Letteratura Greca

 

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Cenni storici sui secoli III / I

Lo smembramento dell’impero di Alessandro non segnò la fine di una straordinaria creazione, ma diede l’avvio alla formazione degli Stati ellenistici e della civiltà ellenistica, la quale costituì un’importante tappa nello sviluppo della civiltà mediterranea.

Mentre la civiltà della città-stato entrava definitivamente in crisi, si affermava la monarchia ellenistica, che riprendeva la tradizione teocratica dei sovrani orientali, arricchendola del senso organizzativo e razionalistico dei Greci.

Le città greche, ormai sottoposte quasi tutte al controllo macedone, cercarono di costituire nuovi organismi come la Lega Etolica e la Lega Achea, capaci di meglio fronteggiare i potenti regni ellenistici.

Queste formazioni pluricittadine, che costituirono l’ultimo prodotto della fantasia politica greca, si sforzavano di superare una volta per tutte il tradizionale spirito municipale dei Greci, pur conservando alcuni aspetti della tradizione della "pòlis".

I regni ellenistici ebbero vita piuttosto breve, salvo l’Egitto che si mantenne indipendente fino al 30 a.C., perchè tutti tra il II ed il I secolo a.C. finirono sotto il dominio di Roma; questo fatto fece sì che la civiltà romana ereditasse i caratteri fondamentali della civiltà ellenistica e li trasmettesse all’avvenire.

L’Ellenismo non fu solo un fenomeno culturale, ma riguardò ogni possibile campo dell’attività umana; la realtà politica, giuridica ed economica venne profondamente imbevuta dallo spirito della civiltà greca che in questi secoli si dimostrò elastica e facilmente assimilabile, a differenza di altre civiltà più antiche che, come quella egiziana o persiana, per la loro rigidezza non erano mai state capite ed assorbite da altri popoli.

La monarchia ellenistica è caratterizzata dallo statalismo, cioè dalla tendenza del potere centrale a controllare tutti gli aspetti della vita del paese ed in particolare dell’economia; questo fatto, tipico specialmente del Regno d’Egitto, fu reso possibile dal forte senso organizzativo che animava la civiltà greca.

Le maggiori filosofie dell’età ellenistica, l’epicureismo e lo stoicismo, esaltarono la figura del "saggio" che trova nella sua interiorità e nella sua vita privata le ragioni della propria esistenza.

Perciò queste filosofie furono spesso critiche nei confronti della società e delle sue leggi, ed i sovrani ellenistici preferirono, quindi, incoraggiare le scienze specialistiche i cui cultori non erano indotti ad occuparsi dei grandi problemi etico-politici.

I culti orientali influenzarono potentemente la religione greca, in quanto suscitarono i problemi dell’aldilà, interiorizzarono l’esperienza religiosa, facendo così nascere prospettive e concetti originali come quello di "peccato" e di "purezza morale"; questa nuova sensibilità religiosa prepara il terreno alla futura diffusione del Cristianesimo.

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323 a. C.: muore Alessandro Magno e il suo sconfinato impero viene diviso fra i suoi generali; si vengono a creare numerosi regni di varie dimensioni, ma accomunati dalla stessa lingua, il greco della koinh dialektoV. Tra loro s’instaura una fitta rete di scambi commerciali e su questo nuovo assetto politico si sviluppa una nuova cultura; questa cultura verrà chiamata Ellenismo.

Regno di Macedonia: il più stabile dei regni ellenistici, perché mancava la contrapposizione tra l'aristocrazia, classe dominante, ed il popolo, dualismo tipico della maggior parte degli altri regni. Vi regnò la dinastia degli Antigonidi. Il cammino verso l'acculturamento fu molto lineare e conseguenza della stabilità politica, favorita anche dal fatto di essere lo stato originario d’Alessandro Magno.

Regno di Pergamo: al centro dell'attuale Turchia, era piccolo ma ricco di miniere d'argento. Vi regnò la dinastia degli Attalidi, ma questa si esaurì ben presto. L'ultimo re, Attalo III, fu molto lungimirante; prevedendo che il suo regno sarebbe stato diviso tra gli stati confinanti, lo lasciò in eredità a Roma. Infatti, il regno di Pergamo fu lunico a non essere stato conquistato dai Romani. A questo riguardo, va rilevato che l'unico autore greco a capire che la Grecia doveva cedere il passo a Roma fu Polibio, che scrisse un’opera (le Storie) in cui esaltava la grandezza di Roma e della sua costituzione.

Regno di Siria: i Seleucidi controllavano una vasta zona, corrispondente più o meno alle attuali Siria, Giordania e Palestina. L'economia, erede di quella fenicia, era basata sui commerci marittimi.

Regno d’Egitto: politicamente visse un dualismo fortissimo, favorito dalla sua posizione geografica di pressoché totale isolamento; il faraone, appartenente alla dinastia dei Tolomei, era considerato un dio vivente, non un semplice imperatore, e veniva appoggiato dall’unica casta istruita, quella dei sacerdoti, mentre le masse popolari erano totalmente tagliate fuori dal potere politico e da buona parte di quello economico. In seguito ad una fitta rete di scambi commerciali via terra e soprattutto via mare, Alessandria (il porto principale) divenne la città più importante dell'ellenismo. Il resto dell'Egitto rimase in una condizione d’isolamento e d’arretratezza, sempre tenuto sotto stretto controllo dalla mano del faraone. Da un punto di vista culturale, di tutto l'Egitto solo la città d’Alessandria fu interessata dall'ellenismo, ed anzi ne divenne uno dei poli più importanti, in quanto fu sempre proiettata verso il mare e verso gli scambi commerciali (l’Egitto era un grande esportatore di frumento) e culturali con gli altri regni ellenistici.

Le date da ricordare

323 - morte di Alessandro Magno e prima divisione dell’Impero

322 - Antipatro doma la ribellione dei Greci

301 - definitiva sistemazione dei regni ellenistici

235 - riforme di Cleomene a Sparta

222 - Antigono Done sconfigge Cleomene a Sellasia

215 - inizia la prima guerra di Roma contro Filippo V: durerà dieci anni

200 - seconda guerra macedonica e sconfitta di Filippo V a Cinocefale

196 - Roma proclama la libertà di tutte le città greche

189 - Roma sconfigge Antioco III di Siria

168 - Roma sconfigge Perseo di Macedonia a Pidna

148 - la Grecia è provincia romana

146 - Roma sconfigge la Lega Achea; distruzione di Corinto

63 - Roma si impadronisce del Regno di Siria

30 - Roma conquista l’Egitto

L’ELLENISMO

Con tale termine si indica il periodo che intercorre tra il 323, anno della morte di Alessandro Magno, ed il 31, anno della battaglia di Azio: esso si divide nei periodi "alessandrino" e "romano".

Alessandro Magno aveva creato un impero universale come conseguenza della fusione eterogenea di popoli diversi etnicamente, religiosamente e politicamente, e la sua morte segnò, quindi, il tramonto di tale impero e la nascita, sulle sue rovine, di regni affidati ai successori di Alessandro, ai Diàdochi.

Si formarono quattro regni: il regno d’Egitto, sotto i Tolomei; il regno di Siria, sotto i Selèucidi; il regno di Macedonia, sotto gli Antigònidi ed il regno di Pergamo, sotto gli Attàlidi.

Il più importante fu il regno d’Egitto che con i Tolomei raggiunse un ampio sviluppo: in esso c’era un’organizzazione centralizzata del potere, in cui il sovrano era il padrone della terra e controllava praticamente tutto, dalle esportazioni alla moneta.

Simile all’Egitto era la Siria, dove pure c’era un re che era visto come coordinamento di tutto e come un faraone, coadiuvato nell’amministrazione del potere da strateghi: in essa la terra veniva data in usufrutto a casati e famiglie che, così, diventavano centri di potere economico con la possibilità di poter stipulare autonomamente trattati.

L’Egitto, fiorentissimo, raggiunse l’apice culturale con i Tolomei sotto i quali sorsero un’accademia che ospitava dotti ed eruditi (il "Mousèion"), una biblioteca in cui erano conservati i doppioni dei libri del Mouseion (il "Serapèion") e la grande biblioteca di Alessandria, che giunse a possedere 700.000 volumi sotto i vari suoi direttori: Zenodoto di Efeso, Apollonio Rodio, Eratòstene, Aristofane di Bisanzio, Apollonio detto "Eidògrafo" (= "classificatore di generi letterari").

Se l’impero universale di Alessandro Magno è una sintesi di popoli diversi, allora la prima caratteristica dell’Ellenismo è la disgregazione: letterariamente l’Ellenismo è un momento di sintesi dell’umanità, non di creatività; la crisi degli ideali politici determina, infatti, la decadenza della tragedia e dei generi letterari tradizionali greci che quei valori rappresentavano.

Conseguenza di questa crisi di valori letterari e sociali è anche l’assenza di grossi autori e la tendenza, quindi, dei letterati a riunirsi in accademie, come quella della "Plèiade".

Anche la commedia cambia; non è più aristofanesca, ma diventa borghese, attenuata, introspettiva, soprattutto con Menandro.

Nel momento in cui cadono i valori tradizionali e, quindi, non c’è più una produzione con finalità generali e comuni, cambia anche il pubblico che, ora, non è più la massa, ma l’"élite", gli eruditi.

Gli autori, non essendo capaci di originalità per la decadenza dei valori, ripiegano sul passato, su antichi miti, sulla ricerca del particolare mitologico, sulla ricerca eziologica: ricercano, dunque, attraverso questi temi, l’effetto, lo stupore, del pubblico.

Accanto alla produzione d’"élite" abbiamo una produzione che viene fuori dal passaggio del cittadino greco a suddito, che spinge questi autori ad abbandonare la realtà ed a ripiegare nell’interiorità.

Anche se continua ad esistere una letteratura ricreativa, una poesia realistico-popolareggiante, si può dire che l’unica forma letteraria ellenistica veramente valida ed originale sia la poesia bucolico-pastorale con Teocrito, il suo principale esponente.

Il termine "Ellenismo" venne usato per la prima volta dal tedesco Droysen nella sua opera "Storia dei Greci".

Il Droysen intese contrapporre il termine "Ellenismus", che secondo lui indicava i rapporti tra i Greci ed i popoli dell’impero di Alessandro Magno, a "Romanismus", che invece indicava i rapporti tra i Romani ed i popoli barbari germanici.

Circa il termine "Ellenistés", lo riprese dagli "Atti degli Apostoli", in cui appare in due parti: nella prima si afferma che a Gerusalemme esisteva un contrasto tra "Ebràioi" ed "Ellenistài", mentre nella seconda si dice che l’apostolo Paolo corse un pericolo di morte perchè gli "Ellenistài", considerandolo un traditore, volevano ucciderlo.

Nel primo passo c’è, dunque, la contrapposizione tra "Ebràioi" ed "Ellenistài", e da ciò il Droysen ritenne che il termine "Ellenistài" indicasse gli Ebrei che parlavano il greco in contrapposizione a quelli che parlavano solo la loro lingua, l’aramaico.

Ma questa è una valutazione impropria, perchè il Droysen considera il problema solo sotto il punto di vista dotto, mentre in realtà la contrapposizione tra "Ellenistài" ed "Ebràioi" non esisteva.

Infatti Giovanni Crisòstomo disse che "Ellenistài" indicava la lingua e, più in generale, coloro che, pur non essendo Greci di origine, parlavano il greco, come poi affermò anche il Salmosius.

Se l’Ellenismo è un periodo di mescolanza di popoli linguisticamente, e sotto molti altri aspetti, diversi, il termine "Ellenistài" indica allora un linguaggio comune, con finalità pratiche di comunicazione fra etnie diverse.

Il Niebhur, a tal proposito, studiò un’epigrafe detta "di Adulis", località dell’Eritrea (o anche "Monumentum Adulitanum"), divisa in due parti: nella prima si loda un sovrano egizio, Tolomeo Evergete (= "Benefattore"); nella seconda in prima persona il sovrano parla della sua impresa in Arabia.

Sappiamo che questo documento fu compilato da schiavi fuggitivi egizi, appartenenti al popolo dei Troglodìti, che lo redassero in un linguaggio egiziano con annotazioni in greco.

Ecco allora perchè il Niebhur parlò di un greco etiopico, necessario, come altri simili, per comunicare con popolazioni locali.

Ciò dimostra l’esistenza di un greco non classico, che aveva finalità pratiche di comunicazione: allora gli "Ellenìzontes" sono coloro che parlavano questo greco degenerato e si oppongono, quindi, agli "Attikìzontes" che parlavano il greco puro, classico.

Analogie che ricorrono anche tra la prima parte dell’epìgrafe "di Axum" in Abissinia (scoperta dal Salth) e la prima parte dell’epìgrafe "di Adulis" fanno ritenere, allora, giusta la definizione di Herder ed Hegel di "Ellenismo" come lingua della mescolanza, non letteraria e con finalità pratiche.

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Una fitta rete di scambi commerciali accrebbe il potere economico delle singole città e favorì il fenomeno dell'urbanesimo; in quest'epoca avviene la nascita della borghesia, nuovo ceto emergente creato da bottegai arricchitisi grazie al commercio. Questi fatti portano gli artisti ad interessarsi delle classi umili: lo vediamo nelle tragedie (pullulano servi e nutrici tra i personaggi), in architettura (dove si afferma lo stile Corinzio, che si applica solo alle colonne, le quali consentono una maggiore visibilità rispetto ai pilastri) e in scultura.

Mentre nella Grecia classica, dove si erano sviluppati governi democratici ed era permessa ogni libertà di pensiero ed espressione, esisteva il concetto della libertà di ogni cittadino di potersi acculturare a spese dello stato, nella cultura ellenistica i dotti rivolgono la loro opera non agli studenti, ma solo ad altri, pochi dotti. I monarchi ellenistici, infatti, non avevano nessun interesse a incoraggiare la diffusione della cultura nei vari strati della popolazione, ed era assolutamente vietato ai dotti trattare di politica. Per la prima volta per i Greci la politica veniva scissa dalla cultura. Per l'età ellenistica si può parlare esclusivamente di centri, isolati dal resto della nazione e in fitta comunicazione tra di loro.

Nell'Ellenismo l'oggetto dello studio si modifica, e l'interesse per la scienza comincia a differenziarsi da quello per la filosofia; cominceranno ad essere eseguiti studi scientifici fini a se stessi, slegati da convinzioni filosofiche. Atene diventa il principale centro della filosofia e Alessandria quello della scienza. La filosofia trova il suo campo di interesse nella morale dell'uomo, e nascono le due correnti filosofiche dello Stoicismo e dell'Epicureismo; "vivi di nascosto" dicevano gli Epicurei, portatori di una filosofia prettamente soggettiva e contrapposti agli Stoici, che propugnavano un cosmopolitismo coagulato dal logos, fiamma presente in ogni uomo. I rapporti tra Atene ed Alessandria si guastarono ben presto, essendo Atene molto invidiosa dell'importanza culturale di Alessandria. Ad Atene si sviluppò solo una filosofia di taglio moralistico (Epicuro e gli Stoici) e non più la ricerca all'interno dell'uomo.

Dal punto di vista pratico gli autori si staccano dal mondo esterno e si dedicano ad una ricerca interiore da un lato, dall'altro studiano le idee provenienti da altri paesi, sviluppando un pensiero cosmopolita. Callimaco, padre dell'Ellenismo, abbraccia non solo tutti i generi letterari, ma anche entrambe le correnti di pensiero; infatti gli autori non si specializzano su un genere specifico, ma abbracciano più di un genere e più di un ideale, sempre restando però esclusi dalla politica.

Tutti i temi letterari vennero trattati nell'Ellenismo; anzi, questo periodo vide nascere un nuovo genere letterario: il romanzo. Il tema amoroso vide la distinzione tra elegia ed epigramma; l'elegia, che precedentemente era usata per trattare vari temi (bellica, gnomica, amorosa, quotidiana, politica), nell'Ellenismo si sofferma prettamente sul quotidiano, in quanto l'amore viene ad inglobare tutti gli argomenti e non rimane settorializzato. Gli autori si dedicarono indifferentemente a cantare l'amore provato nei confronti della propria donna o quello nel confronti del mito, ma anche questo secondo caso viene approfondito come il primo perché l'autore cerca di immedesimarsi nel mito. L'amore cantato è un amore vero, reale, scavato in tutti i sensi e contrapposto al sentimento del dolore. L'amore viene codificato in eroV (passione d'amore), imeroV (amore in senso generale) e paqoV (desiderio d'amore). Anche per il dolore ci sarà un'attenta analisi di tutte le possibili sfumature.

I personaggi, in ogni genere letterario, vengono analizzati tutti nella loro interezza e non più visti solo in funzione del protagonista (come accadeva nella cultura classica). Fu in questo periodo che nacque il concetto di arte per l'arte; l'opera letteraria è concepita in piena libertà e non è scritta con lo scopo di diffondere un messaggio. Lo stile è, per l'appunto, molto curato; l'autore riversa tutta la sua attenzione ad una cura formale volta alla perfezione, facendo sfoggio non di cultura, ma di erudizione (avviene per questo motivo un recupero dei miti minori ed una ricerca delle particolarità di quelli famosi). Molte opere ellenistiche saranno da leggere in quanto perfette dal punto di vista formale, ma totalmente prive di contenuti. Tuttavia non tutte queste opere d'arte sono sterili perché il lettore è libero di scegliere linee di interpretazione a suo piacimento. In quest'epoca nasce il libro.

CRITICA

DE ROMILLY - In questo mondo che non si limita più alla città, e dove le città in generale esercitano un’importanza sempre minore, la letteratura cessa in parte di essere politica: la commedia nuova non è più impegnata, e le allusioni vi si fanno rare; nè Teocrito nè Callimaco scrivono componimenti politici; i filosofi sono in cerca di una morale per l’individuo, e considerano il sapiente come senza patria. Occorrerà la cura dello storico e soprattutto la crescita di una nuova potenza politica che ben presto si impone fino in Grecia, per riportare, con Polibio, l’antico interesse per i problemi generali dello Stato.

TARDITI - Possiamo dire che, con l’eccezione della commedia nuova, tutta la poesia ellenistica si rivela come opera di "poetae docti": nasce nelle biblioteche o comunque attraverso un lungo studio condotto sugli autori dell’età arcaica. Qualche volta l’erudizione è scoperta, costituisce la materia stessa del componimento, altra volta il poeta la dissimula, quasi aspirasse ad evadere dal suo mondo di libri in un clima di spontanea semplicità, ma anche allora nella ricchezza di parole rare, nelle allusioni tematiche, nella struttura del verso, nel livello stesso dello stile la poesia risulta filtrata da un’inconsueta dottrina.

DEL CORNO - La nuova dimensione assunta dalla civiltà greca si riflette anche nello strumento linguistico che è proprio dell’Ellenismo. Le necessità dell’uso pratico e della stessa diffusione dell’ambiente greco impongono l’adozione di un linguaggio unificato, che soppianti l’antico particolarismo dialettale. E’ questa la cosiddetta "koiné", una lingua "comune" su base prevalentemente attica con elementi ionici ed infiltrazioni sporadiche di altri dialetti e di parlate straniere, una lingua pratica e semplice, da cui sono scomparsi duale ed ottativo e che viene usata soprattutto nella prosa.

