Un rispetto
Pensando ad ognie mio grave peccato,
cossì come me trovo ad una grotta,
agio sentuto che tu sì arrivato, […]
Uno strambotto
A do’ so’ ghiute tant’abbracciamiente?
Tante carizze ca me stive a fare? […]
|
pervenuta ad un successo europeo con le cinquecentesche
villanelle o villotte,
Velardiniello
Voccuccia de no pierzeco apreturo,
Mussillo da na fico lattarola,
S’io t’aggio sola dinto quist’uorto,
[…]
Sbruffapappa
O Dio! Che fosse ciàola e che bolasse
a ssa fenestra a dirte na parola;
ma non che me mettisse a na gajola. […]
Dell’Arpa
Si havessi tantillo de speranza
la pena mia non saria tanto dura […]
|
vide la sua nascita ufficiale
nell’epoca d’oro dell’italica cultura musicale,
nell’età barocca, nel secolo del melodramma ma anche della completa
fioritura della poesia dialettale che favorì l’avvicinarsi dei poeti al
popolo e che seppe trarre vita da esso trovandone ispirazione per i loro
canti.
Veri e propri canti popolari, piuttosto che "canzoni
popolaresche", sono da intendersi, come fa il Di Massa, sia…
Michelemmà
1 3 5
Li Turche se ne vanno… Viato a chi la vence… E’
mpietto porta na…
Michelemmà Michelemmà Michelemmà
Michelemmà Michelemmà Michelemmà
A reposare. Co sta figliola. Stella diana.
2 4 6
Chi pe la cimma e chi… Sta figliola ch’è figlia…
Pe fa morì l’amante…
Michelemmà Michelemmà Michelemmà
Michelemmà Michelemmà Michelemmà
Pe lo streppone. Oje de Notare. A duje a
duje.
|
…che…
Fenesta che lucivi e mo’ non luci
Fenesta che lucive e mo’ non luci,
sign’è ca Nenna mia stace ammalata.
S’affaccia la sorella e me lo dice:
Nennella toja è morta e s’è atterrata.
Chiagneva sempe ca dormeva sola, ah!
Mo’ dorme co li muorte accompagnata!
Mo’ dorme co li muorte accompagnata!
Va’ nella chiesa e scuopre lo tavuto,
vide Nennella toja comm’è tornata.
Da chella vocca che n’asceano sciure,
mo’ n’esceno li vierme, oh, che piatate!
Zi’ Parrucchiano mio abbice cura, ah!
na lampa sempe tienece allumata!
na lampa sem pe tienece allumata!
|
Indubbiamente, ricorda il Vajro, "la grande
stagione non era venuta ancora. Ed anche quella che comunemente si indica
come tale, cioè i primi decenni del sec. XIX, fu una esaltazione
superficiale, dovuta più ad una moda appena romantica, che frutto di una
cosciente valutazione. Nei memoriali dei viaggiatori del Sette e del primo
Ottocento sono copiosi gli accenni alla poesia popolare ed alla canzone.
Ma si andava alla ricerca dei fogli volanti con le modeste canzonette
anonime, si chiedeva di ascoltare <<Te voglio bene assale>>, che era
un’interpretazione letteraria quasi turistica, e la si preferiva a <<Fenesta
ca lucive>>, un’autentica pagina di poesia; ma piacevano i motivi di
valzer, mentre la mesta melodia dell’antico canto di <<Fenesta ca lucive>>
appariva fastidiosa con il suo triste argomento della visita al cimitero".
Tuttavia la farragine delle canzonette, che si vendevano addirittura sui
marciapiedi, costituì un ponte ideale verso la scoperta della
napoletanità.
Intanto sorgevano gli astri di Di Giacomo, lirico puro,
e di Russo, avvilito come semplice autore di macchiette da café
chantant, e nei loro versi si staglia, e diventa universale, la Napoli
multiforme e caleidoscopica, "piena di misteriosi rumori" (Helm)
o "cupa, con silenzi da addormentati" (Sartre), "uno di
quei luoghi limite dove conta l’oggi" (Muller) o "pronta a
servirsi del passato per capire il presente" (Scorza), "una
città in cui convivono senza vergogna ricchi e poveri" (Caravaglios)
od individualistica al punto che "ognuno fa sentire la sua voce" (Scotellaro).