La Commedia

Tra la commedia "antica" (che vide autori quali CRATINO, noto per le violente invettive contro Pericle e per la vittoria su Aristofane con la "Bottiglia", CRATETE, che ne "Le bestie" immaginò animali parlanti, FERECRATE, elegante e raffinato nella lingua, EUPOLI, ARISTOFANE, il più conosciuto soprattutto per quel suo trattare in ogni commedia una tesi) e la "nuova" si colloca la cosiddetta commedia "di mezzo", secondo una classificazione dei grammatici alessandrini, che, in questo modo, intesero suggerire "la graduale trasformazione dell’antica commedia politica nella nuova commedia di carattere" (CANFORA).

CRITICA

CHIOSSI - LONGHI - La commedia nuova ha struttura diversa rispetto all’antica; la trama è più complessa; gli attori erano forse più di tre; portavano la maschera, e di maschere ce n’era un gran numero per caratterizzare i vari tipi di personaggi; così l’abbigliamento, che era quello della vita comune, presentava alcuni elementi fissi per individuare la condizione dei personaggi stessi. Quasi tutto ignoriamo del coro. La paràbasi è scomparsa. La sigla "XOPOY" nei papiri indica gli intervalli tra le parti della commedia, corrispondenti per lo più a cinque atti: doveva trattarsi di intermezzi musicali, slegati dall’azione, non sappiamo se composti dall’autore o frutto d’improvvisazione. Il prologo ha funzione espositiva, resa necessaria dai complicati intrecci, e deriva dalle tragedie di Euripide: informa sugli antefatti, sui personaggi o anche sulla conclusione della vicenda. La lingua è attica con elementi della "koiné". I metri più usati sono il tetràmetro trocàico ed il trìmetro giàmbico. Le rappresentazioni avevano luogo in Atene, durante le feste Lenee, nel teatro di Diòniso; la scena fissa, in pietra (da Licurgo in poi) comportava l’unità di luogo; la vicenda si svolgeva di solito in una giornata, osservando l’unità di tempo.

MENANDRO

Nasce e muore ad Atene, nè si allontana mai da questa città. Nipote del commediografo Alessi è, forse, in rapporti con Epicuro e lo è anche con Demetrio Falerèo, che Menandro segue anche dopo il 307, cioè dopo la sua caduta dopo aver governato Atene per un decennio.

Questa amicizia, non vista di buon occhio dal nuovo "padrone" Demetrio Poliorcète, forse è causa dei suoi insuccessi ai giuochi. Ardente è il suo amore per Glicera, a cui Menandro intitola una commedia.

Scrive 109 o 108 o 105 commedie, ma abbiamo solo titoli (100 ca.), frammenti di tradizione indiretta (1.000 ca.), una raccolta di sentenze (877); resti papiracei (dal 1844 al 1969) ci permettono di leggerne, più o meno mutile, solo sette:

1 - "Dìscolos" (Il misantropo) - completa, opera giovanile;

2 - "Epitrèpontes" (L’arbitrato) - vv. 785, del 304 ca.;

3 - "Sàmia" (La fanciulla di Samo) - vv. 750;

4 - "Pericheiromène" (La tosata) - vv. 450;

5 - "Siciònio" (La fanciulla di Sicione) - vv. 450;

6 - "Aspis" (Lo scudo) - vv. 550;

7 - "Misùmenos" (L’odiato) - vv. 500.

Singole parti dei testi possono far pensare ad influssi epicurei o stoici, ma motivi cronologici (Menandro conosce Epicuro molto tempo prima che fondi il "képos") sconsigliano questi indizi; sono, invece, valide per Menandro le influenze della commedia antica e di mezzo e soprattutto di Euripide ("L’arbitrato" è quasi privo di elementi comici; il "Dìscolos", opera giovanile, ha struttura tragica per la presenza di un monologo e per il metro adoperato).

Menandro, dunque, è l’erede di una grande tradizione teatrale ed uomo sensibile sia alle nuove dottrine filosofiche, sia al mutato gusto del pubblico.

Egli mira a riprodurre i tratti della società, i piccoli drammi degli uomini comuni, non quelli grandi della storia; egli cerca di smussare gli angoli troppo aguzzi, coerente con la commedia nuova che vuole non si urti il sentimento intimo dello spettatore medio, del benpensante.

Menandro, vero poeta, sente il fascino delle creature deboli e succubi, scruta attentamente l’animo umano e, soprattutto, quello degli umili, che riceve una sua fisionomia in cui finemente si fondono riso e commozione, l’esilarante ed il patetico.

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CRITICA

DE ROMILLY - Il Caso gioca una parte importante; e Menandro non manca di segnalarne la grande potenza, o il suo accecamento, o la sua malizia. [...] Tuttavia l’arte dell’autore ha un’importanza ancora maggiore; e questo gioco di malintesi gli offre uno schema comico che diviene presto convenzionale. Lo sarebbe per lo meno senza la varietà e la finezza apportate dalla pittura dei caratteri. [...] Un aspetto resta caratteristico del mondo di Menandro nel suo insieme: si tratta di un mondo cortese e affettuoso. [...] Una grande gentilezza regna quasi sempre tra i personaggi di Menandro, come una delicata discrezione regna nel suo stile. Essa è il riflesso del suo ideale umano.

DEL CORNO - La difficoltà di vivere dei suoi contemporanei, turbati e quasi sfiniti dall’immane travaglio di rinnovamento che attraversa la civiltà greca, si riflette in molti dei suoi personaggi, svuotati da un’affranta incapacità ad agire ed isolati in un’accorata incomunicabilità. [...] Vi è una dolorosa antitesi tra la volontà di ottenere il bene attraverso la conquista di una dimensione esclusivamente umana dell’esistenza e la constatazione delle forze che a tale aspirazione si oppongono; e questa culmina nella drammatica incapacità di trovare una ragione in cui questo dualismo giunga ad una conciliazione. Questa sconsolata visione è peraltro fronteggiata dall’ottimistica fiducia nella fondamentale bontà della natura umana. Menandro è convinto che, se ogni evento della vita si adeguasse alle leggi di questa natura, tutte le cose andrebbero per il meglio.

TARDITI - Il problema che si sono posti gli studiosi moderni è di vedere fino a che punto la commedia di Menandro rispecchi veramente la società ateniese del IV secolo. Sorge infatti il sospetto che quel ripetersi di temi, [...] quella monotonia degli spunti e delle conclusioni sia l’omaggio ad una convenzione che si era ormai imposta con un certo schema, ma che la vita fosse poi diversa. Certo, questa era più varia e più complessa di come ce la presenta Menandro, ma è anche vero che la società ateniese attraversava allora una delle sue più gravi crisi morali

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Fu il principale esponente della commedia nea, che stravolse completamente i canoni della commedia arcaia e della commedia mesa; per certi aspetti il suo concetto di filantropia, principale caratteristica delle sue commedie, è confrontabile con l'humanitas di Terenzio. Segnò la linea di demarcazione fra la cultura del 1V° secolo e l'ellenismo e ripose nell'uomo una fiducia illimitata, rifiutando nel contempo la religione ufficiale.

La filantropia (simile all'humanitas latina) è la principale caratteristica della commedia di Menandro; il concetto di filia non è nuovo nella letteratura greca (basti pensare al fortissimo legame di amicizia esistente tra Patroclo e Achille) e riguardava un forte sentimento di unione tra due persone che si riproponevano i medesimi obiettivi. In Menandro la filanqropia diventa un cercare di capirsi con gli altri uomini, un sentimento di amicizia non circoscritto a due persone ma allargato a tutti gli uomini; e qui è evidente il parallelismo con Terenzio ("homo sum: humanum nihil a me alienum puto"). Mentre però Terenzio rivolge la sua humanitas ad una ristretta élite di persone, Menandro concepisce la filantropia rivolta a tutti gli uomini ("com’è cosa gradita per l'uomo essere uomo, qualora l'uomo sia veramente tale"). Tutti gli uomini sono uguali, sia il nobile cittadino sia l'umile servo; quest’aspetto anticipa l'uguaglianza promossa dal Cristianesimo.

Le commedie menandree ci presentano un uomo profondamente complesso psicologicamente, specchio della reale complessità esistente nel rapporto tra uomo e natura. Tutti gli uomini sono presenti nelle commedie di Menandro, con una particolare attenzione all'uomo borghese, il quale non può che comportarsi in modo morale conformemente ai canoni della cultura ellenistica. Questo dà origine al perbenismo, tipica chiave di lettura di tutte le commedie di Menandro. In ogni situazione troviamo un atteggiamento di ironico rispetto verso gli altri, rispetto che spesso sottintende una velata condanna ma che è manifestazione del dovere di rientrare nei canoni ellenistici, che prevedevano un assoluto rispetto del modus vivendi altrui. Perbenismo quindi sia nel nostro significato positivo che negativo del termine. L'uomo di Menandro, infatti, deve rispettare i dettami della sua società conservando sempre le apparenze. Ciò è innovativo per la cultura greca. Questo rispetto si traduce in un sorriso benevolo nei confronti dell'agire umano (anziché nel riso sguaiato di Aristofane, nelle cui commedie l'unico punto di contatto tra realtà e fantasia era rappresentato dalla politica), con una serenità che esclude la tristezza esacerbata e sfumando tutti i sentimenti anche nelle situazioni in cui la realtà spinge l'uomo alla tristezza. Lo scavo psicologico dei personaggi (tropos) è profondo ma non completo, a causa appunto del perbenismo. Menandro ripone nell'uomo una fiducia pressoché illimitata, rifiutando la religione ufficiale; egli vede un pericolo per l'uomo nel fatto che esso dipenda troppo da se stesso e dalla propria razionalità. Questa visione, pur contraddetta dall'uso di scrivere commedie, lo porta ad introdurre il concetto di tuch, che limita la possibilità dell'uomo di cambiare la realtà, ma che non corrisponde ad una divinità, poiché non guida l'uomo secondo un andamento logico (nell'Ellenismo era possibile dare ogni possibile risposta sul divino). Questa limitatezza dell'agire umano si rispecchia nel fatto che le commedie contengono un susseguirsi di azioni che s’incastrano tra loro, facendo sì che non tutto dipenda dall'uomo e consentendo allo stesso tempo lo scavo psicologico. Le commedie di Menandro finiscono tutte in maniera positiva, con una certa contentezza per l'uomo. Questo avviene per due motivi: la necessità di rispettare le regole della commedia e la fiducia estrema che Menandro ripone nella bontà umana dell'uomo. A far sì che le sue opere finiscano sempre bene provvede il perbenismo, chiave di lettura di tutto l'Ellenismo e tipico della borghesia del tempo.

Epitrépontes

Questa commedia verrà ripresa da Terenzio con il nome di Ecira. Ne abbiamo due terzi; è andato perduto quasi tutto il primo atto, che espone l'antefatto. Carisio, borioso e goliardico figlio di un ricco mercante, ad una festa si ubriaca e violenta una ragazza, Panfila, che in seguito sposerà senza riconoscerla. Dopo cinque mesi di matrimonio Panfila partorisce il bambino nato da quell'episodio, ma non rendendosi conto che era figlio di suo marito lo espone in un bosco mettendogli al dito un anello che aveva strappato a Carisio alla festa. Carisio, venuto a conoscenza del fatto, abbandona la moglie credendola adultera e cercando invano di dimenticarla insieme alla flautista Abrotono. Due pastori si litigano l'anello e si rivolgono ad un arbitro per appianare la questione (da qui il titolo della commedia, che significa "coloro che si rivolgono ad un arbitro"). Abrotono nel frattempo s’impossessa dell'anello con 1’intenzione di ottenere la libertà facendosi credere la madre del bambino; poi però incontra Panfila e riconosce in lei la ragazza violentata alla festa cui anche lei era presente. Capisce allora che il bambino è figlio dei due sposi e decide di abbandonare i suoi interessi e svela a Panfila la verità. Intanto il padre di Panfila, Smàrine, tenta di convincere la figlia ad abbandonare il marito; Panfila, da sposa fedele, si rifiuta e Carisio, che aveva ascoltato, non visto, il colloquio, perdona la moglie e decide di ritornare con lei. Carisio, che si era dunque comportato crudelmente verso sua moglie, ma non aveva mai smesso di volerle bene, si riscatta attraverso il pentimento e perdonando la moglie. Panfila ha sbagliato ad esporre suo figlio, ma comprende il marito che l'offende con la flautista e non lo abbandona. Abrotono smentisce la fama di etera avida e corrotta ed anzi, avendo pietà di una madre, contro i suoi stessi interessi salva un matrimonio. Infine, nella figura dei due sposi, Menandro c’insegna che solo comprendendo e perdonando si può rendere meno difficile il peso della vita e del rapporto coniugale, e si può raggiungere quella dignità che ci rende veramente uomini.

La poesia elegiaca: CALLIMACO

In due epigrammi (415 e 525) si vanta di discendere da Batto, fondatore di Cirene, città in cui nasce da nobile famiglia. Si trasferisce ad Alessandria dove fa il maestro ad Elèusi. E’ accolto da Tolemeo II come paggio con incarico nella Biblioteca.

Scrive 800 volumi su papiro. Ci restano incompleti "Aitia", "Giambi", "Ecale"; completi gli "Inni" e 62 epigrammi.

Abbiamo anche i "Pìnakes" (Catalogo delle opere della Biblioteca).

"Aitia" - sono in ll. 4 ed hanno un doppio proemio: uno di tipo esiodeo in cui sogna di parlare alle Muse; uno, detto "prologo dei Telchìni", in cui chiarisce i suoi principi estetici, per una riedizione. Episodio più celebre: "L’amore di Aconzio e Cidìppe"; l’episodio finale è "La chioma di Berenìce". Si fonda su leggende per spiegare l’origine delle città: da qui il titolo che trova la sua derivazione da "àition", cioè "causa".

"Giambi" - 13 di numero, in cui si combinano più generi. Di sostanza combattiva perchè si difende dall’accusa di aver usato vari dialetti (come nel XIII).

"Ecale" - è un "èpos" breve che riporta alcuni episodi della vita di Tèseo. Ci restano numerosi frammenti.

"Inni" - 6 di numero; i primi quattro scritti nella lingua dell’epica, mentre nel 5° e nel 6° si notano dorismi. Nell’"Inno ad Apollo" (2°) sono ribaditi i suoi principi estetici.

"Epigrammi" - 62 di numero tramandati dall’Antologia Palatina; l’80 è per la morte di Eraclito ed è molto sentito; programmatico il 43.

Caratteristiche: si notano in lui il gusto dell’antico, per il poco noto, per il sovrumano, per il mitico immesso nel quotidiano. La sua poesia è senza lacrime, controllata. Il poeta ha come avversario anche il discepolo Apollonio Rodio ("Argonautiche", in ll. 4 e ca. vv. 6.000).

CRITICA

MARIANO/PACATI - Lo Snell colloca Callimaco ad una svolta storica dell’umanità: al tramonto cioè di una più che secolare cultura illuministica che ha dissolto le antiche concezioni religiose, quando è venuto a noia anche il razionalismo e incomincia a sorgere una nuova poesia significativa. La poesia di Callimaco è rivolta in primo luogo alla forma. Egli era un dotto; la sua grande e raffinata cultura è penetrata dappertutto anche nella sua poesia, ma egli non se n’è servito a scopi didattici, ma soltanto per porre in rilievo molte cose, varie ed interessanti. Non per niente Callimaco chiama la sua maniera di poetare "pàizein", "gioco da fanciulli", e le sue poesie "paignìon", "gioco". Senza Callimaco non fiorirebbe a Roma il "lusus" della poesia neoterica, nè potremmo leggere le "nugae" di Catullo.

CHIOSSI/LONGHI - E’ il teorico della poesia ellenistica. Sotto questo aspetto la sua opera ebbe importanza enorme e la sua poesia fu come il "manifesto" di una nuova concezione della poesia stessa, conseguenza delle condizioni politiche, sociali, e, quindi, culturali radicalmente mutate nell’età ellenistica.

BALLOTTO - La statura di Callimaco è legata alla sua moralità letteraria, la quale consiste soprattutto nell’impegno di coerenza alle voci intime, nella fedeltà dell’artista che, pur dotato di straordinaria perizia tecnica ed erudizione, finisce con l’identificarsi nell’uomo e l’uomo nel poeta.

Riflessi su... -> CATULLO - movimento neoterico

                    -> VIRGILIO - nell’ecloga 6^ rifiuta il poema epico, come Callimaco nel proemio degli "Aitia"

                    -> PROPERZIO - traspone l’elegia etiologica nel l. 4°

                    -> OVIDIO - usa la stessa tecnica callimachea nelle "Metamòrfosi", la stessa struttura nei "Fasti"

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Il maggiore dei poeti alessandrini, è considerato sia il principale teorico sia il migliore esponente della poesia ellenistica. Nato intorno al 300 a. C. a Cirene, in gioventù visse in ristrettezze economiche e si guadagnava da vivere insegnando in una scuola di provincia; poi, non sappiamo come, entrò a far pane della corte, ottenendo il favore dei sovrani. Lavorò alla Biblioteca come poeta ed erudito, ma sappiamo con certezza che non ne divenne mai il direttore; tutte le sue opere sono dedicate ai sovrani che lo proteggevano, Tolomeo Filadeflo e poi Tolomeo Evergete. Le sue opere gli procurarono fama e gloria, ma scatenarono aspri dibattiti con invidiosi contemporanei. Morì intorno al 240.

La produzione di Callimaco come erudito e come poeta fu immensa: la tradizione gli attribuiva ben 800 volumi, oggi quasi tutti perduti. Fatto nuovo nella letteratura greca, Callimaco s’interessò a diversi generi letterari. Delle sue opere di prosa la più importante furono i Pinakes, catalogo ragionato di tutti gli autori e di tutte le opere raccolte nell'immensa Biblioteca di Alessandria. Oltre a classificare le opere per genere e gli autori per ordine alfabetico, Callimaco affrontava anche numerose questioni biografiche e di autenticità. I Pinakes possono essere considerati la prima opera di storiografia letteraria.

Aitia

Gli Aitia erano l'opera più vasta di Callimaco: contenevano circa 4000 versi divisi in quattro libri. Non si trattava di un'opera ordinata, bensì di una raccolta di numerose elegie, in genere indipendenti tra loro. Ogni aition era dedicato alla ricerca delle origini di una festa, di una città, di un mito, di un'istituzione. Oggi ci rimangono il proemio ed alcuni frammenti, tra cui la Chioma di Berenice. Nonostante l'apparente contenuto scientifico, gli Aitia sono in realtà un'opera di intrattenimento, uno sfoggio di erudizione in cui risalta soprattutto la raffinatezza dell'arte di Callimaco.

Il proemio è un'invettiva di Callimaco contro i Telchini, soprannome dato ai poeti invidiosi del suo successo. Il poeta imputa ai Telchini di non rifarsi ai canoni ellenistici del tempo, ma a quelli classici. C’è pervenuto un elenco di questi Telchini, in cui stranamente non figura il nome di Apollonio Rodio, ma vi troviamo Posidippo, che ebbe con Callimaco un'aspra disputa riguardante non lo stile, come quella con Apollonio Rodio, ma l'interpretazione di un'opera che a noi non è pervenuta, probabilmente la Lide di Antimaco di Colofone, risalente al 400 a.C. e antesignana dell'ellenismo

La Chioma di Berenice è l'aition che chiude il quarto e ultimo libro dell'opera. La chioma stessa narra in prima persona la sua storia: fu offerta in voto dalla regina Berenice in occasione della partenza del marito, Tolomeo Evergete, per una spedizione militare in Siria. Ma scomparve dal tempio e l'astronomo di corte la scoprì in cielo, trasformata nella costellazione che da lei prese il nome. Quest’elegia piacque immensamente a Catullo, che la tradusse in latino nel carmen 66; ed è nella sua traduzione che oggi è a noi nota. In quest’elegia l'esaltazione del faraone si unisce a quella della nascente scienza: non si tratta solo di riscontrare una cosa umana nella sfera celeste, ma piuttosto di assecondare il crescente interesse verso la ricerca scientifica.

Inni

Gli Inni di Callimaco sono sei, ciascuno indirizzato ad una divinità. Probabilmente furono composti in momenti differenti e riuniti insieme solo in un secondo tempo. Sono tutti in esametri, tranne Per il bagno di Pallade che è in distici elegiaci. Il contenuto degli Inni è di tipo arcaico e ripreso dagli inni agli dei dello pseudo-Omero, ma affrontandolo con sensibilità totalmente nuova. Gli dei sono messi sullo stesso piano degli uomini e compiono le loro stesse azioni. La somiglianza arriva ad un punto tale che sono descritte la nascita e la fanciullezza del dio, cosa che prima non si era mai trovata se non in Eros, il cupido sempre bambino che scagliando le frecce fa innamorare le persone. Callimaco scrive non semplicemente per esporre il mito ma per fare sfoggio d’erudizione; la sua opera è scritta innanzi tutto per il piacere di scrivere, e solo in secondo piano c'è l'intenzione di erudire il lettore (siamo in un'epoca in cui si diffonde il libro, e con lui si allarga la diffusione della cultura).

Nell'inno A Zeus troviamo un’Atena bambina che tira la barba di Zeus per farsi ascoltare: una scena tipicamente umana che potrebbe avvenire tra qualsiasi figlia e padre. Gli dei sono dunque descritti come esseri che provano un coinvolgimento emotivo simile a quello umano.

In Per il bagno di Pallade è ripreso il mito della dea che si bagna nelle acque del fiume e viene vista per caso da Tiresia, il quale per punizione viene accecato, ma riceve la capacità di predire il futuro. La madre di Tiresia, una ninfa, supplica la dea di perdonare il figlio, ma senza risultato; c’è dunque un distacco tra mondo divino e mondo umano. Il contenuto è tipicamente aulico, ma non c'è la passionalità tipica di una situazione del genere; troviamo delicatezza, tedio, non appassionata richiesta. C’è la tendenza a sfumare tutti i toni e a renderli il più delicati possibile.

L'inno A Demetra descrive una processione in onore della dea, durante la quale viene portato un cesto di offerte sulle cui pareti è raffigurato il mito di Erisittone. Erisittone aveva tagliato delle querce sacre alla dea ed era stato punito con una fame insaziabile che lo aveva portato alla morte. Qui c'è il procedimento dell'enqrasis, in altre parole l'inserimento di un mito nel mito.

Epigrammata

Gli epigrammi di Callimaco si caratterizzano per la loro brevità e per il fatto che al centro di ogni componimento è posto il sentimento. A noi ne sono pervenuti 63, la maggior parte di argomento funerario, ma alcuni anche riguardanti l'autore stesso.

A Conopio è un epigramma che si riallaccia ad un altro del secondo secolo a.C., il lamento della donna abbandonata, di cui ignoriamo l'autore. Il fare collegamenti con altri epigrammi è una caratteristica degli epigrammi di tutti i tempi. Compare il motivo del paraklausiquron, il lamento davanti alla porta chiusa dell'amato. L’unico desiderio dell’amata è quello di godere ancora del tempo che passa, unito al rimpianto della giovinezza ormai trascorsa. Questo tema sarà ripreso da Tibullo. Negli ultimi due versi ("ma ai primi fili bianchi tu ricorderai tutte queste cose") è introdotta un’innovazione per il mondo greco, ma non per quello latino, in cui la senectus era sinonimo di sapientia; per i greci il tempo che passa non portava necessariamente alla sofia, accessibile a tutti gli uomini meritevoli (ad esempio, per Ulisse ci si riferiva alla sofrosunh)

Nell'epigramma funerario Per la morte del poeta amico Callimaco esprime il suo concetto di amicizia lamentando la morte dell'amico con partecipazione affettiva. Gli "Usignoli" di cui si parla erano delle aure epicedi, ossia degli epigrammi funebri scritti per le bestiole, ma che esprimevano forti sentimenti umani.

Per la morte del piccolo Nicotele è un epigramma funerario dedicato ad un bambino morto dodicenne. E' tipico dell'ellenismo dedicare degli epigrammi alla morte dei bambini.

Giambi

Erano tredici componimenti caratterizzati da una grandissima varietà di metro e di contenuto. I meglio conservati sono il primo e il quarto; quest'ultimo, bellissimo, narra un fortissimo contrasto tra l'alloro e l'ulivo.

L'alloro e l'ulivo si sfidano su chi sia la pianta migliore, vantando ciascuno le proprie qualità e l'uso che fanno gli uomini dei loro rami (le piante non solo sono assunte a soggetto dell’opera, ma sono addirittura personalizzate). Tra i rami c’è una coppia di usignoli molto ciarliera (rappresentante della voce del popolo) che fa da arbitro alla sfida. Chi li creò? Atena l'ulivo e Apollo l'alloro; in questo sono pari perché gli dei sono tutti sullo stesso piano. Chi li ha trovati? Pallade trovò l'ulivo, mentre l'alloro, come tante altre piante, fu trovato dalla terra e dalla pioggia; qui l'alloro perde un punto. A cosa servono? L'alloro a dare gloria poetica, mentre l'ulivo costituisce il cibo dell'uomo (c’è qui un’attenzione all'aspetto pratico delle cose, anticipatore dell'utile latino); in definitiva vince l'ulivo. Interviene nella disputa un vecchio rovo a fare del moralismo, ma è subito messo a tacere. E' ovvio che alla base di questo giambo ci deve essere stata una disputa letteraria, ma ne ignoriamo i dettagli.

APOLLONIO RODIO

In genere i poeti alessandrini attingevano alla tradizione epica per ricavarne non un ampio poema volto all'esaltazione di gesta eroiche, ma un componimento breve e raffinato; a questi fa eccezione Apollonio Rodio. Apollonio Rodio nacque ad Alessandria d'Egitto intorno al 290 a.C. e soggiornò a lungo a Rodi (da qui l'appellativo di Rodio). L'unica altra notizia certa della sua vita è che divenne direttore della Biblioteca.

Apollonio Rodio viene generalmente visto in contrapposizione con il suo ex maestro, Callimaco; in realtà questa rivalità è per alcuni aspetti solo apparente. Apollonio aveva in effetti uno stile molto diverso da quello dì Callimaco, e riteneva di poter scrivere un’opera di carattere epico in età ellenistica. Scrisse effettivamente un’opera gigantesca, le Argonautiche, unico poema ellenistico a noi pervenuto. Non gli riuscì di raggiungere l'acme della poesia in ogni punto dell’opera (era questo il suo intento), ma il III libro è rispondente ai canoni ellenistici e anzi supera per bellezza le opere di molti poeti a lui contemporanei. Paradossalmente Apollonio Rodio, che non voleva assolutamente essere vox dell’ellenismo, ne diventa una sorta di emblema.

Le Argonautiche

Sono un poema in esametri lungo circa seimila versi divisi in quattro libri. Narra le vicende della spedizione degli Argonauti, dalla partenza da Iolco fino al ritorno in Grecia. Il I, il II (che descrivono il viaggio di andata nella terra della Colchide) e il IV (dedicato al ritorno in patria) sono molto pesanti, ma il terzo, che racconta l'amore tra Giasone e Medea, è considerato uno dei capolavori dell'ellenismo. Eccettuato il terzo libro, si può affermare che Apollonio non si inserisce a viva forza nel mito, mutandolo o spezzandolo, ma lo mantiene sostanzialmente inalterato; ad esempio, il poema inizia con la descrizione dei partecipanti alla spedizione, che ricalca l'elenco delle navi che presero parte alla guerra di Troia contenuto del II libro dell'Iliade. Giasone viene messo in evidenza (è l'ultimo ad essere nominato), ma di lui sono descritti i tratti più umani; non è presentato come anhr, ma nemmeno come uomo emblema dell'ellenismo; ha dei sentimenti, ma non c’è uno scavo psicologico profondo. Egli vuole raggiungere il proprio fine (conquistare il vello d'oro), ma non scavalca il suo mondo sentimentale (come invece fece Enea). Giasone resta freddo (mentre il Giasone di Euripide ha un suo mondo sentimentale in cui crede), a metà strada tra uomo e eroe.

Il III libro è incentrato su Medea e sul suo amore per Giasone. Eeta, re dei Colchi e padre di Medea, impone a Giasone durissime prove da affrontare prima di entrare in possesso del vello d'oro con la speranza che il greco muoia nel corso delle prove. Ma Medea, colpita da una freccia di Eros, s’innamora a prima vista di Giasone; la ragazza trascorre una notte agitata da angoscianti sogni, nei quali la vergine fedele al padre si scontra con la donna colpita dalla passione per l'amato. Nella mente di Medea balena anche l'idea del suicidio, ma il bel ricordo della vita trascorsa la fa tornare sui suoi passi e, momento dopo momento, matura l'idea di salvare Giasone, procurandogli delle pozioni indispensabili per superare la prova. Il mattino seguente Medea, con il cuore che le sobbalza in petto (cuore reso con kardia, a rilevare la fisicità del sentimento di Medea), incontra Giasone che si avvia per affrontare la prova e, offrendogli le pozioni, gli confessa il suo amore. E Giasone la rassicura dai suoi timori assicurando che la porterà con sé in Grecia, dove, onorata da tutti per l'aiuto reso agli Argonauti, vivrà per sempre accanto a lui: questo è il suo pegno d'amore. Poi Giasone, grazie all'aiuto di Medea, supera la prova.

Nel corso del terzo libro emergono dei concetti particolari. Innanzitutto quello della maledizione, che colpisce non solo il diretto interessato ma anche la sua famiglia e i suoi figli. Assume un valore particolare anche la memoria del passato; il ricordo assume una connotazione personale ed è privo di qualsiasi valore educativo (il contrario avviene nel mondo latino, dove il ricordo è sempre oggettivo e si riferisce alle gesta di tutto il popolo, sia belliche che sociali). Si riscontrano anche delle caratteristiche peculiari dell'ellenismo, come lo scendere nel particolare (ad esempio quando Apollonio, anziché parlare di generici alberi, specifica di quali alberi si tratta, querce e pioppi) o l'azione ripetuta molte volte per aumentare il paqoV e la tragicità dell'azione. E' invece tipico di Apollonio il gusto per l'avventura e per l'esotico, e si sofferma a descrivere posti nuovi, distanti e lontani (sullo sfondo c'è lo sviluppo commerciale raggiunto dall'ellenismo). Questa voglia di conoscere è però diversa dalla voglia di fare esperienza (swfrosunh) di Ulisse. Il gusto per l'elemento naturalistico non si limita al livello descrittivo, ma si presenta anche come interesse sentimentale nei confronti della natura. Non è questa una novità per il mondo greco: la partecipazione sentimentale verso la natura la riscontriamo in Omero e Saffo (1a quale, addirittura, diventava natura); anche se in Apollonio non c'è un annullarsi dell'elemento umano nell'elemento naturalistico, ci si arriva vicino sul piano del sentimento.

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Dal 260 al 247 non solo diventa il secondo direttore della biblioteca di Alessandria, succedendo a Zenòdoto, ma anche precettore di Tolemèo II.

Si reca a Rodi dopo una lite con Callimaco, evidenziata dall’"Ibis", e l’insuccesso delle "Argonautiche".

Pubblica una seconda edizione delle "Argonautiche", ma è un’ipotesi poco credibile.

Ha un’intensa attività filologico-letteraria (con poemi su fondazioni di città, epigrammi e saggi), ma è famoso soprattutto per le "Argonautiche".

"Argonautica" - Con i suoi quattro libri formati da 5.833 esametri complessivamente è il quarto poema epico pervenutoci per intero dopo "Iliade", "Odissea" ed "Eneide". Riporta la leggenda degli Argonauti ed il tentativo di Giasone di riportare in Grecia dalla Còlchide il vello d’oro posseduto da Eeta, padre di Medèa e dio del sole, tentativo che riesce con la magia di Medea. Precedenti notevoli si possono rintracciare sia nei tre tragici che in Pindaro. Di notevole importanza l’invocazione ad Apollo nel l. I e quella di Eràto, musa della poesia amorosa, nel l. III.

Caratteristiche: motivo dominante è l’amore, non freddo, ma profondo, mutevole, possessivo, quale quello di Medea. Giasone, problematico ed incerto, è un po’ il simbolo di un’epoca. Nel poema si notano interessi per luoghi lontani, ma anche per l’orrido, il macabro, il prodigioso; gli dei, invece, hanno un qualcosa di benestante e di salottiero, con gli stessi modi degli umani mortali. Apollonio in esso etichetta tutto, cioè ne cerca le cause e ne dà la motivazione, mentre per la lingua attinge ad Omero, Esiodo ed ai prosatori ionici e contemporanei.

CRITICA

GARZYA - Il poema ricalca materia, tecnica narrativa e strutture dell’epos omerico ed il mito, sempre alla base dell’opera, non ha altro contenuto se non quello favolistico e leggendario. Ha singoli momenti felici ("Il sogno di Medea"), ma manca di forza unitaria e sembra così confermare la teoria callimachea dell’impossibilità di un carme continuo.

SBORDONE - L’opera manca di omogeneità: vi sono imitazioni omeriche e pedanterie erudite ed in ciò Apollonio è profondamente alessandrino. Riesce soprattutto nelle scene brevi, nelle descrizioni di scorcio, negli episodi.

CANTARELLA - Il poema è il documento di un continuo compromesso fra la tradizione omerica ed il desiderio di originalità. Esso in effetti è tutto episodico, frammentario e per di più senza poesia, la sola che avrebbe potuto galvanizzare un personaggio scialbo come Giasone che supera tutte le prove con l’aiuto di Medea, non un eroe e nemmeno un uomo, mentitore, profittatore, spergiuro, senza nemmeno il merito del seduttore perchè Eros fa tutto per lui. Unica, autentica gemma del poema la morte di Ila rapita dalla ninfa della fonte del l. I.

 

Riflessi su... -> VIRGILIO - l’opera di Apollonio è il presupposto dell’"Eneide", mentre Giasone e Medea le brutte copie di Enea e Didone

                    -> VALERIO FLACCO - il cui unico merito è quello di aver scritto un’"Argonautica" in ll. 8, incompiuta.

TEOCRITO

Fu il poeta che meglio interpretò le esigenze dei tempi e che seppe unire alla perfezione formale la sincerità del sentimento, riuscendo quasi sempre ad evitare quelli che erano i pericoli più gravi dell'ellenismo: l'erudizione e l'artificiosità. Uno dei suoi principali meriti è quello di essere stato il padre della poesia bucolica, raccogliendo il modello mitico di Dafni, il pastore-poeta cantato da Stesicoro, ed elevandolo a nobile e seguito genere letterario.

Incerte sono le vicende della sua vita; sappiamo però con certezza che egli fu particolarmente legato a tre località: Siracusa, Cos e Alessandria. A Siracusa il poeta nacque poco prima del 300 a.C. e da questa terra ebbe l'ispirazione per i suoi componimenti che cantano i pastori, la vita dei campi, il paesaggio mediterraneo. A Cos il poeta visse a lungo e conobbe Filita e Asclepiade, come è testimoniato dalle Talisie. L'Encomio di Tolomeo ci mostra Teocrito legato alla corte di Alessandria, dove certamente conobbe Callimaco, di cui fece suoi gli ideali artistici. Ignoriamo il luogo e la data della sua morte.

Di lui ci sono pervenuti 30 idilli (di cui una ventina di sicura attribuzione), 24 epigrammi e la Zampogna. Gli idilli (quasi tutti in esametro e lingua dorica) sono brevi componimenti di contenuto vario; appunto in base al contenuto vengono divisi in:

· 8 Carmi bucoIici (da boucolos =.pastore), composizioni in cui si canta la vita dei campi ed i sentimenti dei pastori. Particolare bellezza hanno quattro di loro: il Tirsi, le Talisie, I Mietitori, il Ciclope.

· 3 Mimi (L'Incantatrice, l'Amore di Cinisca, le Siracusane),che trattano la vita quotidiana.

· 4 Epilli (L’Ila, l'Epitalamio di Elena, i Dioscuri, l'Eracle bambino); si tratta di brevi poemetti epico mitologici che spesso introducono nel mito quella nota borghese caratteristica del tempo.

· 2 Encomi (a lerone, l'Encomio di Tolomeo), che abbondano di omaggio cortigiano.

· 3 Carmi lirici (metro lirico e dialetto eolico), due dei quali cantano l'amore adolescenziale, di scarso rilievo.

I 24 epigrammi, molti dei quali di discussa autenticità, hanno le stesse caratteristiche della migliore epigrammatica alessandrina.

La Zampogna è un tecnwpaegnion, ossia un carme figurato in cui Teocrito fa sfoggio della propria abilità; i versi, che a ogni riga diventano più brevi, imitano visivamente la figura della zampogna di Pan.

Tirsi

Il pastore Tirsi, invitato da un capraio, canta la morte dolorosa e misteriosa del mitico pastore siciliano Dafni (soggetto trattato anche da Stesicoro). Il verso che ritorna sempre uguale ("date inizio, o Muse, date inizio di nuovo alla canzone bucolica") non è una semplice ripetizione, ma ha una funzione melodica (bisogna qui ricordare la concezione teocritea di un arte raffinata).

E' interessante notare che la campagna di Teocrito (non solo in questo, ma in tutti i carmi) è completamente diversa da quella di Virgilio: è una campagna solare, c'è un caldo soffocante, il sole infuoca la natura. I pastori sono stesi sull'erba, come lo erano quelli di Virgilio, ma mentre Tirsi è steso all'ombra di un albero per riparasi del sole e sogna un po' d'acqua, Titiro e Melibeo sognano una vita diversa. Il sentimento che unisce il poeta alla natura è sempre presente in Virgilio, che si identifica nei pastori. In Teocrito questo non avviene: i suoi pastori si rapportano con la natura solo quando è necessario. Alle volte la natura è sentita solo come sfondo e paesaggio; Teocrito la descrive con assoluto verismo, ma non sente il bisogno di rifugiarsi in essa. Nella poesia bucolica di Teocrito avviene una cosa molto strana: i "pastori da salotto", non veramente inseriti nell'ambiente in cui vivono. Perfetti dal punto di vista della descrizione fisica, questi semplici uomini dei campi parlano un linguaggio forbito e ricercato. Virgilio, al contrario, riuscirà a creare dei pastori credibili anche dal punto di vista del linguaggio, testimonianza di una sentita partecipazione verso l'argomento di cui si parla. In Teocrito il pastore usa un linguaggio molto curato proprio perché il pastore non sente alcun legame nei confronti dell'argomento di cui si parla.

Talisie

A Cos le Talisie erano una festa della raccolta in onore di Demetra. Il poeta (che si identifica con Simichida) vi si reca con alcuni amici e lungo il cammino incontra il capraio Licida, con cui si intrattiene a parlare di arte e di poesia. Teocrito in questo carme, l'unico in cui ci siano riferimenti alla storia contemporanea, esalta Filita ed Asclepiade e afferma la sua preferenza per il carme breve, alla maniera di Callimaco. In questo carme si vede chiaramente il gusto di Teocrito per i particolari e per gli aggettivi scelti con cura, basti pensare con quale precisione è descritto il momento del mezzogiorno: "dove vai a mezzogiorno, quando anche la lucertola dorme sui muretti e neppure le lodole capellute, amiche delle tombe, vanno aliando?'. La descrizione della natura è accuratissima, come si può notare da espressioni come le arse cicale, dove in due parole Teocrito ha rievocato con estrema precisione un aspetto particolare e ricorrente della campagna mediterranea.