Il feudalesimo effettivo di Normanni, Svevi, Angioini,
Aragonesi, Spagnoli, Borboni, e quello solo "sulla carta" apparente
dei Napoleonidi, il sacrificio di tanti suoi figli in nome di una libertà
spesso solo vagheggiata, le "collere" secolari del Vesuvio,
ma anche,
l’incanto dei paesaggi, la laboriosità e l’inventiva
delle genti, l’ingegno di pensatori ed artisti,
hanno fatto sì
che qui, a dirla con Raffaele Di Giacomo, "la
vita paia nascere dalla morte e sembri che ad essa, da un attimo
all’altro, stia per tornare… ma, intanto, l’incanto dura: si sente che
qua, a Napoli, tutto è come un infinito nuotante nella luce, un infinito
che travolge spirito e sensi".
Tante Napoli, quindi, nel tempo, nel nostro secolo ed
ancora oggi; tante "napoletanità", allora, quanto varie e diverse
sono le emozioni di chi le esprime e di chi si trova a viverle.
Ed al centro di questo turbinio di sensazioni c’è
l’amore, quell’amore positivo, tanto vicino all’"éros" del "Simposio"
platonico, "che offre a tutti la ragion d’essere, che permette",
afferma il Robin, "alla nostra anima di riacquistare le ali".
Quest’amore a Napoli è vita: aleggia dovunque, anche
nelle canzoni e nei versi delle poesie, perché è nei bassi dei quartieri e
nelle case borghesi, nei mille bambini che sciamano nei rioni popolari e
nei vecchi pescatori luciani, nella timida liceale e nello sfrontato
ragazzotto dai jeans sgualciti.
FENESTA VASCIA
Fenesta vascia e patrona crudele
Quanta suspire m’aje fatto jettare
M’arde sto core comm’a na cannela
Bella quanno te sento annommenare.
Oje piglia la sperienza de la neve
La neve è fredda e se fa maniare
E tu comme s tanta aspra e crudele?
Muorto me vide e non me vuò ajutare?
Vurria addeventare no picciuotto
Co na langella ghire vennenno acqua
Pe mme ne ì da chiste palazzuotte
Belle femmene meje a chi vò acqua?
Se vota na figliola da la ‘ncoppa
Chi è sto ninno che va vennenno acqua?
E io risponno co parole accorte
So lagreme d’ammore, e nun è acqua!
ERA DE MAGGIO
Era de maggio e te cadeano ‘nzino
A schiocche a schiocche li cerase rosse:
Fresca era l’aria e tutto lu ciardino
Addurava de rose a ciente passe.
Era de maggio; io no, nun me ne scordo.
Na canzone catavemo a ddoje voce:
Cchiù tiempo passa e cchiù me n’allicordo,
Fresca era l’aria e la canzone doce.
E diceva: Core, core!
Core mio! Luntano vaje;
Tu me lasse e io conto ll’ore,
Chi sa quanno turnarraie!
Rispunneva io: "Turnarraggio
Quanno tornano li rrose,
Si stu sciore torna a maggio
Pure a maggio io stonco ccà".
E so turnato e mo’, comm’a na vota,
Cantamme nzieme la canzone antica;
Passa lu tiempo e lu munno s’avota;
Ma ammore vero no, nun vota viche.
De te bellezza mia, m’annammuraje,
Si t’allicuorde, nnanze alla funtana,
L’acqua la dinto nun se secca maje
E ferita d’ammore nun se sana.
Nun se sana; ca sanata
Si se fosse, gioia mia,
Mmiezo a st’aria mbarzamata
A guardarte io nu’ starria!
E te dico: Core, core!
Come mio!turnato io so’;
Torna maggio, e torna ammore
Fa de me chello che vuò!