Mietitori

Il carme si articola sul dialogo tra due pastori, il debole Buceo, stremato dalle pene d'amore, e Milone, lavoratore instancabile. Particolarmente riuscita è la descrizione che Buceo fa della donna per cui ha preso la testa, in cui Teocrito riprende alcune immagini sensuali tipici dell'ellenismo, come i piedi ("i tuoi piedi son gioielli d'avorio").

Ciclope

Il protagonista di questo carme è il turpe ciclope Polifemo, che non riesce a dimenticare il suo amore infelice per la bella Galatea, ninfa marina che gli è del tutto indifferente. Il carme è particolarmente riuscito perché il ciclope non è il vendicativo ciclope omerico, ma è un uomo- ciclope, bruttissimo esteticamente, ma dotato di profondi sentimenti umani. Molto belle sono alcune immagini, come il latte e il cacio, umile frutto del proprio lavoro che il ciclope offre alla bianca Galatea, aggettivo che sia descrive il candore con cui il ciclope vede la ninfa sia evoca l'intima sensazione tattile legata a quell'aggettivo. E quando il ciclope raffronta il suo mondo con quello di Galatea sembra quasi di vedere l'acqua dell'oceano, tanto è descritta minuziosamente. Teocrito non stravolge la natura a livello fisico, ma solo a livello di sensazione infondendo il proprio affiato poetico.

Amore di Cinisca

Eschine racconta all'amico Tionico le sue pene d'amore: il suo posto nel cuore di Cinisca è stato preso da un altro ed egli ora, solo e disperato, medita di abbandonare la sua terra per dimenticare. L'amico gli consiglia di andare alla corte del re Tolomeo, di cui fa un elogio smaccato. Teocrito scende nel particolare fino a raggiungere livelli estremi, come quando descrive il volto di Eschine smunto dalla passione. Tionico incoraggia l'amico a non perdere tempo: si deve agire quando si è giovani.

Siracusane

Le Siracusane sono il capolavoro di Teocrito per quanto riguarda il campo della poesia realistica. Gorgo si reca a casa di Prassinoa e la convince ad andare a palazzo ad assistere alla festa di Adone; le due donne si fanno largo tra la folle e riescono ad entrare e a sentire la canzone in onore di Adone. Il mimo si allarga fino ad affrescare la variopinta folla dell'Alessandria del III a. C., ma le due figure borghesi sono talmente realistiche che appartengono ad ogni tempo e ad ogni luogo.

Incantatrice

Protagonista di questo mimo è Simeta, una povera donna abbandonata dall'uomo che ama. Nella prima parte la donna tenta con ogni mezzo di far tornare da lei l'amato, ricorrendo anche alle sue arti magiche; nella seconda rievoca la sua triste storia d'amore e confida a Selene, dea della notte, le sue pene. In questo mimo Teocrito abbandona il suo abituale tono disincantato, ricorrente nella maggior parte dei carmi bucolici, e canta con commossa e profonda partecipazione la passione ardente di Simeta. Teocrito si rifà anche a Saffo per indicare la fisicità del tormento amoroso ("giallo come il tapso diventava il colore della mia pelle"). Il poeta riprende anche la confusione dell'animo di Simeta, descrivendo prima Eros come dolcissimo, e poche righe dopo come perverso e portatore di male. Per la prima volta troviamo in un'opera di poesia i giochi dei bambini, testimonianza di quale livello di quotidianità Teocrito arrivi a descrivere. Teocrito in questo mimo ci presenta il destino dell'uomo come sofferenza e rassegnazione, mentre la natura segue impassibile il suo corso. Questo resta un caso unico anche nella poesia teocritea, perché Teocrito, come Callimaco, è spirito alieno dalle grandi passioni, non ama affrontare i grandi problemi della vita e non ha grandi ideali da proporre. Lui cerca soltanto l'evasione in un mondo semplice e primitivo, dove è bello sognare e dimenticare; una sola cosa ha veramente voluto offrire agli uomini, la dolcezza e il conforto della sua poesia.

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Si dice nativo di Siracusa (idillio 28), ma deve aver soggiornato a lungo a Cos ed Alessandria (idilli 7 e 15), sia perchè ne conosce bene la topografia, sia perchè nelle sue opere si notano affinità con Apollonio, Callimaco e l’ambiente letterario di Alessandria.

Il "corpus" teocriteo è formato da...

"Zampogna" - carme figurato in cui i versi rappresentano l’oggetto cantato;

"Epigrammi" - 27, passati nell’Antologia Palatina, ma non tutti autentici;

"Idilli" - 30 (in precedenza l’idillio corrispondeva al carme breve, solo poi gli si darà una sfumatura lirico-campestre; si suddividono in bucolici (10, come le ecloghe di Virgilio, riprendono precedenti popolari), mimi (sono 3 e riprendono un genere già affermatosi in precedenza), epilli (5 di numero), carmi in dialetto ionico od edolico, carmi occasionali (solo uno: "Conocchia"), encomiastici (2: "Per Ierone" e "Per Tolomeo").

Caratteristiche: i motivi dominanti della poesia teocritea sono il paesaggio (in quello urbano è l’uomo al centro degli interessi; in quello rurale la natura ha il sopravvento) e l’amore inteso nei suoi aspetti più diversi. Teocrito è stato considerato padre dell’Arcadia, Arcadia intesa sia come possibilità di parlare del reale servendosi di nomi falsi, sia come luogo fittizio in cui riflettere l’amore e la sua problematica. Il suo idillio più bello, soprattutto per il vivo realismo, è "Le Siracusane". La lingua è un insieme di linguaggio parlato e di reminiscenze letterarie: il tutto sommamente curato. Il verso preferito da Teocrito è l’esametro dattilico.

CRITICA

GARZYA - La varietà dei temi trattati mostra che Teocrito è un compiuto letterario alessandrino, anche se due sorgenti di poesia, quali sono l’amore e la natura, una notevole capacità drammatica ed una grande abilità descrittiva lo fanno vero e grande poeta. La natura più congeniale alla vena teocritea è certo quella siciliana e mediterranea in genere; i suoi pastori, però, piuttosto che pensare alla fatica quotidiana, si dedicano all’amore ed alla poesia, si travestono da personaggi più grandi di loro, e questo potrebbe risolversi nel grottesco, se Teocrito non facesse ricorso ad una lieve patina di ironia.

CANTARELLA - Teocrito muove da premesse teoriche simili in parte alle callimachee, anche se espresse con minore impegno. Il paesaggio è un luogo ideale e segreto dove l’anima si rifugia e si abbandona al sogno, immergendosi nella natura felice e benigna. Teocrito è il poeta alessandrino che più ha cantato d’amore con varietà e felicità di toni, anche se quello dei personaggi teocritei è l’amore non corrisposto, infelice.

SBORDONE - Mentre il modo come Teocrito descrive la natura è, di solito, manierato, convenzionale, insincero, la novità più importante consiste nell’uso dell’esametro come mezzo d’espressione del dialogo in una forma d’arte tutt’altro che eroica. Teocrito è un vero poeta: profondità del sentimento amoroso, sensibilità di fronte alla natura, potenza realistica dell’espressione ce lo fanno considerare la vetta più alta della poesia post-classica.

 

Riflessi su... -> VIRGILIO - "Bucoliche"

La Storiografia

Gli storiografi minori dell'ellenismo si sono distinti nell'esaltare la figura di Alessandro Magno, figura che ha colpito gli animi di molti seguaci eruditi. Abbiamo una storiografia encomiastica ma realistica. I generali di Alessandro sentirono spontaneamente il bisogno di incoraggiare gli intellettuali a tessere le lodi del grande conquistatore; fu una lode non costretta, ma libera (unico caso di esaltazione spontanea del principe). La storiografia assunse un carattere moralistico (1a storia vista secondo le categorie del bene e del male) e retorico (1'opera storica era considerata come un'opera d'arte e gli storici si preoccupavano di ricercare il diletto del lettore), visione che portava lo storico ad inserire una gran quantità di aneddoti per arrivare all'insegnamento morale. Della produzione storica del primo Ellenismo non ci è pervenuto nulla; tra gli storici più famosi ricordiamo Timeo e Duride, intellettuali molto colti ed eruditi. Il maggior rappresentante della storiografia ellenistica fu Polibio, il quale scelse una linea d'indagine molto più moderna, criticando duramente le involuzioni e le degenerazioni dei suoi contemporanei.

Timeo

Originario di Taormina, fu lo storico più notevole del mondo occidentale. Scrisse le Storie che, in circa 38 libri, esponevano le vicende della Sicilia e della Magna Grecia dalle origini mitiche fino a forse l’inizio della prima guerra punica (264). Timeo inseriva nella sua opera le storie dei vari popoli che entravano in contatto con i Greci, tra cui la storia dei Romani (l’opposto di quello che opererà Polibio). Il grande storiografo gli rimproverò un’eccessiva erudizione data dalle fonti (Timeo lavorò per 50 anni nelle biblioteche d’Atene) e non da una diretta conoscenza dei luoghi e dei fatti. A parte questo, Timeo fu uno storico accurato e obiettivo, che si interessò di molte cose, anche diverse tra loro.

Duride

Originario di Samo, fu il teorico e il rappresentante della storiografia drammatica. Le sue opere principali furono le Storie e la Storia di Agatocle, tiranno di Siracusa e grande nemico dei Cartaginesi. In un frammento, Duride espone il suo programma, affermando che il compito dello storico è quello di dilettare il lettore rappresentando i fatti drammaticamente.

POLIBIO

Fu il più grande storico della letteratura dell’ellenismo. Esaltò non la potenza greca, ma la nascente potenza di Roma, che avrebbe conquistato l'intero mediterraneo. Oltre a mettere Roma al centro della sua storia, la sua seconda caratteristica fondamentale è quella di preoccuparsi di ricercare le cause con la massima accuratezza possibile.

Nato in Arcadia poco prima del 200 a.C. da una famiglia di stampo aristocratico che partecipava attivamente alla Lega achea, Polibio fece la sua carriera politica all'interno della Lega aderendo al partito avverso ai romani, finché, dopo la battaglia di Pidna, all'interno della Lega prevalse il partito filo-romano e per sua istigazione furono deportati a Roma mille cittadini del partito avverso, tra cui Polibio. L'esilio durò 17 anni e costituì una svolta importantissima nella sua vita e nel suo pensiero; ospitato nella casa del vincitore di Pidna, il console Emilio Paolo, entrò in amicizia con il più giovane dei suoi figli, Scipione Emiliano, il quale lo introdusse nel circolo degli Scipioni. A contatto con il pensiero politico, culturale e filosofico (lo stoicismo stava allora diventando l'ideologia della classe dirigente) della Roma del tempo, Polibio cominciò a rinnegare la sua ostilità di cittadino acheo e a ricercare le cause della prepotente ascesa della potenza romana. Lentamente si convertì alla causa di Roma e si convinse che il suo impero era voluto dalla stessa tuch. A questo periodo risale a composizione delle Storie. Finalmente nel 150 Polibio poté far ritorno in patria, ma non vi rimase a lungo; seguì Scipione Emiliano nella terza guerra punica a fianco del quale assisté alla caduta di Cartagine, e compì numerosi viaggi per visitare quei luoghi che andava descrivendo nelle Storie. Morì in patria a 82 anni per una caduta da cavallo.

Ci resta un terzo della sua opera maggiore: le Storie. Comprendenti 40 libri, le Storie narravano gli avvenimenti d'Oriente e d'Occidente dal 264 (inizio della prima guerra punica) al 144 (due anni dopo la distruzione di Cartagine e di Corinto). Tuttavia i primi due libri trattano brevemente il periodo 264-220 e fanno da introduzione, così che l'opera vera e propria inizia con la seconda guerra punica. Conserviamo per intero i primi cinque libri (264-216); degli altri abbiamo estratti e frammenti. E' ipotizzabile che siano state fatte fino a cinque edizioni dell'opera, come che essa sia stata pubblicata postuma, senza la revisione da parte dell'autore. Da sottolineare come Polibio si interessa essenzialmente della storia a lui contemporanea.

Nell'ellenismo è possibile determinare con precisione le caratteristiche di un'opera storica perché ogni autore era solito specializzarsi in un determinato settore. Cosi la storia di Polibio può essere definita grazie a due aggettivi: universale e pragmatica. Universale nel senso che Polibio contempla l'intera storia romana e relaziona ad essa la storia di tutte le altre popolazioni (le altre storie sono degne di essere raccontate solo se in funzione dell'unica grande storia, quella romana). Questa visione ha origine nel fatto che la stessa tuch ha voluto creare con l'impero romano "la più bella delle sue opere" e quindi l'evidenza stessa delle cose impone di superare le storie particolari per giungere a una visione unitaria dell'insieme. Pragmatica in quanto Polibio si basa solo sui fatti realmente accaduti, sulle "imprese compiute dai popoli, dalle città e dai monarchi"; gli storici moderni, invece, si basano, oltre che sui fatti in sé e per sé, anche sul contesto e sulle molteplici cause. Nel libro XII, criticando aspramente gli storici precedenti, Polibio chiarisce ulteriormente il carattere della sua storia pragmatica; la storiografia abbraccia tre campi: studio dei documenti, informazione geografica, conoscenza della politica. Polibio è lo storico più oggettivo del suo tempo nel riportare i fatti: ricorre a più fonti, le verifica per quanto gli è possibile, cerca di visitare di persona tutti i luoghi di cui narra per rendere le sue descrizioni le più precise possibile (in questo si accosta ad Erodoto, il quale però mirava all'edonh, cioè ad interessare il lettore). L'interesse per la geografia, così come l'essere precisi e il ricercare il passato, sono caratteristiche comuni a tutto l'ellenismo. Comune a Tucidide è invece l'interesse per la politica, in quanto l'ateniese voleva esaminare la società nel modo più complesso possibile; l'interesse di Polibio per la politica è strettamente connesso alla realtà dei fatti accaduti. Anche in Polibio, come in Tucidide, c'è la presenza di discorsi diretti da parte dei protagonisti, ma i due autori diedero tagli molto diversi ai loro discorsi: Tucidide, attraverso il discorso, voleva farci conoscere l'animo di chi lo pronunciava, Polibio si atteneva ai discorsi effettivamente pronunziati, senza inventare o ricostruire arbitrariamente nulla. I suoi dialoghi, rispetto a quelli riportati da Tucidide, sono ancora più specifici e personalizzati, non messi in relazione all'interlocutore a cui il personaggio si rivolge. Questo perché a Polibio non interessa minimamente descrivere la società in cui vive o è vissuto il personaggio. I suoi dialoghi sono quasi dei monologhi nel senso che a Polibio non interessa farci capire come questi discorsi possono essere recepiti da chi ascolta, ma vuole farci capire quali intenzioni avesse chi pronunciò il discorso. In Polibio nei discorsi c e solo individualismo, non emblema della società; la stessa finalità sarà ripresa da Livio. Non c’è interesse per l'oratoria (che invece costituirà la base della storiografia latina).

Polibio cerca attentamente di rintracciare le cause della vicenda storica e opera una distinzione per quanto riguarda le cause, che vengono suddivise in tre tipi:

· aitia = causa vera del fatto storico (accettata universalmente).

· profasis = pretesto ufficiale, causa apparente (non la vera motivazione).

· arké = causa iniziale, scintilla, causa scatenante.

Quando non è possibile recuperare l’aitia si ricorre alla tuch; questo è tipico dell'ellenismo (durante il quale l'uomo, dove non arriva con la gnosiV, arriva con la tuch) e avverrà anche in Tacito. La realtà del contesto storico porta Polibio a ricercare quindi l'elemento casualistico, che riveste una grande importanza ma che non assume un significato univoco: ora la tuch si avvicina alla provvidenza stoica, ora personifica il caso e l'irrazionale, ma in realtà costituisce un'espressione di comodo che esclude un vero significato religioso e filosofico.

Tre libri interrompono la trattazione in rigoroso ordine annalistico e costituiscono degli excursus all'interno del poema; il libro VI sulle costituzioni, il libro XII sulla storiografia precedente e il libro XXXIV sulla geografia del mondo mediterraneo. Il libro VI, in gran parte conservato, contiene l'esposizione della famosa teoria dell'anagnosiV, ossia del ritorno ciclico delle costituzioni. Esistono sei forme di governo possibili, tre buone e tre cattive in cui le buone necessariamente devono degenerare:

I. Monarchia (ogni stato nasce perché qualcuno si è imposto sugli altri) ereditaria che diventa elettiva per l'incapacità dei successori.

II. Tirannide (degenerazione della monarchia).

III. Aristocrazia (i migliori, per potenza e virtù morali, s'impadroniscono del potere).

IV. Oligarchia (degenerazione dell'aristocrazia; i migliori si sono rivelati incapaci e la corruzione regna sovrana).

V. Democrazia (governo del popolo che prende il potere).

VI. Oclocrazia (ocloV = folla; è un hapax di Polibio. Quando Cicerone riprenderà la visione polibiana userà il termine anarchia per indicare il caos più totale che viene con la degenerazione della democrazia).

Ogni stato deve, per una sorta di immutabile legge naturale, percorrere tutte le sei fasi del ciclo, alla fine del quale se ne instaurerà uno nuovo. Esiste però un particolare tipo di costituzione, detto costituzione mista, che è riuscita a racchiudere in se le tre fasi positive, conviventi insieme. Solo due stati al mondo, la Sparta di Licurgo e Roma, hanno adottato questa costituzione, nella quale la monarchia è rappresentata dai due consoli (monarchia in quanto ciascuno dei due può esercitare il diritto di veto e bloccare le decisioni), l'aristocrazia dal senato e la democrazia dai tribuni della plebe, che garantiscono la presenza del popolo al governo della città. Ecco il segreto della potenza di Roma: l'aver assunto la costituzione più perfetta possibile, che le ha permesso di evitare l'anakuklosiV, il ciclo ripetuto. Tuttavia Polibio ritiene che ogni stato è destinato alla decadenza, anche Roma, e ciò avverrà quando il popolo, avido di dominio, avrà aumentato il proprio potere oltre ogni misura.

Come per Tucidide, il fine della storia è il maqema; la storia deve essere magistra vitae, deve insegnare agli uomini come agire. Questo insegnamento è a livello pratico e materiale, tipico di una mentalità romanizzata come era quella polibiana.

Polibio ha una particolarissima (e, per la quasi totalità dei critici, limitata) visione della religione. La religione non è altro che un'abile invenzione dei capi che serve a tenere a freno le masse e a garantire l'ordine sociale. L'intervento divino può essere forse invocato per spiegare avvenimenti straordinari, come carestie e pestilenze, ma in genere i fatti umani hanno spiegazioni naturali. A questa visione fondamentalmente atea si contrappone. solo in apparenza la presenza della tuch nella storia, in quanto essa, come abbiamo visto sopra, costituisce solo un'espressione di comodo.

Il limite più grande di Polibio è costituito dal suo stile. Egli adopera la koiné nella sua versione peggiore, la sua lingua, tranne rare eccezioni, è arida e priva di colore e il periodo è prolisso e monotono. Polibio ha il pregio di essere chiaro, ma è privo dell'arte dello scrivere.

LO STOICISMO

Lo Stoicismo fu la corrente di pensiero più diffusa nell’Impero romano nel I e II secolo d.C. La nuova Stoa, detta romana perché a Roma principalmente si sviluppò, si differenziò sempre di più dall’antica e dalla media, disinteressandosi della fisica e occupandosi prevalentemente di etica. Questo perché lo Stoicismo subì la generale crisi religiosa del periodo greco-romano, che determinò una generale sfiducia nella ragione, un rifiuto di cercare la risposta ultima e un accentuato misticismo nella pratica della filosofia. Non a caso in questo periodo si diffonde lo Scetticismo, che predicava la sospensione del giudizio. Lo Stoicismo si trovò così a predicare il distacco della vita e la preparazione alla morte. Gli esponenti principali della nuova Stoa furono Seneca, Epitteto e Marco Aurelio; dei tre Seneca scrisse in latino, ma generalmente la lingua usata dagli stoici romani fu il greco.

Epitteto

Nato verso il 50, schiavo frigio deportato a Roma, fu in seguito liberato e nella capitale iniziò ad insegnare filosofia. Sotto Domiziano fu messo al bando insieme ad altri filosofi e si stabilì a Nicopoli in Epiro, dove continuò l’insegnamento.

Il discepolo Arriano, registrando fedelmente le lezioni del maestro, ce ne ha tramandato la dottrina negli 8 libri delle Diatribe (ne restano quattro) e nel famoso Manuale. Il pensiero di Epitteto si può riassumere nella massima anecou kai apecou (sopporta e astieniti), che propone un etica incentrata sull’ideale della sopportazione e della rinuncia. L’importanza di Epitteto non sta tanto nell’originalità del suo pensiero, quanto nella forza e nella coerenza con cui egli visse la sua filosofia come una religione, non cercando di comprendere la verità, ma di viverla, non aspirando alla "scienza", ma alla "sapienza".

Marco Aurelio

Imperatore-filosofo: questo è l’epiteto che la storia gli ha assegnato. Scelto per condurre il più grande impero che fosse mai esistito, Marco Aurelio cercò, nella vita di ogni giorno, di affidarsi alla filosofia e ai principi che da questa gli derivarono: "devi adattare te stesso agli eventi ai quali il destino ti diede in sorte d’esser compagno. E ama, ma davvero, gli uomini ai quali la sorte t’ha posto accanto".

Marco Aurelio nacque a Roma nel 121 e fu educato fin dalla fanciullezza ai principi dello stoicismo. Adottato da Antonino Pio nel 138 e designato erede al trono, ebbe come precettore Frontone, che tentò d’insegnargli l’arte della retorica, ma il discepolo si mostrava più attratto dalla profondità del contenuto che dalla bellezza della forma. Nel 161 Marco Aurelio divenne imperatore, e attese al suo compito con dignità e umanità, cercando di mettere in pratica i principi che lui stesso si era posto. Le dure necessità dell’Impero lo costrinsero a stare in guerra per quasi tutta la durata del suo regno, combattendo in Oriente contro i Parti e sulla frontiera del Danubio contro Quadi e Marcomanni; su quest’ultimo fronte morì, nel 180 d.C. Cassio Dione ci tramanda che, sul punto di morte, l’imperatore disse al tribuno che gli chiedeva la parola d’ordine: "va’ verso l’aurora, io ormai sono al tramonto".

Di Marco Aurelio conserviamo un’opera in 12 libri, intitolata ta eiV eauton (A se stesso) e contenente circa 470 pensieri o considerazioni, appuntati l’uno accanto all’altro senza una prestabilita sequenzialità e scritti la maggior parte durante le campagne militari. Questi pensieri riguardano l’uomo e non propriamente l’imperatore, così che da Marco Aurelio s’impara sempre, perché le sue riflessioni sono utili anche oggi. Più esattamente, nei Pensieri Marco Aurelio si comporta come se stesse parlando con la sua anima: il Marco Aurelio filosofo colloquia con il Marco Aurelio uomo, e noi siamo portati immediatamente ad indentificarci con quest’ultimo. Questo modo di procedere è affine a quello che adotta Seneca nelle Epistole morali, con la differenza che Seneca dice di conoscere già il cammino, mentre Marco Aurelio fa compiere il cammino al lettore camminando con lui. La vita è breve ed il tempo va speso migliorando se stesso e gli altri; Marco Aurelio non parla, come fece Seneca, di un sapiens, ma di un uomo virtuoso che spende il suo tempo facendo da esempio e aiutando gli altri. L’uomo deve donare liberamente e spontaneamente all’altro uomo, e lo deve fare di nascosto (riprende qui i precetti del De beneficiis di Seneca). E’ un atteggiamento più greco che romano.

Su 470 pensieri, ben 100 riguardano il pensiero della morte, che è innanzi tutto sentita come crewn (=necessità); tutto ciò che nasce deve poi morire. La vita è troppo breve, secondo Marco Aurelio ("il tempo dell’umana vita è un punto"), ma si può lo stesso viverla con onestà (è antesignano del Cristianesimo). L’uomo ha l’urgente ("il momento fatale incombe su di te; finché ti dura la vita, diventa buono") necessità di vivere sempre in maniera onesta (capovolgimento del Carpe diem di Orazio). Sarà logico, per Marco Aurelio, desiderare che la morte giunga il prima possibile nel momento della grande sofferenza. L’uomo deve vivere in linea con i dettami che lui stesso si è dato, nonostante i tanti mali e le difficoltà dell’esistenza; solo in questo modo l’uomo sarà realmente pago di se stesso. Il suicidio è ammesso solo nel caso in cui l’uomo, oggettivamente, sia impossibilitato ad esercitare la virtù. Il "poter", in questi casi, suicidarsi, equivale però a un "dover", in quanto costituisce la scelta migliore da fare. Similmente, la guerra non è un male solo se è fatta per legittima difesa. Marco Aurelio vuol fare del bene agli altri non imponendo la strada, ma è l’uomo che, con il suo stesso esempio, trascina gli altri; e quale esempio migliore di quello di un imperatore che ha toccato con mano le difficoltà della vita. Tornando al discorso della morte, Marco Aurelio ne dà tre definizioni:

1. fuseos ergon (= azione della natura). "Colui che è stato causa, in un primo momento, della tua composizione, è lo stesso che in questo istante è causa della dissoluzione. Tu, invece, non c’entri né per l’uno né per l’altro fatto". Lo stesso nascere è un cominciare a morire, e per questo dobbiamo prepararci fin dal giorno della nascita. La vita è un dono e non possiamo sprecarlo.

2. fuseos misterion (= mistero della natura). Non sappiamo con certezza dove vada a finire l’anima dopo la morte. Marco Aurelio, stoico, ondeggia tra la visione della metempsicosi e l’idea stoica dell’eterno ritorno.

3. metabolé (= cambiamento di stato). La vita muore e dalla morte si passa ad una nuova vita; è un pensiero solo accennato, non organicamente concepito.

La conclusione di Marco Aurelio riguardo alla morte è questa: se ti sei comportato virtuosamente, non ne devi avere paura (la sua conclusione si avvicina, paradossalmente, a quella degli epicurei).

Per Marco Aurelio, l’uomo cerca di raggiungere il piacere, concepito in maniera diversa dal piacere epicureo. L’imperatore-filosofo distingue due diversi tipi di piacere:

1. Piacere cinetico; piacere in movimento, misto a dolore.

2. Piacere catastematico; piacere fisso, in riposo, vero piacere, distinto di piaceri naturali e necessari, piaceri non naturali ma necessari, piaceri non naturali né necessari.

L’uomo, cercando il piacere, lo troverà il qualcosa di tangibile, come, per esempio, la bellezza (piacere transeunte). Perché, per Marco Aurelio, aspirare a qualcosa di caduco? Su questo punto gli sono state mosse alcune obiezioni, in quanto sembra che l’imperatore-filosofo non riesca a concepire nessun concetto valido di per sé, come la bellezza, la gloria o la fama, che sono sempre e necessariamente relazionati agli altri uomini, e quindi piaceri effimeri.

Marco Aurelio esamina la vita degli uomini e rimane amareggiato nel vedere gli uomini come dei cagnolini che si mordono la coda gli uni gli altri. "Siamo nel mondo per reciproco aiuto; in conseguenza è contro natura ogni azione di reciproco contrasto"; questa è la comprensione e la solidarietà che propone Marco Aurelio. "Gli uomini sono nati l’un per l’altro; conseguenza: o li rendi migliori con l’insegnamento oppure sopportali". Questo perché ritiene che tutti gli altri uomini siano parte di noi, come noi siamo parte del tutto, come l’ape lo è dello sciame; di conseguenza "una cosa che non arreca utilità allo sciame non ne arreca all’ape". E su questi precetti Marco Aurelio impostò la sua vita da imperatore del più grande impero che la storia avesse mai conosciuto.

PERIODO GRECO-ROMANO

Nel 30 a.C. cade l’ultimo dei regni ellenistici; ora la cultura greca è totalmente soggetta al dominio di Roma e si avvia verso il declino. Tuttavia, emergeranno ancora figure rilevanti come Plutarco, Luciano, Marco Aurelio, senza contare che il greco divenne la lingua del dirompente Cristianesimo negli anni della sua affermazione in tutto l’Impero.

L’ultimo periodo della letteratura greca va dal 30 a.C. (conquista dell’Egitto) al 529 d.C. (soppressione della scuola neoplatonica di Atene per ordine dell’imperatore Giustiniano). Tra le varie denominazioni possibili, si è scelto quello di periodo greco-romano per evidenziarne il carattere fondamentale: la letteratura greca si sviluppa ora in un mondo dominato politicamente e culturalmente da Roma, e non può più prescindere dal suo legame con essa.

Nel campo politico Grecia e regioni orientali, come anche le altre parti dell’Impero, non hanno nessuna indipendenza: ridotte a province imperiali, sono governate da proconsoli eletti dal senato (le province senatorie) e da legati scelti dall’imperatore (quelle imperiali). Nei primi tre secoli, tuttavia, gli imperatori permisero una certa autonomia locale e favorirono la formazione di una classe dirigente locale che, entro le strutture imperiali, regge l’amministrazione della città. Con l’avvento di Diocleziano (284-305) scompare ogni residua traccia di autogoverno cittadino e ogni parvenza di autonomia delle poleiV. Nello stesso tempo, con l’introduzione della tetrarchia (divisione dell’impero in quattro zone rette da due Augusti e da due Cesari) si avvia un processo che porterà al completo distacco fra le regioni orientali e quelle occidentali, distacco sancito da Teodosio nel 395 con la creazione dell’Impero d’Occidente, ben presto miseramente travolto da onde si barbari, e dell’Impero d’Oriente, che riuscì a sopravvivere per circa un millennio (1453, caduta di Costantinopoli) e fu chiamato Bizantino.

In campo economico si diffuse in tutto l’Impero quel "capitalismo urbano" che aveva contrassegnato il periodo ellenistico: la città è il centro di tutte le attività produttive e commercia fiorentemente con le altre, trovando in una borghesia ricca e intraprendente il suo principale sostegno. Si raggiunse l’apice di questo sviluppo produttivo, ma soprattutto commerciale, nel II secolo, durante l’età di Adriano e degli Antonini. Nel frattempo si acuivano le tensioni sociali: all’agiatezza delle classi medie si contrapponeva la miseria del proletariato urbano e contadino. Nel III secolo scoppiò una grave crisi che portò ad una lunga anarchia militare e a sanguinose lotte di classe. Le riforme di Diocleziano e di Costantino cercarono di portare un rimedio a questa situazione, ma riuscirono solo in parte. Ne seguì un impoverimento progressivo, che portò al sostituirsi ad un’economia di tipo urbano, soprattutto nelle regioni occidentali, di una "economia domestica"; le città perdettero il loro importante ruolo, aumentò il significato ed il peso della campagna. Erano i prodromi del Medioevo.

In campo culturale, generalizzando, si avverte un’esasperazione delle tematiche ellenistiche. L’individuo si dissocia sempre di più dalla vita politica, sentendo estraneo a sé il significato e il destino dell’Impero. Nella generale instabilità politica, economica e sociale non crede più nella razionalità delle cose e afferma l’ideale della rinunzia e della fuga dal mondo, ricercando la salvezza dell’uomo nella sua interiorità e più ancora in Dio. La religione tradizionale ha definitivamente perduto ogni ragion d’essere: ora sono le religioni orientali e i culti misterici ad appagare le esigenze spirituali dei cittadini dell’Impero. La ricerca scientifica perde il suo carattere sociale e diventa uno strumento con cui poter accedere alla salvezza, confondendosi sempre di più con la magia, l’astrologia, l’alchimia. Anche la filosofia smette di ricercare la santità a favore della salvezza dell’uomo, privilegiando la rivelazione alla ragione e spesso sfociando in una fede religiosa (il neopitagorismo, lo stoicismo, il neoplatonismo di Plotino…). In questo clima di stanchezza e di sfiducia, mentre la sapienza antica canta il suo vanitas vanitatum, sorge il Cristianesimo e a predicare la mondo la "Buona novella". Uscito vittorioso da secoli di lotte e di persecuzioni, il Cristianesimo ottenne prima la libertà di culto (313, Editto di Costantino), e fu poi riconosciuto religione ufficiale dell’impero (380, editto di Teodosio), andando a rappresentare la svolta decisiva di questo periodo.

La letteratura del periodo greco-romano mostra evidenti segni di decadenza, acuiti, oltre che dal clima generale, dall’invadenza della retorica, che la rese vuota e sterile, e dalle mode classiciste che proponevano l’imitazione del passato, a scapito delle creazioni originali. Pure, si affermarono ancora notevoli scrittori, come Plutarco e Luciano, nobili figure di imperatori-filosofi, come Marco Aurelio e Giuliano, un geniale pensatore come Plotino. Il romanzo conobbe adesso la sua massima diffusione, e anche la poesia presenta qualche voce nuova, come quella dell’epigrammatista Agatia, autore del Ciclo. Infine, accanto alla letteratura profana sorse quella cristiana, che utilizzò il greco per diffondere il Vangelo in tutto l’Impero (il Nuovo Testamento è interamente in greco).

Con la chiusura della scuola neoplatonica, avvenuta nel 529, si fa finire tradizionalmente la letteratura greca antica; ma essa non finì mai veramente: la civiltà bizantina e cristiana ne assorbì gli elementi più fecondi e ne continuò l’eredità nei secoli del Medioevo.

PLUTARCO

E’ il biografo per eccellenza della cultura greca, colui che ha creato che le sue Vite eroi immortali che sono stati visti nei secoli come modelli di virtù e di perfezione morale, o come simboli d libertà e di ribellione alla tirannide, o come esempi di destini tragici e dolorosi, o infine come rappresentanti dei più autentici valori umani.

Nacque a Cheronea in Beozia poco prima del 50 d.C. da una famiglia che apparteneva alla tipica borghesia del periodo imperiale. Completò la sua formazione ad Atene, aderendo al platonismo. Compì numerosi viaggi e fu a più riprese anche a Roma, ma non vi rimase a lungo; egli amava il piccolo borgo di Cheronea che non voleva abbandonare e dove trascorse la maggior parte della sua esistenza, dedicandosi ai suoi studi e occupando anche importanti cariche pubbliche nell’amministrazione cittadina. Per molti anni fece anche parte del collegio sacerdotale del vicino santuario di Delfi; assieme al platonismo, l’esperienza religiosa fu determinante per la formazione della sua concezione morale. Morì poco dopo il 125.

Della sua vastissima produzione a noi sono giunti due gruppi di opere: i Moralia e le Vite parallele.

Moralia

Sotto il nome di Moralia ci sono pervenuti un’ottantina di scritti (alcuni di dubbia autenticità) che trattano delle questioni più disparate: morali, filosofiche, religiose, pedagogiche, letterarie, politiche, scientifiche, erudite. Nelle opere filosofiche e morali Plutarco espone e divulga il pensiero platonico, polemizzando con epicurei e stoici e proponendo una serie di saggi consigli e pratici rimedi contro i vizi e le passioni, ponendosi come "un medico dell’anima". Inoltre Plutarco fu uno spirito profondamente religioso e animato da un vero interesse per il problema di Dio e della sua opera del mondo; da una parte resta fedele alle credenze e ai riti della religione tradizionale, dall’altra si apre alle esigenze filosofiche e alle idee dei suoi tempi e cerca di pervenire alla concezione di un dio unico e di una religione comune a tutti gli uomini.

Vite parallele

La fama di Plutarco è però legata alle Vite parallele, coppie di biografie nelle quali un personaggio greco viene contrapposto ad un personaggio romano (es. Alessandro-Cesare, Demostene-Cicerone, Teseo-Romolo); spesso, alla fine di ogni coppia segue un breve parallelo che sottolinea analogie e differenze tra i due personaggi studiati. Conserviamo in tutto 50 Vite: di esse 46 sono abbinate e 4 isolate. Questa impostazione rivela che il confronto non è tra i singoli personaggi, ma tra il mondo greco e quello romano, in modo da dimostrare la grandezza di entrambi. Va comunque rilevato che molti accostamenti sono forzati e arbitrari. La biografia di Plutarco segue in genere uno schema fisso: narra in ordine cronologico, dalla nascita alla morte, i principali avvenimenti del personaggio, ponendo una certa attenzione ad aneddoti e particolari curiosi, nell’ottica che "spesso un fatto insignificante, una parola, uno scherzo, manifestano l’indole di un uomo, più delle battaglie sanguinose o dei grandi schieramenti di eserciti o degli assedi delle città". Caratteristica di Plutarco è di porre in risalto i momenti più solenni e più drammatici della vita dei suoi eroi, creando scene piene di un paqoV che avvince e commuove; questa predilezione per gli eventi più drammatici e per le tinte più fosche e macabre lo avvicina a Tacito. Plutarco definisce nella sua opera il taglio biografico che intende seguire: "non scriviamo storia, ma vite". Infatti, non ha un vero interesse per la storia e spesso è incapace di cogliere i nessi profondi degli avvenimenti e di analizzare in modo globale il contesto storico in cui si muovono i personaggi delle Vite. Il suo scopo dichiarato è quello di presentare al lettore le grandi figure del passato, creandone degli eroi (è più poeta che storico). Gli eroi di Plutarco sono imbevuti delle sue concezioni etiche, in modo che dalle azioni e dal carattere del personaggio si può con immediatezza trarne un insegnamento morale. Questo , se da una parte impedisce una visione profonda dell’esistenza con il giudicare ogni cosa con una visione unilaterale, dall’altra gli permette di disporre i fatti in virtù di un ordine superiore, illuminando il personaggio di una luce singolare da cui emerga il suo carattere e la sua grandezza. L’eroe di Plutarco non è perfetto, non è esente da difetti o da errori, ma anche nei suoi aspetti negativi si distingue dagli altri, ergendosi sopra un piedistallo.