COMME FACETTE MAMMETA? [Capaldo -
Gambardella]
Quanno màmmeta t’ha fatta,
quanno màmmeta t’ha fatta,
vuò sapè comme facette?
Vuò sapè comme facette?
Pe’ ‘mpastà sti ccarne belle…
pe’ ‘mpastà sti ccarne belle…
tutto chello che mettette…
Tutto chello che mettette?…
Ciento rose ‘nappucciate
dint’’a màrtola mmiscate:
latte e rrose, rrose e latte
te facette ‘ncopp’’o fatto.
Nun c’è bisogno ‘a zingara
p’addivinà Cuncè,
comme t’ha fatto màmmeta
‘o saccio meglio ‘e te.
E pe’ fa sta’ vocca bella
e pe’ fa sta’ vocca bella
nun servette ‘a stessa addosa…
nun servette ‘a stessa addosa…
Vuò sapè che ‘nce mettette?…
Vuò sapè che ‘nce mettette?…
Mo te dico tutto cosa
mo te dico tutto cosa:
‘nu panàro chino chino
tutt’’e fravule ‘e ciardino
miele, zucchero e cannella…
Te ‘mpastaie sta vocca bella.
Nun c’è bisogno ‘a zingara
p’addivinà Cuncè,
comme t’ha fatto màmmeta
‘o saccio meglio ‘e te.
E pe’ fa sti ttrezze d’oro
e pe’ fa sti trezze d’oro
mamma toia s’appezzentette
mamma toia s’appezzentette.
Bella mia tu qua’ muneta?
Bella mia tu qua’ muneta?
Vuo’ sapè che ‘nce servette?
Vuo’ sapè che ‘nce servette?
‘Na miniera sana sana
tutta fatta a filigrana
‘nce vulette, pe’ sti ttrezze
ch’’a vasà nun ce sta prezze.
Nun c’è bisogno ‘a zingara
p’addivinà Cuncè,
comme t’ha fatto màmmeta
‘o saccio meglio ‘e te.
‘O SURDATO ‘NNAMMURATO [Califano - Cannio]
Staje luntana da stu core
a te volo cu’ ‘o pensiero:
niente voglio e niente spero
ca tenerte sempre affianco a me!
Si’ sicura ‘e chist’ammore
comm’i’ so’ sicuro ‘e te…
Oje vita, oje vita mia,
oje core ‘e chistu core,
si’ stata ‘o primm’ammore:
‘o primmo e ll’ultimo sarraje pe’ me!
Quant’’a notte nun te veco,
nun te sento int’’a sti braccia,
nun te vaso chesta faccia,
nun t’astregno forte mbraccia ‘a me?
Ma scetànneme ‘a sti suonne,
mme faje chiagnere pe’ te…
Oje vita, oje vita mia,
oje core ‘e chistu core,
si’ stata ‘o primm’ammore:
‘o primmo e ll’ultimo sarraje pe’ me!
Scrivo sempe ‘e stà cuntenta:
io nun pienzo che ‘a te sola:
nu pensiero mme cunsola;
ca tu pienze sulamente a me…
‘A cchiù bella ‘e tutt’’e belle
nun è maje cchiù bella ‘e te!
Oje vita, oje vita mia,
oje core ‘e chistu core,
si’ stata ‘o primm’ammore:
‘o primmo e ll’ultimo sarraje pe’ me!
REGINELLA [Lama – Bovio]
Te sì fatta ‘na vesta scullata
nu cappiello cu ‘e nastre e cu ‘e rrose…
Stive ‘nmiezo a tre o quattro sciantose,
e parlave francese… è accussì?
Fuie l’atriere ca t’aggio ‘ncuntrata?
Fuie l’atriere, a Tuledo, gnorsì…
T’aggio voluto bene a te…
Tu m’è voluto bene a me!
Mo nun ‘nce amammo cchiù,
ma, ‘e vvote, tu,
distrattamente,
pienza a me!