Plutarco è confrontabile con tre biografi della letteratura latina: Varrone, Cornelio Nepote, Svetonio. In generale, l’interesse dei latini, volto alla vita, è per i fatti realmente accaduti, per le azioni (fine pragmatico), piuttosto che alla conoscenza del profondo dell’animo del personaggio, ottenuta da Plutarco facendo ricorso all’elemento patetico. Con Cornelio Nepote siamo nella fase delle guerre civili, ed il suo travaglio interiore si rispecchia nel De viris illustribus; anche lui aveva adottato lo stesso sistema di confrontare Greci e Romani con intento moralistico, ma senza l’ampiezza di respiro di Plutarco. Varrone, nei Logi Storici, parla di un miscuglio di razionalità e di azione compiuta; adotta un taglio particolare avvicinabile a Cornelio Nepote perché i personaggi sono travagliati e incapace di aderire a qualcosa di sicuro. Svetonio, nel De vita Caesarum, cammina per categorie chiuse (schema fisso della biografia), avendo già in testa la visione dei fatti. Questo avere un programma già prefissato gli permette di evidenziare i particolari, appagando il suo gusto per l’aneddoto: Svetonio narra la vita degli imperatori come se guardasse dal buco della serratura Plutarco è l’unico tra i biografi antichi che ha un vero interesse per l’uomo e per il suo dramma. Da notare il fatto che i biografi vengono fuori prevalentemente in momenti di crisi.

LA SECONDA SOFISTICA

La Seconda Sofistica si richiama già nel nome alla prima, fiorita in Grecia nel V secolo a.C. Mentre l’antica Sofistica aveva esteso i suoi interessi ai vari campi della civiltà (retorica, filosofia, religione, politica…) e aveva rappresentato un momento decisivo nella storia del pensiero, la Seconda Sofistica riprese e continuò solo l’aspetto retorico e risultò un fenomeno vistoso ed appariscente, ma poco profondo e poco fecondo per l'avvenire. I secondi sofisti si dedicarono quasi esclusivamente alla ricerca della bella forma, facendo sfoggio di bravura stilistica, in argomenti spesso futili o di scarsa importanza; molti di loro furono dei conferenzieri brillanti ed applauditi.

LUCIANO

Vissuto a Samosata sull’Eufrate, si formò di una cultura epidermica e visse un gran senso di sfiducia verso il mondo del divino, che derise apertamente, non per dissacrare ma per divertirsi. Secondo il giudizio di Lesky, "aveva abbracciato lo scetticismo come concezione del mondo e la satira come professione".

Nato intorno al 120 a Samosata sull’Eufrate, imparò il greco a scuola, perché la sua prima lingua fu il siro.

Da ragazzo fu apprendista presso uno zio scultore, ma un incidente sul lavoro pose fine all’esperimento, come egli racconta nel Sogno. Quindi Luciano compì gli studi retorici e iniziò la sua attività di sofista, viaggiando in tutte le regioni dell’Impero fino alla Gallia. Verso i quarant’anni abbandonò la retorica per dedicarsi al dialogo e alla satira; questo improvviso cambiamento e alcuni brani del Nigrino hanno fatto nascere in alcuni critici l’idea di una conversione di Luciano alla filosofia: "il discorso lo condusse a lodare la filosofia, e la libertà che da essa deriva, ed a spregiare quei che il volgo crede beni, la ricchezza, la gloria, la potenza, gli onori, l’oro, la porpora, ed altre cose tanto ammirate da molti, ed una volta anche da me"; "… in breve acquistai acutissima la vista dell’anima, che fino ad allora era stata cieca, ed io non me n’ero accorto". In realtà il Nigrino è sì un’opera che denota un serio atteggiamento di Luciano, ma si trattò di una disposizione momentanea, non di una vera conversione alla filosofia. Negli ultimi anni della sua vita, Luciano fu funzionario imperiale in Egitto; morì probabilmente verso il 190.

Sotto il nome di Luciano ci è giunta una raccolta di 82 scritti, chiamati comunemente Dialoghi. In realtà solo alcuni hanno forma dialogica, altri solo semplici esercitazioni retoriche, altri sono a carattere autobiografico (Sogno, Nigrino) altri sono dei veri e propri romanzi (come Lucio o l’asino), altre sono opere satiriche, divise, secondo l’argomento che prendono a bersaglio, in tre gruppi:

1. Satira filosofica: Vite all’Incanto, Pescatore. Nelle Vite all’Incanto Zeus, con l’aiuto di Mercurio, vende all’asta le vite dei principali filosofi, e i compratori li prendono a pochissimo. Nel Pescatore si immagina che i filosofi che erano stati offesi nelle Vite all’Incanto risuscitino dall’Ade per vendicarsi del loro nemico; Luciano si difende sostenendo che egli ha inteso attaccare i filosofi contemporanei, che hanno tanto degenerato da quelli antichi. Per smascherali getta dall’Acropoli di Atene l’amo innescato con qualche fico e qualche moneta d’oro: subito molti abboccano.

2. Satira religiosa: Dialoghi degli dei, Dialoghi marini, Zeus confutato, Zeus tragedo. I Dialoghi degli dei e i Dialoghi marini (cioè di divinità marine) sono dei mimi in cui gli dei vengono presentati nei loro difetti e nelle loro debolezze. Non è ancora un attacco aperto contro la religione tradizionale, ma un’ironia leggera e velata. La satira diventa audace e aggressiva nello Zeus confutato, dove il padre degli dei non riesce a conciliare destino e provvidenza, e nello Zeus tragedo, dove il padre degli dei è costretto ad appoggiare un filosofo stoico perché vinca una disputa contro un epicureo, evitando così l’oblio dei mortali.

3. Satira morale e sociale: Dialoghi dei morti. Luciano deride apertamente la stoltezza degli uomini ed il loro affannarsi dietro alle grandi passioni; tanto, dopo la morte, tutto si deve abbandonare e tutti nudi e uguali si entra nel regno dei morti: vanità è la ricchezza, vanità è la potenza, vanità è la bellezza. C’è anche un po’ dell’invidia di classe (Luciano, a quanto ne sappiamo, non divenne mai ricco) in questo scherno contro i ricchi e i potenti. Siamo ora nella mordace satira menippea; non a caso il protagonista è il cinico Menippo, al quale viene concesso da Mercurio di portare con sé nel regno dei morti la parlantina, la franchezza, il buon umore, il motto e il riso, "cose vuote, leggere, e buone pel navigare" , contrapposte alle pesantezze del discorso che i retori devono abbandonare prima di salire sulla barca di Caronte.

Il concetto della morte che è uguale per tutti e del giudizio, severo, che non risparmia niente e nessuno è una costante del pensiero di Luciano; la troviamo infatti anche in altri dialoghi, che ribadiscono come siano vane la gloria, la bellezza e la potenza.

Sotto il nome di Luciano ci sono pervenuti due romanzi. Lucio o l’asino è di contestata autenticità, e narra la vicenda di Lucio che viene trasformato in un asino e, dopo varie peripezie, alla fine riacquista la forma umana. L’argomento è lo stesso delle Metamorfosi di Apuleio, ma mancano molte novelle (tra cui quella famosissima di Amore e Psiche e la parte finale che descrive le esperienze mistiche del protagonista. La Storia vera prende spunto dal tentativo di fare una parodia dei romanzi d’avventura, ma finisce con il diventare il più bizzarro e fantasioso racconto (i protagonisti vanno sulla luna, finiscono nel ventre di una balena, giungono nell’isola dei Beati…) che sia mai stato scritto, precorrendo, per certi versi, i Viaggi di Gulliver e Pinocchio.

La satira di Luciano coinvolge tutti gli aspetti della cultura e della società. Nell’età degli Antonini e della Seconda Sofistica grande era il vuoto morale e spirituale, gravi erano i disagi e le ingiustizie sociali: i ricchi e potenti signori romani sfruttavano e vessavano le province, circondati da un nugolo di adulatori e di leccapiedi, gente che cercava con ogni mezzo la gloria e il denaro. Luciano dovette trovarsi proprio a fare questa scelta, se essere uno di loro o remare controcorrente, e scelse la seconda: "io sono un uomo che odia i millantatori, i ciarlatani, i bugiardi, i superbi, tutta la genia dei malvagi... Amo la verità, la bellezza, la semplicità, tutto ciò che è degno di essere amato".

Le invettive di Luciano non sono invettive serie e solenni, ma sono avvolte dall’ironia, che critica amaramente in primis la tradizione ma talvolta anche la realtà contemporanea. In realtà Luciano non crede in un ideale da proporre e da contrapporre alla realtà che critica; il suo scetticismo radicale rivela una grande aridità spirituale. Egli combatte l’ingiustizia sociale, ma non crede che quest’ingiustizia possa in qualche modo venire annullata, e questo atteggiamento lo porta all’incapacità di affrontare i grandi problemi dell’esistenza. Il suo scetticismo è tanto più assoluto in quanto egli non crede neppure nel valore della sua propaganda negativa, non è neppure convinto di riuscire a distruggere veramente qualcosa. L’assenza di una fede qualsiasi e un’aridità spirituale di fondo hanno impedito a Luciano di essere un grande scrittore.

IL ROMANZO GRECO

E’ l’ultimo genere letterario inventato dall’ellenismo, quello che meglio riuscì a rispecchiarne i canoni letterari. Nato tardi, non riuscì a raggiungere quella bellezza e quella perfezione che troviamo negli altri campi della letteratura greca; infatti è ritenuto scarso il suo valore artistico. Tuttavia, il romanzo greco riveste una grande importanza come documento dei tempi e come fenomeno letterario che contribuì al sorgere della narrativa moderna: il romanzo moderno presenta tutt’oggi gli stessi caratteri fondamentali. I frammenti più antichi a noi pervenuti sono quelli del romanzo di Nino (il protagonista) e Seramide, innamorati l’uno dell’altra. In questo, come anche in tutti i romanzi successivi, il filone della trama è sostanzialmente lo stesso: due giovani s’innamorano, vengono separati da un evento casuale, vivono mille avventure, si rincontrano, nulla tra loro è cambiato, si sposano e vivono felici e contenti. Il romanzo di Nino è stato trovato su un papiro del I secolo d.C.; questo fece cadere, alla fine del secolo scorso, la tesi del Rohde, secondo la quale il romanzo sarebbe nato dalla fusione dell’elemento erotico con l’elemento avventuroso, fusione che sarebbe avvenuta nella pratica retorica della Seconda Sofistica. L’origine del romanzo è, invece, probabilmente da ricercare nel fatto che non fu un genere, come molti altri, destinato a pochi eruditi, ma alla classe borghese, benestante, non molto acculturata e spoliticizzata, che non si interessava più ai grandi problemi e cercava di evadere dagli angusti limiti della realtà quotidiana: era un genere d’evasione. Questo spiega anche il fatto - ed è unico per la letteratura greca- che solo i romanzi greci siano stati trovati in frammenti di papiro riutilizzato: era evidentemente un genere che non aveva molte pretese, come non ne avevano gli stessi autori, i quali non erano troppo eruditi e non trasmettevano alcun tipo di valori.

Due sono gli elementi fondamentali del romanzo greco: l’amore e l’avventura. L’amore sarà normale (ossia tra un ragazzo e una ragazza) e si ricollega alla feconda produzione poetica, in cui era uno dei temi più trattati dell’ellenismo, mentre le avventure di viaggio avevano avuto il loro battesimo con Omero (i viaggi di Ulisse finalizzati alla swfrosunh) e avevano trovato la loro piena espressione con le Argonautiche di Apollonio Rodio, appagando il gusto per l’esotico e la tendenza verso il cosmopolitismo tipici dell’ellenismo.

L’ASINO D’ORO \ LE METAMORFOSI

Un famoso romanzo greco è il, già citato a proposito di Luciano, Lucio o l’asino, il quale ricalca nelle linee fondamentali la trama delle Metamorfosi di Apuleio, tanto che si è addirittura pensato, per le Metamorfosi, ad una traduzione in latino di un’opera greca. Quest’ipotesi è un po’ forzata, perché un autore di grande levatura e preparazione come Apuleio, difficilmente si sarebbe accontentato di fare una semplice traduzione; è più probabile che le due opere abbiano un’origine comune, da ricercarsi, pare, in una piccola opera greca, denominata l’Asino d’oro, scritta da un certo Lucio di Patre di cui ci dà notizia il patriarca Fozio. Purtroppo non abbiamo altre informazioni su Lucio di Patre né resti della sua opera, per cui questa rimane una semplice ipotesi. E’ stato anche ipotizzato che Apuleio, da giovane, abbia scritto un piccolo Asino d’oro in greco, utilizzato come base per le Metamorfosi. Le Metamorfosi di Apuleio si differenziano da Lucio o l’asino di Luciano di Samosata per due principali motivi:

a. Nelle Metamorfosi compare un maggior numero di novelle (tra cui quella celeberrima di Amore e Psiche), tutte tratte dalle favole milesie e apparentemente prive di un legame unificante tra loro. Nel periodo finale della letteratura latina si diffondono ampiamente le religioni e i culti misterici; la chiave di lettura delle Metamorfosi è proprio in questi motivi escatologici, in quest’ansia religiosa che porta Apuleio a cercare ogni mezzo di accostarsi al mondo del divino.

b. Le Metamorfosi sono in 11 libri, uno in più, rispetto all’opera di Luciano. L’undicesimo libro è completamente slegato dagli altri: l’autore si sostituisce al protagonista e fa passare per quelle di Lucio le sue esperienze personali, sempre collegate a quest’ansia misterica.

Comune a entrambe le opere è invece la voglia di sperimentare nell’ambito della tematica dell’amore; è straordinario il crearsi di una sorta di ciclicità tra la letteratura greca e quella latina, che finisce con questa voglia di sperimentare in amore, analoga a quella apparsa alle origini della letteratura greca (con Ulisse). Si tratta, però, in Apuleio, di una voglia di sperimentare che ha un che di mistico e di oscuro, assente nella voglia di nuove esperienze di Ulisse.

I GENERI "MINORI"

ETÀ ELLENISTICA

L 'EPIGRAMMA

L'epigramma ellenistico, pur venendo ancora usato come iscrizione per motivi pratici, si slegò progressivamente dal motivo occasionale per diventare il componimento lirico più coltivato dagli autori ellenistici, in quanto genere che meglio di tutti rispondeva alle esigenze della poetica del tempo. La sua caratteristica fondamentale fu la brevitas, che permetteva di raggiungere immediatamente l'acme della poesia e di mantenerlo per tutto il componimento: la cura formale era infatti essenziale per i poeti dell'ellenismo. Un altra caratteristica peculiare fu la spiccata soggettività: l'autore si poneva in prima persona nel componimento e fissava in pochi versi uno stato d'animo o una vicenda della vita. I temi trattati erano svariati: l'amore il vino, la morte, un paesaggio, una disputa letteraria, la descrizione di un ambiente o di un mestiere. Il metro più usato fu il distico elegiaco. Quasi tutti gli autori ellenistici composero epigrammi, e tra loro spiccano Anite e Nosside, le uniche due autrici di tutto l'ellenismo.

L'intera composizione epigrammatica greca ci è giunta attraverso due raccolte: l'Antologia Palatina e l'Antologia Planudea. L'Antologia Platina fu scoperta in un codice della biblioteca Palatina di Heidelberg nel 1607; abbraccia una produzione di oltre 15, secoli, comprendente circa 3700 epigrammi divisi per argomento in 15 libri. La Palatina si basa su precedenti raccolte di cui le principali sono le seguenti:

1. La Corona (Stefanos) di Meleagro di Gadara, risalente al I sec. a.C.; raccoglieva i suoi epigrammi e quelli di molti altri poeti precedenti e li disponeva in ordine alfabetico (secondo le lettere iniziali di ciascun componimento).

2. La Corona di Filippo di Tessalonica, risalente al I sec. d.C. Segue lo stesso ordine alfabetico adottato da Meleagro.

3. Il Ciclo composto da Agatia, risalente al VI secolo d.C. Gli epigrammi non erano raggruppati alfabeticamente, ma secondo il contenuto.

4. La raccolta fatta nel IX-X secolo d.C. da Costantino Cefala, protopapas della corte di Bisanzio. Egli utilizzò le tre raccolte precedenti e altre minori seguendo la classificazione per argomenti adottata da Agatia. La raccolta di Costantino Cefala fu fondamentale sia per la costituzione della Palatina che della Planudea.

L'Antologia Planudea prende il nome dal monaco amanuense Massimo di Planudea che la portò a termine nel 1299. Comprende sette libri in cui compaiono sostanzialmente gli stessi epigrammi della Palatina con la totale esclusione di quelli a carattere erotico o amoroso. Per non far notare il taglio il monaco collocò gli epigrammi in ordine alfabetico. La Planudea ne comprende anche 388 che non si trovano nella Palatina e che vanno a costituire l'Appendix Planudea

CRITICA

TORRACA - L’Antologia Palatina prende nome dall’unico codice che ce l’abbia trasmessa, il "Palatinus 23" di Heidelberg, scoperto dall’umanista francese Claude de Saumaise nel 1607. Il codice fu donato nel 1623 da Massimiliano di Baviera al Papa Gregorio XV. A Roma fu diviso e rilegato in due parti separate. Nel 1797 fu dato alla Francia in virtù del trattato di Tolentino e collocato nella biblioteca reale di Parigi. Nel 1816, dopo la pace di Parigi, la prima parte, contenente i ll. I-XII, tornò ad Heidelberg, dove tuttora si trova; la seconda parte rimase a Parigi, dove è conservata nella Biblioteca Nazionale come "Parisinus Suppl gr. 384".

L’Antologia Palatina comprende 15 libri di epigrammi greci e bizantini. Ignoto è il compilatore. In essa sono confluite raccolte più antiche di epigrammi.

I ll. IV-VII e IX-XII derivano dall’antologia curata intorno al 900 da Costantino Cefala, protopapa del palazzo imperiale sotto Leone il Saggio (886-911), il quale ha utilizzato le raccolte epigrammatiche di Meleagro di Gàdara e di Filippo di Tessalonica, il florilègio di Diogeniano di Eraclèa, i carmi di Strabone di Sardi, di Rufino, di Pallada, un’edizione di Teocrito, un’altra di Leonida ed un’antologia, più recente, di Agatia Scolastico. L’anonimo redattore dell’Antologia Palatina ha preso da quest’ultimo il principio dell’ordinamento degli epigrammi secondo il contenuto ed ha allargato l’antologia di Cefala includendovi i ll. I-III, VIII, XIII-XV.

L’Antologia Palatina contiene epigrammi di poeti di tutte le epoche, dall’età classica all’età bizantina (Alceo, Antipatro di Sidone, Antipatro di Tessalonica, Anite, Asclepiade, Callimaco, Crinagora, Filippo, Filodemo, Leonida, Meleagro, Pallada, Paolo Silenziario, Simonide, Teocrito); senza di essa la nostra conoscenza dell’epigramma greco sarebbe ridotta a ben poco.

L’Antologia Planudea è una seconda raccolta più breve, ordinata alfabeticamente, in 7 ll., portata a termine nel 1299 a Costantinopoli dal monaco Massimo Planude, di cui abbiamo il manoscritto autografo nel "Marcianus gr. 481". Egli escluse i carmi erotici ed utilizzò due fonti: un’edizione abbreviata di Cefala, da cui attinse i 388 epigrammi non compresi nell’Antologia Palatina ed aggiunti come XVI libro nelle edizioni moderne di quest’ultima raccolta, ed un manoscritto gemello del "Palatino". Irrilevante la sua importanza dopo la scoperta dell’Antologia Palatina.

ANITE

Originaria dell'Arcadia, la terra sacra al dio Pan e tanto cara a pastori e poeti, Anite acquisì dalla sua terra una profonda sensibilità, spiccatamente bucolica, nei confronti della natura, che costituisce il motivo dominante della sua poesia. Infatti, dei venti epigrammi che ci sono pervenuti con la sua firma, quasi tutti descrivono paesaggi naturali con fresca naturalezza. In Paesaggio sul mare ella tratta un tema che verrà ripreso poi da Teocrito: quello della fonte che sgorga acqua limpida e fresca; qui l'acqua è vista di per sé, in Teocrito (che lega la natura all'uomo) verrà vista come ristoro. Ne il pianto di Miro la poetessa rivolge la propria sensibilità verso una bambina; l'attenzione per il mondo dei bambini è una caratteristica tutta femminile. Ne Il canto di Pan Anite esprime lo stesso concetto che sarà fatto proprio da Virgilio nelle Bucoliche: la musica modulata come svago e passatempo che rinfranca un lavoro non troppo pesante. Il Virgilio delle Bucoliche non è affatto attento alla realtà, ma piuttosto è portato all'esaltazione della pax augustea, esaltazione raggiunta grazie al poema epico, che permetteva al poeta di utilizzare la propria fantasia; egli rifiutò di comporre un'opera di carattere storico, e quindi di doversi attenere ai fatti, ma compose un'opera di carattere epico con dei forzati agganci storici.

NOSSIDE

Originaria della Magna Grecia, Nosside esprime nella sua poesia un altro aspetto dell'animo femminile: l'amore e la passione. Di lei ci restano solo 12 epigrammi, la maggior parte ritratti di donne sue amiche fatti con mano delicata e leggera. Nell'epigramma La nuova Saffo, che probabilmente costituisce una sorta di finto autoepitaffio della sua opera, Nosside si paragona alla poetessa di Lesbo, peccando di eccessiva superbia in quanto la sua poesia, sebbene dotata di una sensibilità forte, non raggiunge l'unicità della poesia saffica.

ASCLEPIADE

Originario di Samo, visse dedicandosi all'arte e alla poesia, senza però trascurare i piaceri della vita. Fu il capostipite di una serie di poeti che presero il nome di "scuola di Samo", ed ebbe come successori Edilo e Posidippo, quello stesso che ebbe una disputa con Callimaco. Il tema ricorrente della sua poesia è l'amore.

In Sfida a Zeus troviamo una netta contrapposizione tra l'elemento naturalistico e quello amoroso. La natura è descritta non solo dal punto di vista esteriore, ma anche in funzione del tema dell'amore. Asclepiade non usa la tecnica descrittiva tipica dei suoi predecessori (che ricorrevano all'aggettivazione o alla sinestesia), ma ci presenta la natura grazie a un susseguirsi di verbi: egli scende nell'ambito della natura vivificandola. La natura di Asclepiade è una natura che vive e .agisce: è una natura personalizzata. Nella seconda parte del brano l'amore è sentito come qualcosa che sconvolge l'animo.

In Post mortem nulla voluptas troviamo un invito a godere di ogni piacere; ricorda apparentemente il Carpe diem di Orazio, ma non bisogna dimenticare che quello di Orazio non voleva essere un invito a cogliere il piacere superficiale, ma una godere della felicità per se stesso, evitando ogni rapporto, positivo o negativo, con gli altri. Anche Mimnermo fece un invito simile a godere del piacere, ma il suo era più specifico e circoscritto all'età della gioventù; in Asclepiade non ci sono limiti cronologici.

In Veglia d'amore Asclepiade manifesta il suo interesse specifico per gli astri (è un lampante esempio di sfoggio di erudizione). Viene ripreso il tema del paraclausiquron, già trovato in Callimaco.

In taedium vitae troviamo il concetto della noia, che verrà abbondantemente trattato da Lucrezio nel De Rerum Natura, presentandola come uno dei tanti sentimenti che travagliano l'uomo. Anche Leopardi tratterà diffusamente il tema della noia, definendola nello Zibaldone "il più nobile dei sentimenti umani" perché il più sincero. Possiamo in qualche modo ricollegarla anche all'accidia di Petrarca, che era sempre combattuto da due desideri, il lauro e l'amore, senza mai riuscire a soddisfarli entrambi allo stesso momento.

Bevi e dimentica riprende l'antico concetto del bere comune ad Archiloco e ad Alceo. "Tra non molto la nostra lunga notte dormiremo" è un espressione che verrà ripresa da Catullo con lo stesso valore: godere dell'amore e del piacere del vino che ci permette di dimenticare. La descrizione di Eros riprende i canoni classici ed è uno sfoggio di erudizione.

Didima è la donna amata, per la quale Asclepiade si consuma. Il poeta ricorre per descrivere la sua passione a un paragone, tecnica molto usata dai poeti di tutti i tempi per precisare meglio i concetti; lo troviamo usato fin da Omero, il quale però usava il paragone solo per definire precise caratteristiche, mentre Asclepiade lo usa in se per sé. Della donna amata sono stati evidenziati i capelli bruni, rispecchiando il gusto, tipicamente ellenistico, dello scendere nel particolare. Pochi tratti descrivono i particolari; anche Ovidio, teorico dell'amore, con poche parole dipingerà tutte le sue innamorate.

In Funere mersit acerbo troviamo la vecchiaia concepita in ottica soloniana.

LEONIDA

Poeta originario della Magna Grecia, condusse un'esistenza povera, vagabondando presso tutte le corti del Mediterraneo. Nei suoi epigrammi sono quasi del tutto assenti i temi dell'amore e del piacere, sostituiti da ritratti della sua povera esistenza e della miseria altrui; motivo per cui è stato considerato il primo poeta degli umili. Sostanzialmente non ha ideali e si limita a esprimere la sua realtà di poeta povero e errante; i suoi epigrammi sono un po' più lunghi della media proprio perché evidenziano la sua esperienza personale.

Il poeta e i topi è un epigramma autobiografico in cui Leonida ci presenta con vivo realismo una situazione quotidiana: l'estrema povertà della sua madia, nella quale nemmeno i topi troveranno da mangiare. Per la prima volta troviamo un quadro di introspezione psicologica applicato al tema della povertà, che viene evidenziata mediante cose semplicissime. L'elemento naturalistico è costituito dai topi, già trattati nella Batracomiomachia dell’Omero minore e ripresi da Orazio nella favola il topo di campagna e il topo di città

Le offerte ad Artemide che Leonida presenta sono le più semplici e umili che esistano; un'unta focaccia, delle olive e un fico colto da un ramo. La descrizione è precisa fino all'estremo e si scende nel particolare, come ad esempio riguardo alla focaccia unta (già trovata in Archiloco, che la presentava come il cibo più semplice delle persone povere, e nel moretur dell'appendix virgiliana, in coi un'ostessa enumera le prelibatezze che metteva in vendita, tra cui la focaccia) al fico, di provenienza africana, di cui si servirà Catone come esempio per dimostrare quanto Cartagine sia pericolosamente vicina a Roma.

In E' arrivata primavera troviamo una descrizione apparentemente oggettiva, in realtà finalizzata alla praticità: il quotidiano viene unito alla semplice descrizione della natura, testimonianza del legame alla vita reale tipico dell'arte di Leonida.

L’ESCLUSA

Nel 1896 Grenfell pubblicò un breve brano trovato su un papiro del II secolo, battezzato Fragmentum Grenfellianum o L’esclusa. Il brano, dotato di una profonda sensibilità psicologica, sembra ricollegarsi alla tradizione mimica, in quanto viene recitato da una donna, presumibilmente sola sul palcoscenico, che canta il suo profondo lamento per essere stata abbandonata, forse dopo una lite, dall’uomo che amava.

ANTIPATRO

Di Antipatro abbiamo un unico epigramma veramente notevole: Sulle rovine di Corinto. È una mistione perfetta tra un elemento freddo (la descrizione delle rovine della potente città) e l’afflato sentimentale, che richiama la poesia dei primi lirici. E’ la prima volta nella letteratura greca che il soggetto di una poesia è costituito dal lamento sulle rovine della città scomparsa, un tema che in seguito eserciterà un certo fascino nei poeti di tutti i tempi.

MELEAGRO

Nacque a Gadara verso il 130 a.C. e visse poi a Tiro ed infine in vecchiaia si recò a Cos, dove mori intorno al 60. Divise la sua vita tra gli amori e gli studi; la sua opera principale è costituita dalla Corona, la prima grande antologia epigrammatica.

Sit tibi terra levis è un delicato epitaffio per sensazioni e sentimenti, in occasione della morte del piccolo Esigene.

In Alla cicala il poeta invoca la cicala, "ubriaca di rugiada" a cantargli un canto agreste affinché possa dimenticare gli affanni d’amore. Insolita questa commistione tra la cicala, l’unico animale che canta a mezzogiorno, e l’elemento amoroso. La parte conclusiva richiama Teocrito.

In Al grillo troviamo una delicata sensibilità verso gli animali, unita allo scendere nel particolare tipico dell’ellenismo.

In Amore e saggezza troviamo l’amore cantato con toni leggeri e scherzosi, già trovato in Archiloco e Orazio.

Bevi e dimentica e Brindisi triste presentano gli stessi concetti tanto cari ad Archiloco e Alceo.

Odi et amo presenta un immediato richiamo a Catullo, che distingueva l’amare (passionale) dal bene velle (razionale).

Il migliore epigramma di Meleagro è però In morte di Eliodora, la donna tanto amata dal poeta. Il suo profondo sentimento è accostabile a quello di Properzio per Cinzia. La costruzione architettonica del verso è molto curata e risulta poeticissimo il rapporto madre- terra nella quale Eliodora è sepolta.

L 'ELEGIA

Accanto all'epigramma, fu il genere letterario più coltivato dai poeti ellenistici. Pur avendo in comune con l'epigramma il metro (distico elegiaco); l'elegia presenta significative differenze con quest'ultimo; è un componimento di maggior lunghezza, e per questo non raggiunge subito l'acme della poesia e non sempre riesce a mantenerlo fino al termine; l'individualismo è meno accentuato e spesso il protagonista non coincide con il poeta, ma è un personaggio mitico, i cui sentimenti rispecchiano quelli dell'autore. Il tema più trattato fu quello amoroso, ma spesso l'amore del mito si sostituiva all'amore del poeta; si sviluppò anche un particolare tipo di elegia, detta elegia etiologica, che è dedicata a spiegare l'origine di una festa o di un nome e ha la sua massima espressione negli Aitia di Callimaco.

FILITA

Filita fu il padre della nuova elegia ed uno degli iniziatori della poesia ellenistica. Nacque a Cos verso il 340 e dimorò per qualche tempo ad Alessandria, dove fu educatore del futuro sovrano Tolomeo Filadelfo. Trascorse gli ultimi anni della sua vita nell’isola natale, che anche per merito suo diventò un importante centro culturale. Morì intorno al 280.

Filita riunì nella sua persona le doti dell’erudito e dell’artista, creando un’arte dotta e raffinata: egli è come l’ontano sul monte che scure di boscaiolo non reciderà ("io conosco l’ornamento delle parole e con molte fatiche ho appreso la via di ogni canto"). Purtroppo la sua produzione, tranne scarsissimi frammenti dei Pagnia (poesie leggere) e degli epigrammi, è andata perduta: sappiamo che scrisse una raccolta di parole rare, le Glosse sparse, e diverse elegie dedicate all’amata Bittide. La bellezza dei frammenti e i numerosi elogi che gli sono stati fatti (da Callimaco, Teocrito, Properzio…) ci fanno ritenere la perdita dell’opera di Filita una delle più gravi della letteratura greca.

CRITICA

TARDITI - Passò la vita nello studio e nell’attenta stesura di brevi opere di poesia. La tradizione vuole che abbia consumato nell’intenso lavoro intellettuale la sua malferma salute: una battuta scherzosa diceva che era così magro che doveva appesantire con del piombo i calzari per non essere portato via dal vento. Fu filologo nello stretto senso di studioso della parola: ricercò il significato di termini e di vocaboli rari e compose una "Miscellanea" di glosse. Come poeta pubblicò alcuni poemetti: nell’"Ermete", in esametri, veniva raccontata, non sappiamo in che rapporto con il dio, la storia di Odisseo ospite di Eolo. Era un frammento di un antico mito già accolto da Omero (Odissea X, 1-79), ma Fileta lo rinnova intessendovi la vicenda di Polimela, la figlia del re dei venti, innamorata dell’eroe. Callimaco apprezzava molto la "Demetra", un poemetto in distici elegiaci di cui ci sono rimasti alcuni versi, insufficienti, però, a formulare qualsiasi ipotesi sul suo contenuto. Fileta viene anche ricordato come il cantore di Bìttide, ma non sappiamo come abbia svolto il suo canto: può darsi che il nome della donna abbia semplicemente suggerito il titolo ad una raccolta di elegie in cui erano svolti miti di amore.

ERMENESIATTE

Nato verso il 300 a Colofone, sulla scia dei cuoi compatrioti Mimnermo e Antimaco compose un poema elegiaco, intitolato Leonzio, dal nome della donna amata. Di quest’opera conserviamo un lungo brano del terzo libro, che raccoglie uno strano elenco di poeti e filosofi tormentati dalla passione d’amore. Da questo arido elenco è impossibile farsi un’idea dell’arte di Ermenesiatte.

FANOCLE

Poco più giovane di Ermenesiatte, scrisse un’opera intitolata gli Amori o i belli, una raccolta di amori efebici (tra un uomo maturo e un adolescente) tratti generalmente dal mito. A noi è pervenuto quello di Orfeo, innamorato del giovane Calai ed ucciso per gelosia dalla donne di Tracia: la sua testa fu gettata nel mare inchiodata alla cetra, e venne trasportata dalle onde sulla spiaggia di Lesbo, a rendere feconda di canti la terra di Saffo e Alceo. Il brano si chiude con un aition: il tatuaggio delle donne tracie ricorda le lividure che i mariti inflissero loro per punirle dell’uccisione di Orfeo.

CRITICA

CANTARELLA - Delle opere poetiche (avrebbe scritto, in prosa, anche una dubbia "Storia di Persia") il solo titolo sicuro è quello di una "raccolta di elegie" in tre libri, intitolato a Leontio, la donna da lui amata: Atenèo ce ne ha conservato un lungo brano (vv. 98) del terzo libro, che è, si può dire, tutto quello che di lui abbiamo. Il poeta immagina di raccontare storie di infelici amori pastorali alla sua Leontio, che spesso direttamente interpella: e non è improbabile che questo gli offrisse il modo di raccontare anche i propri affanni d’amore. Oltre l’erudizione (di qualità piuttosto scadente, invero), tipicamente alessandrino (e della poesia alessandrina importante anticipatore è considerato Antìmaco di Colofòne, vissuto nella prima metà del sec. IV a.C. ed autore di una "Tebaide", un poema epico, e di una "Lide", in metro elegiaco) sono la predilezione per Esiodo, l’esaltazione di Antìmaco, i cui libri sono "sacri", l’elogio di Filòsseno, "che le Muse nutrirono", e del maestro Fileta.

ERODA

Riprese il genere del mimo, ma in maniera diversa da Teocrito, adattandolo maggiormente alla realtà del quotidiano; non ebbe la genialità poetica del padre della poesia bucolica, ma ci ha lasciato ugualmente ritratti vivissimi e non convenzionali di alcuni popolani del III secolo a. C..

Fino alla fine del secolo scorso, quando furono ritrovati in un papiro egizio otto dei suoi mimi, non sapevamo praticamente nulla di Eroda. Grazie al ritrovamento possiamo collocare il poeta nel III a.C. e ipotizzare che sia vissuto in una delle isole del mediterraneo, Cos o la Sicilia. Gli otto mimi, l'ultimo dei quali lacunoso, presentano una particolare attenzione per il mondo borghese, per le descrizioni minuziose e particolareggiate, per il quotidiano e per il realismo delle situazioni; tutte caratteristiche tipiche per periodo ellenistico. Contrariamente ai mimi di Teocrito (che erano in distici elegiaci, il metro nobile per eccellenza), i mimi di Eroda sono dei mimiambi, cioè mimi in giambi, o più esattamente in coliambi, il metro di Ipponatte. E di Ipponatte, oltre al metro, Eroda adotta anche la lingua che presenta un forte colore ionico e un certo crudo verismo che si manifesta per la predilezione di ambienti e caratteri comuni.

Nel Mimo I (la mezzana) assistiamo al tentativo di una vecchia mezzana di convincere una giovane sposa il cui marito è in viaggio da mesi a lasciarsi andare alle avance di un giovane atleta. La mezzana incarna la saggezza popolare, slegata da qualsiasi morale, mentre la giovane difende la fedeltà del proprio sentimento, considerando tra l'altro che la bianchezza dei capelli rende ottusa la mente.

Nel Mimo III (il maestro di scuola) sono descritte le imprese di Cottalo, un ragazzino svogliato e monello che non vuole saperne di studiare. La madre, esasperata, decide di ricorrere ad un maestro privato, che però fallisce anche lui nell'intento.

Nel Mimo VII (il calzolaio) è descritta l'abilità di un bravo calzolaio a vendere le proprie calzature a nuove clienti al prezzo stabilito da lui, grazie anche all'aiuto di una sua vecchia cliente.

Il Mimo VIII (il sogno) ci è giunto gravemente mutilo; lo sviluppo della trama è molto particolare, in quanto esula dalla quotidianità e ci presenta un sogno con significato allegorico riguardante gli elementi della letteratura.

Riguardo ad Eroda sono stati molto discussi due problemi. Il primo riguarda il fatto se egli meriti il nome di poeta o se i suoi personaggi siano dei semplici tipi fissi; studiando attentamente la mezzana, il suo personaggio più riuscito, possiamo rilevare la sua abilità poetica, esistente ma certamente inferiore a quella di Teocrito. Il secondo problema riguarda il realismo in Eroda, ed è un problema che riguarda l'intera letteratura greco-romana: la rappresentazione del popolo e del quotidiano è veramente realistica? Non lo è nel senso moderno del termine, perché gli antichi riservavano lo stile sublime alla rappresentazione del mondo aristocratico e consideravano tutto ciò che è ordinario e quotidiano (insomma il mondo degli umili) solo come materia da rappresentare comicamente, senza un reale approfondimento. E questo limite è stato superato dalla letteratura moderna, che ha trattato ogni personaggio, nobile o umile che sia, con il differente taglio di approfondimento problematico scelto dallo scrittore.

CRITICA

CANFORA - Anche i mimiambi di Eroda, o Eronda, anch’essi dialogati e passibili di recitazione, hanno di mira ambienti più o meno sordidi, della piccola e piccolissima borgesia della metropoli. Sia per Teocrito che per Eroda i mimi di Sofrone (sec. V a.C.), tanto ammirati da Platone, hanno costituito un modello significativo. In particolare un tema affrontato da Teocrito nel 2° idillio, imitato da Virgilio nell’ecloga VIII ("L’incantatrice"), dove una donna cerca di riconquistare l’amante per mezzo di complicate pratiche magiche, era il tema delle "Incantatrici" di Sofrone. E’ superfluo ripetere che Eroda, Teocrito ed i loro imitatori latini, parlano di questi temi "realistici" in linguaggio ricercato ed in forme letterarie elaborate praticamente incomprensibili ad un vasto pubblico "popolare". Ma ciò non toglie che i loro componimenti giovino alla conoscenza di realtà escluse dalla poesia aulica o mitologica, tanto quanto la coeva commedia per quel che riguarda la vita privata nell’Atene di IV e III secolo.

LA POESIA

Callimaco, Apollonio Rodio e Teocrito furono senza dubbio i maggiori poeti dell’età ellenistica. Tuttavia, meritano considerazione altri poeti, che si distinsero nel genere didascalico (Arato) e in quello bucolico (Mosco e Bione).