Reginè, quanno stive cu mmico,
nun magnave ca pane e cerase:
Nuie campavamo ‘e vase! E che vase
tu cantave e chiagnive pe’ me…
E ‘o cardillo cantava cu ttico:
<<Reginella ‘o vò bene a ‘stu Re>>.
T’aggio voluto bene a te…
Tu m’è voluto bene a me!
Mo nun ‘nce amammo cchiù,
ma, ‘e vvote, tu,
distrattamente,
parle ‘e me!…
Oi cardillo, a chi aspiette stasera?
Nun ‘o vide? Aggio aperta ‘a caiola,
Reginella è vulata, e tu, vola!
Vola e canta, nun chiagnere ccà!
T’è truvà ‘na patrona sincera,
ca è cchiù degna ‘e sentirte ‘e cantà.
T’aggio voluto bene a te…
Tu m’è voluto bene a me!
Mo nun ‘nce amammo cchiù,
ma, ‘e vvote, tu,
distrattamente,
chiamme a mme!…
AUMMO AUMMO
Catarì
Tu nun jesce maje da casa pecchè maje te fanno
ascì
Catarì
Sto murenno pe st’ammore, nun me firo cchiù e
suffrì
Catarì
Ce le a di’ a sti genitori mo’ l’avessero capì
Catarì
Nun te pozzo vasà, ie me sento e murì
Qualche notte zitto zitto, chiano chiano a pero e
chiummo
Aummo Aummo!
Saglie ‘ncoppo quatto quatto, mazzecanno scevigum
Aummo Aummo!
Nun me appiccio a sigaretta ca si no se vere o
fummo
Aummo Aummo!
Si ce ’ncoccia qualceduno che ammuina po’ venì
Catarì
E si trovo a porta ‘nchiusa sai che faccio pe
trasì?
Catarì
Tengo pronto tutt’o’ piano pe fa chello ca vogl’ie
Catarì
Ce vo sotto o capo e cane, ce vo a scala pe saglì
Catarì
T’aggia a forza vasà, nun me firo e suffrì.
Qualche notte zitto zitto, chiano chiano a pero e
chiummo
Aummo Aummo!
Saglie ‘ncoppo quatto quatto, mazzecanno scevigum
Aummo Aummo!
Nun me appiccio a sigaretta ca si no se vere o
fummo
Aummo Aummo!
Si ce ’ncoccia qualceduno che ammuina po’ venì
Catarì
………………
Catarì
………………
Catarì
Nun te pozzo vasà mo me sento e murì
Catarì
T’aggia a forza vasà nun me firo suffrì.
Aummo, Aummo, Aummo
VOCE ‘E NOTTE
Si sta voce te sceta int’a nuttata
Mentre t’astrigne o sposo tuoje vicino
Statte scetata se vuò sta scetata
ma fa vedè ca duorme a suonno chino
Nun ghie vicino e lastre pe fa spia
Pecchè nun può sbaglià sta voce è a mia
È a stessa voce e quanno tutt’e dduje
Si sta voce ca chiagne int’a nuttata
Te sceta o sposo, tu nun avè paura
chillo ca è senza nomme se ne và
Dille ca dorme e ca se rassicura.
Dill’accussì: chi canta int’a sta via
O sarrà pazzo o more e gelusia
Starrà chiagnenno qualche ‘nfamità
Canta isso sulo ma che canta a’ fa’.
TAMMURRIATA NERA
Io nun capisco ‘e vvote che succede
e chello ca se vede nun se crede
è nato nu criaturo, è nato niro
e a mamma o’ chiamma Ciro, sissignore, o’ chiamma
Ciro
Seh, gira e vota, seh,
seh, gira e vota, seh,
ca tu ‘o chiamme Ciccio o ‘Ntuono
ca tu ‘o chiamme Peppe o Ciro,
chillo ‘o fatto è niro niro comm’acchè.
S’’o còntano ‘e cummare chist’affare
sti cose nun so rare, se ne vedono a migliare
e vvote basta sulo ‘na guardata
e ‘a femmena è rimasta sott’’a botta mprissiunata
Seh, ‘na guardata, seh,
seh, ‘na mprissiona, seh,
va truvanno mò chi è stato
c’ha cugliuto buono ‘o tiro:
chillo ‘o fatto è niro niro, niro niro comm’acchè.
E dice ‘o parularo, embè parlammo
pecchè si ccà parlammo chistu fatto c’’o spiegammo
addò pastine ‘o grano, ‘o grano cresce
riesce o nun riesce semp’è grano chello ch’esce.
Meh, dillo a mamma, meh,
meh, dillo pure a me
cònta ‘o fatto comm’è ghiuto
Ciccio, ‘Ntuono, Peppe, Ciro
chillo ‘o fatto è niro niro, niro niro comm’acchè.
‘E signurine ‘e Capodichino
fanno ammore cu ‘e marucchine
‘e marucchine se vòttano ‘e lenze
e ‘e signurine cu ‘e panze annanze.
E levate ‘a pistuldà
uhbé e levate ‘a pistuldà
e pisti pakin mama
e levate ‘a pistuldà.
Ajeressera a piazza Dante
‘o stommaco mio era vacante
si nun era p’’o contrabbando
mò già stevo ‘o Campusanto.
Sigarette papà
caramelle mammà
biscuit bambino
dduie dollar’’e signurine.
A Cuncetta e a Nanninella
lle piacevano ‘e caramelle
mò se prentano pe’ zetelle
vanno a fernì ncopp’’e burdelle.
American espresso
damm’’o dollaro ca vaco ‘e pressa
si no, vene ‘a pulisse
mette ‘e mmane addò vò jsse.
‘E signurine napulitane
fanno ‘e figlie cu ‘e mericane
nce vedimmo ogge o dimane
mmiezo Portacapuana.
E Ciurcillo ‘o viecchio pazzo
c’ha vennuto ‘e matarazze
e ll’America pe’ dispietto
ce ha scippato ‘e zizze ‘a pietto.
‘O SARRACINO
Tene ‘e capille ricce, ricce,
ll’uocchie ‘e brigante e ‘o sole ‘nfaccia,
ogni figliola s’appiccia si ‘o vede ‘e passà.
Na sigaretta ‘mmocca – na mano dint’ ‘a sacca
E se ne va smargiasso pe’ tutt’’a città.
‘O sarracino, ‘o sarracino,
tutt’e femmene fa suspirà.
?e bello e faccia è bello e core
sape fa ammore!
E’ malandrino, è tentatore,
Si ‘o guardate ve fa annammurà.
E na bionda s’avvelena,
E na bruna se ne more
E’ veleno o calamita
Chisto e femmene che ll’ fa
‘O sarracino, o’ sarracino, bello guaglione
E’ bello e faccia, è bello e core,
Tutt’e femmene fa annammurà
‘O sarracino, ‘o sarracino, bello guaglione,
‘O sarracino, ‘o sarracino,
tutt’e femmene fa suspirà
E’ bello e faccia è bello e core
Sape fa ammore!
E’ malandrino, è tentatore,
Si ‘o guardate ve fa annammurà.
Ma na rossa, ll’ata sera
Cu nu vaso e cu na scusa
T’arrubato anema e core!
Sarracino nun si cchiu tu!
DICITENCELLO VUIE [Falvo - Fusco]
Dicitencello a ‘sta cumpagna vosta
ch’aggio perduto ‘o suonno e ‘a fantasia
ca ‘a penzo sempe,
che è tutta ‘a vita mia…
I’ nce ‘o vvulesse dicere,
ma nun nce ‘o ssaccio dì!
‘A voglio bbene,
a’ voglio bbene assaie,
dicitencello, vuie
ca nun m’’a scordo maie!
E’ ‘na passiona
cchiù forte ‘e ‘na catena,
ca me turmenta ll’anema
e nun me fa campà!
Dicitencello ch’è ‘na rosa ‘e maggio,
ch’è assaie cchiù bella ‘e ‘na jurnata ‘e sole.
D’’a vocca soja,
cchiù fresca d’’e vviole
i’ già vulesse sentere
ch’è nnammurata ‘e me!
‘Na lacrema lucente v’è caduta…
diciteme ‘nu poco a che penzate?
Cu’ st’uocchie doce
vuie sola me guardate…
Levàmmece ‘sta maschera,
dicimmo ‘a verità:
Te voglio bbene,
te voglio bbene assaie.
Si’ ttu chesta catena
ca nun se spezza maie!
Suonno gentile,
suspiro mio carnale,
te cerco comm’all’aria,
te voglio pe’ campà!
MALAFEMMENA [Totò]
Si avisse fatto a n’ato
chello ch’e fatto a mme,
st’ommo t’avesse acciso,
e vuò sapè pecchè?
Pecchè ‘ncopp’a sta terra
femmene comme a te
nun ce hanna sta pe’ n’ommo
onesto comme a mme!…
Femmena,
tu si na malafemmena…
Chist’uocchie ‘e fatto chiagnere…
Lacreme e ‘nfamità.
Femmena,
si tu peggio ‘e na vipera,
m’e ‘ntussecata l’anema,
nun pozzo cchiù campà.
Femmena,
si ssoce comme ‘o zucchero
però sta faccia d’angelo
te serve pe ‘ngannà…
Femmena,
tu si ‘a cchiù bella femmens,
te voglio bene e t’odio,
nun te pozzo scurdà…
Te voglio ancora bene.
Ma tu nun saie pecchè,
pecchè l’unico ammore
si stata tu pe me…
E tu pe nu capriccio
tutto ‘e distrutto, ojnè.
Ma Dio nun t’o perdone
chello ch’e fatto a mme!…
Femmena,
tu si na malafemmena…
Chist’uocchie ‘e fatto chiagnere…
Lacreme e ‘nfamità.
Femmena,
si tu peggio ‘e na vipera,
m’e ‘ntussecata l’anema,
nun pozzo cchiù campà.
Femmena,
si ddoce comme ‘o zucchero
però sta faccia d’angelo
te serve pe ‘ngannà…
Femmena,
tu si ‘a cchiù bella femmens,
te voglio bene e t’odio,
nun te pozzo scurdà…
‘NA TAZZULELLA ‘E CAFE’
Na tazzulella e cafè
Acconcia a vocca a chi nun po’ sapè
E nuje tirammo annanzi co ‘e dulure ‘e panza
E invece ‘e c’aiutà c’abboffano ‘e cafè
Na tazzulella ‘e cafè
Ca sigaretta a coppa pe’ nun vede’
S’aizano ‘e palazze fanno cose ‘e pazze
Ci girano ce avotano ce jengono e’ tasse
E nuje passammo e vuaje
E nun putimmo suppurtà
E chiste invece e da na mano
Ce allisciano, se vattono
Se mangniano a città.
CU’ MME
Scinne cu’ mme, nfunno ‘o mare a truvà
chello che nun tenimmo cà.
Viene cu’ mme e accummiènce a capì
comme è inutile sta ‘a suffrì.
Guarda stu mare che c’nfonne e paura:
sta cercanno e ce ‘mparà.
Ah! Comme se fa
a dà turmiento a l’anema
ca vo’ appurà
si tu nun scinno ‘nfunno
comme può sapè.
No! Comme se fa
a te piglià sultanto
‘o male ca ce sta
e po’ lascià stu core
sulo miezo a via.
Saglie cu’ mme e accummience a cantà
sulo ‘e nnote che l’aria dà.
Senza guardà tu continui a vulà
mentre ‘o viento ce porta là
addò ce stanno ‘e parole cchiù belle
e tt’’e piglie pe te ‘mparà.
Ah! Comme se fa
a dà turmiento a l’anema
ca vo’ appurà
si tu nun scinno ‘nfunno
comme può sapè.
No! Comme se fa
a te piglià sultanto
‘o male ca ce sta
e po’ lascià stu core
sulo miezo a via.
|
|