ARATO

E’ il maggior rappresentate della poesia scientifica e didascalica, che aveva come oggetto nozioni di agricoltura, di astronomia, di scienze naturali o di medicina e le metteva in versi. Arato nacque a Soli in Cilicia e visse all’incirca nella prima metà del III secolo; dopo aver completato la sua formazione ad Atene, si recò a Pella in Macedonia, e qui divenne quasi il poeta ufficiale. L’unica sua opera pervenutaci sono i Fenomeni, un lungo poema astronomico (1154 esametri), suddiviso in due parti: la prima tratta delle stelle, dei pianeti e delle costellazioni (ad essa si addice precisamente il titolo di fainomena), la seconda descrive i segni che ci dà la natura per prevedere le variazioni del tempo (detta Pronostici). Nel proemio il poeta fa professione di fede stoica e celebra Zeus, che regge e governa l’universo, riprendendo l’Inno a Zeus di Cleante.

I Fenomeni sono in effetti la versificazione di uno scritto astronomico, lo Specchio di Eudosso. Arato cerca di coniugare l’interesse per la scienza con quello per la poesia, ma riesce solo in alcuni brani a dar vita ad una vera creazione poetica. Siamo ben lontani dall’afflato di Lucrezio. Per il resto, l’opera abbonda di arida erudizione e di mera abilità formale. Nonostante ciò, ebbe l’onore di ben quattro traduzioni latine: Varrone Atacino, Cicerone, Germanico, Avieno.

CRITICA

BALLOTTO - Nato a Soli nel 320 a.C., fu scolaro ad Atene dello stoico Perseo, col quale passò poi a Pella nel 276, alla corte di Antìgono Gonàta, dove pare abbia composto il suo capolavoro: i "Fenomeni". Forse fu anche alla corte di Antìoco I di Siria, dove curò un’edizione dell’"Odissea". Morì in Macedonia nel 239. Si dilettò anche di inni; inoltre compose alcuni epicèdi, elegie, epigrammi, e poesie varie dal titolo "Katà lèpton" ("Carmi spiccioli").

I "Fenomeni" sono costituiti di 1.154 esametri ma, per quanto trattino di astronomia, Arato non fa opera di astronomo. L’opera può dividersi in due parti: la prima (vv. 1-732) tratta dei fenomeni od apparizioni celesti, e si apre con un inno di lode a Zeus, presentato come divinità universale degli stoici; la seconda parte (vv. 733-1154) è relativa ai segni premonitori del tempo. Sue fonti furono Egesianàtte, Ermìppo e Teofràsto (specie per la seconda parte dei "Fenomeni"). Altri avevano scritto sul medesimo argomento, ma Arato li superò oscurandoli tutti, grazie al suo stile, alla facilità ed alla scorrevolezza dei suoi esametri. Molti, fra gli antichi, lodarono la sua opera e ne diedero traduzioni (Cicerone, Varrone Atacino, Germanico, Avieno). In un manoscritto si parla di ventisette commentatori.

MOSCO

Nacque a Siracusa e visse nel II secolo. Sotto il suo nome ci sono giunti tre idilli d’impostazione teocritea, tre carmi bucolici e un epigramma.

L’Eros fuggitivo è un idillio che rientra pienamente nei canoni dell’ellenismo; descrive il lamento di Eros, il dio bambino che scocca la freccia e scappa via. C’è quasi un gusto per la pittura espressionistica.

Mare e Campagna è uno dei carmi bucolici e descrive il fascino del mare quando c’è bonaccia, e il richiamo della campagna, quando invece si scatena la burrasca. C’è lo scendere nel particolare tipico dell’ellenismo.

BIONE

Nacque presso Smirne e visse a cavallo del I secolo. Di lui conserviamo 17 frammenti bucolici e l’Epitaffio di Adone.

l’Epitaffio di Adone è un canto in onore del dio di origine semitica. Narrava il mito che il bellissimo Adone era teneramente amato da Afrodite, ma durante una cacci fu ucciso da un cinghiale e la dea aveva appassionatamente pianto la sua morte. Bione usa la tecnica del verso che si ripete ogni tanto (già riscontrata nel Tirsi di Teocrito). Il canto è baroccheggiante, con alcuni versi eccessivamente adorni, e c’è il gusto per la contrapposizione. Ritornano i piedi nudi, simbolo di attrazione sessuale nell’ellenismo.

FILOLOGIA

Nell’ellenismo nacque una nuova disciplina, la filologia, che rientra nel campo dell’indagine scientifica ed esatta. Il suo oggetto è lo studio dei grandi autori del passato (ad esempio, Omero), finalizzato al recupero, alla ricostruzione e alla comprensione del testo originale. All’Iliade e all’Odissea vennero in questo periodo attribuite l’attuale scansione in libri e la successione cronologica (Iliade in lettere maiuscole, Odissea in lettere minuscole); inoltre, si affrontarono numerosi problemi di autenticità, si diedero le prime edizioni critiche e le prime interpretazioni dei punti più difficili. Risale a questo periodo il primo dibattito sulla questione dell’unità o meno dei due poemi omerici, e si vennero a creare i due filoni dei korizonteV (separatisti) e dei neounitari (il cui campione fu Aristarco)

I centri principali per lo studio dei testi antichi furono Alessandria e Pergamo. Alessandria si specializzò nella critica testuale, occupandosi di organizzare le varie lectiones dei testi più importanti; ad Alessandria si svolse il dibattito sulla questione omerica, con tutte le conseguenze sopra elencate. A Pergamo si sviluppò prevalentemente il commento dei contenuti, che inizialmente vennero interpretati alla luce dello stoicismo in un’ottica allegorica e moraleggiante. Via via la scuola di Pergamo moderò i suoi eccessi, andando a costituire la prima scuola di critica letteraria in senso moderno. Ad Alessandria si affermò prevalentemente l’analogia, mentre a Pergamo l’anomalia.

SCIENZA

Nell’ellenismo si assiste al fenomeno delle specializzazione, che riguardò anche l’ambito scientifico; tranne la notevole eccezione di Eratostene, il più grande enciclopedico del tempo, i dotti si specializzavano in precisi settori: matematica (Euclide e Archimede), astronomia (Aristarco e Ipparco), medicina (Erofilo ed Erasistrato), meccanica (Ctesibio e Erone).

E’ significativo notare come un così grande sviluppo scientifico non sia stato accompagnato da un altrettanto grande sviluppo della tecnica, esattamente l’opposto di quanto avverrà poi a Roma. La cause sono da ricercare in parte nell’impostazione della filosofia platonica, che metteva al primo posto il sapere e all’ultimo il fare, e in parte nella grande abbondanze di manodopera a basso costo fornita dagli schiavi, che non incoraggiava lo sviluppo di macchine che sostituissero il lavoro dell’uomo.

Eratostene di Cirene (che rivestì anche l’incarico di direttore della Biblioteca) fu il fondatore della geografia moderna: disegnò con sufficiente esattezza una carta geografica, tracciandovi meridiani e paralleli, misurò la lunghezza del meridiano terrestre con un’approssimazione che ha del prodigioso (40050 km. o, secondo altri, 46000 circa, rispetto ai 40003 calcolati dalla scienza moderna); distinse sulla superficie della terra le cinque zone astronomiche che sono rimaste fondamentali; ci diede infine nel primo libro della Geografia, la sua opera più importante, una prima storia della scienza geografica, da Omero ai suoi tempi.

Euclide fu il padre della scienza geometrica. Gli Elementi, in 13 libri, sono un’organica sistemazione dell’intera geometria sulla base del metodo ipotetico-deduttivo; per 22 secoli gli Elementi sono stati il testo fondamentale per l’apprendimento della geometria e solo ai giorni nostri si è giunti a concepire una geometria non euclidea.

Archimede di Siracusa fu non solo un grande matematico, ma anche un geniale ingegnere. Inventò numerose macchine, tra cui sono rimaste famose quelle da guerra, usate per la difesa della città contro il console romano Marcello. Tra le sue opere fondamentali ci rimangono uno scritto sulle sezioni coniche, Dei conoidi e sferoidi, e uno indirizzato ad Eratostene, Sul metodo, in cui l’autore precorre il moderno calcolo infinitesimale. Normalmente Archimede scrive in dialetto dorico; solo quest’ultima opera è scritta usando la koinh.

Aristarco di Samo fu il primo a superare la teoria delle sfere concentriche, intuendo il sistema eliocentrico in quella forma che dopo oltre 17 secoli doveva essere ripresa da Niccolò Copernico. Ci resta il suo scritto: Sulla grandezza e la distanza del sole e della luna.

Ipparco rifiutò la teoria di Aristarco e preferì seguire l’eliocentrismo tradizionale. Compì numero scoperte astronomiche, più grande di tutte fu quella della precessione degli equinozi. Di lui conserviamo il commento ai Fenomeni di Arato.

Erofilo ed Erasistrato furono tra i primi ad eseguire la dissezione dei cadaveri, pratica ufficialmente proibita dalla tradizione greca.

Ctesibio ed Erone vissero entrambi ad Alessandria e furono tra i primi a costruire apparecchi meccanici; il primo si perfezionò nella costruzione di macchine idrauliche, il secondo si specializzò nella costruzione di giocattoli automatici.

PERIODO GRECO-ROMANO

LA RETORICA

Nel I e nel Il secolo d.C. la retorica assume una grandissima importanza e un notevole prestigio, andando a identificarsi con la cultura stessa. Il suo significato verrà molto approfondito, ma sarà accompagnato parallelamente da un impoverimento dei contenuti; l'interesse per la retorica sarà soltanto a livello formale. Il mondo greco lascerà la sua eredità in questo campo al mondo latino, il quale a sua volta lo trasmetterà alla letteratura apologetica (detta anche patristica dal nome degli artefici, "i padri della chiesa").

Il dibattito in campo stilistico fa sì che comincino a delinearsi due movimenti distinti, l'asianesimo e l'atticismo. L'asianesimo nacque all'inizio dell'ellenismo (III a.C.) per opera di Egesia di Magnesia in Africa, prendendo come modello lo stile di Lisia (denso, schematico, non indulgente a costruzioni artificiose). Nei due secoli successivi si venne a creare un ribaltamento totale all'interno dell'asianesimo (anche per il fatto che fu adottato in prevalenza dai retori dell'Asia Minore, che introdussero nel dialetto attico termini ionici): si venne a creare uno stile ricercato, pieno di ornamenti retorici, ampolloso, "bombastico". Noi intendiamo per asianesimo questo stile. Contemporaneamente (I a.C.) si venne a creare una nuova corrente di retorica basata su Lisia, ossia sulla stringatezza della frase e sull'essenzialità del costrutto. Questa corrente di retorica è detta atticismo. Per assurdo, l'atticismo nacque a Roma, capitale della ricerca di un nuovo indirizzo letterario, e si diffuse subito nel mondo greco. Ci fu una reale contrapposizione tra i due stili. Lo stile di Cicerone è lo stile rodiese, a metà strada tra i due a livello di costruzione, ma non a livello cronologico. Lo stile rodiese nacque nel II a.C. per mitigare gli eccessi dell'asianesimo prima maniera, quando l'atticismo non era ancora nato.

La retorica antica non si limitava a porre la propria attenzione sulla scelta del termine (come avveniva con i Sofisti), ma aveva come oggetto di studio anche la costruzione migliore per il periodo. Nel I secolo a.C. si precisano a questo riguardo due posizioni opposte: la prima fece capo al retore Apollodoro di Pergamo, la seconda a Teodoro di Gadara, vissuto nella generazione successiva. Apollodoro concepisce la retorica come un scienza fissa, dotata di canoni ben precisi (a questa concezione ha aderito anche Cicerone, e anche in Lisia avveniva una divisione tra le varie parti dell'orazione apologetica). Ogni logos deve essere suddiviso in quattro parti, ma solo alla prima (prologo) e all'ultima (epilogo) è riservato l'elemento patetico, la capacità di suscitare nel lettore un particolare sentimento. La parti centrali consistono nella descrizione del fatto e nell'esposizione del ragionamento dell'oratore (non c’è una schematizzazione ben precisa). Teodoro concepisce la retorica come un'arte, una capacità insita nell'uomo, il quale può comporre la propria opera a seconda del proprio modo di vedere. il paqoV può esserci in qualsiasi parte dell'orazione, cosi come l'esposizione può riguardare anche il prologo o l'epilogo. La ricerca del paqoV è spiegabile nell'ellenismo con il fatto che è la forma espressiva più istintiva. Per paqoV si intende una partecipazione emotiva e sentimentale, non circoscritta necessariamente al sentimento del dolore (come avveniva nella tragedia, che mirava alla catarsi). I teodorei fanno ampio ricorso alla fantasia, intesa come forza irrazionale che possiede l'anima e che esce dai canoni del logos. Nell'ellenismo fantasia non vuoi dire uscire dalla realtà e proiettarsi in un mondo fantastico, ma semplicemente uscire dalla realtà (non c'è il bisogno di costruire un qualcosa).

In estrema sintesi possiamo dire che i retori seguirono principalmente due filoni ben distinti e contrapposti tra loro: quello degli apollodorei\atticisti\analogisti\puristi (orazione impostata secondo un rigido schema, stile stringato ed esatto, rifiuto della lingua corrente, rifiuto di parole nuove e di hapax) e quello dei teodorei\asiani\anomalisti\antipuristi.

ANONIMO DEL SUBLIME

Nel I a.C. Cecilio di Calatte, fedele seguace di Apollodoro, scrisse un opera dal titolo peri uyouV , a noi non pervenuta. Possiamo conoscere in parte il contenuto di quest'opera grazie ad un altro trattato, intitolato sempre peri uyouV, scritto da un seguace di Teodoro per controbattere Cecilio, autore che tutt'oggi non siamo riusciti a identificare.

Ci è pervenuto quasi integro un trattato intitolato Sul sublime (peri uyouV) e contiene un elenco di canoni grazie ai quali un'opera raggiunge l'acme della perfezione. E' stato scritto da un seguace di Teodoro intorno alla metà del I secolo d.C. che, per l'impossibilità di identificarlo con certezza, chiamiamo Anonimo. Sono state fatte due ipotesi di identificazione. La prima con Dionigi di Alicarnasso, che visse alla corte di Augusto (l’autore del Sublime ebbe sicuramente dei legami con la corte dell'imperatore) ma che è stato un fedele assertore delle idee dell'atticismo, mentre l'Anonimo è asiano. La seconda con Cassio Longino, asiano e conforme alla idee dell'Anonimo, ma vissuto due secoli dopo la data probabile di composizione del Sublime.

L'Anonimo afferma che le fonti da cui scaturisce il Sublime sono cinque, delle quali tre (poggia delle figure retoriche, nobiltà dell'espressione, collocazione delle parole) si possono acquisire con l'esercizio e l'arte retorica, mentre le altre due (elevatezza del pensiero, passionalità) devono essere per forza innate. L'Anonimo tende a scendere sempre di più nel particolare, secondo un uso tipicamente ellenistico, e a fondere elementi degli apollodorei nella concezione teodorea.

Il Sublime è anche un'opera di critica letteraria, e contiene un'infinità di giudizi critici sui più disparati autori dell'antichità. Infine, nell'ultimo capitolo, viene affrontato il problema della decadenza dell'oratoria, che l'Anonimo attribuisce alla mancanza di libertà dovuta alla situazione politica della Grecia del tempo e soprattutto alla schiavitù delle passioni e alla conseguente corruzione morale.

 

AUTORE

INFLUSSI SU…

Alessandrinismo

Plinio il G.: il suo epistolario, privo della continuità del racconto che caratterizza l'"Epistolario" di Cicerone, è più vicino all'epigramma per il continuo sforzo da parte dell'autore di circoscrivere l'argomento, in cui si coglie chiaramente l'affermazione del gusto alessandrino

Alessandrinismo

Gallo: si serve nelle sue elegie (perdute) di mitologia ed eziologia, ma non trascura elementi soggettivi ed autobiografici

Anite

Catullo: nel c. 3 (sulla morte del passero di Lesbia) si ispira ad un c. di A. per un grillo pianto da una fanciulla

Ant. Palatina

Catullo: l'ultima parte del "Liber" va riconnessa con gli "erotikà", cioè con gli epigrammi inclusi nel l. 5° dell'A.P.

Apollonio R.

Varrone Atacìno: traduce le sue "Argonautiche"

Apollonio R.

Virgilio: l'"Eneide" presuppone l'opera di A., ma Giasone e Medea sono solo le brutte copie di Enea e Didone

Apollonio R.

Valerio Flacco: scrive le "Argonautiche", un poema che si ferma al v. 467 del l. 8° (dei ll. 12 previsti)

Arato

Viene tradotto da Cicerone (gli "Aratèa", in versione poetica), Varrone Atacino ("Ephèmeris", ci restano solo due frammenti) e, nel sec. IV, da Avieno che opera una paràfrasi degli "Aratèa" servendosi di versioni precedenti latine

Arato

Virgilio: in "Georgiche" (I, 351-463), parte dedicata ai segni del tempo, imita i "Prognòstici" di A.

Arato

Ovidio: attua una rielaborazione (andata perduta) dei "Phaenòmena" di A.

Arato

Manilio: in alcune parti (l. 1° e l. 5°) dei suoi "Astronòmica" in ll. 5 si ispira al testo di A.

Arato

Germanico: attua una versione poetica dell'opera di A., gli "Aratèa", mentre si rifà liberamente allo stesso modello nei "Prognòstica"

Callimaco

Poetae novi: vogliono rompere i ponti con la tradizione, preferendo all'epos di tipo omerico il componimento breve (E. Cinna compose l'epìllio "Zmyrna", Lic. Calvo "Io")

Callimaco

Catullo: nei "carmina docta" soprattutto dà prova di una fedeltà più rigida ai dettami di C.; il c. 95 è il manifesto del callimachismo (brevità, raffinatezza, dottrina) di Catullo; il c. 66 è la traduzione della "Chioma di Berenìce" di C.; il c. 64 è un epìllio (come l'"Ecale"); il c. 67 è tipicamente alessandrino per gli spunti satirici e licenziosi

Callimaco

Appendix Vergiliana: "Ciris" e "Culex" sono epìlli

Callimaco

Virgilio: nell'ecl. VI (vv. 1-5) si richiama alla poetica di C., allorchè dice di non voler trattare la grande epopea, ma di limitarsi alla delicata arte delle poesie brevi; nelle "Georgiche" la favola di Orfeo ed Euridice si innesta sulla tradizione alessandrina sia per il carattere erotico-eziologico, sia perchè incastonata in un altro mito, quello del pastore Aristeo

Callimaco

Orazio: gli epodi 11, 14 e 15 si collocano fra la poesia alessandrineggiante più leggera di O. per la derivazione (comune anche a Tibullo e Properzio) di motivi dalla poesia d'amore neoterica ed ellenistica

Callimaco

Tibullo: pur essendo il più "trasparente e terso", il più immune da durezze di erudizione, è nutrito di letture in prevalenza callimachee; scarsissima in lui è la sopravvivenza del mito

Callimaco

Properzio: nelle "Elegie romane" del l. 4° (l'elegia di Tarpea, IV 4, si può considerare un vero e proprio epìllio) canta le origini di riti antichi poco conosciuti; il mito è frequentissimo, fino a diventare caratteristico, nel poeta che proclama di essere il Callimaco romano (IV, 1, 64), anche se in lui sono già ben chiari i sintomi dell'ultimo scadimento del gusto della cultura alessandrineggiante

Callimaco

Ovidio: nelle "Heròides" frequenti sono gli incastri di gusto tipicamente alessandrino (come in XIV l'episodio della trasformazione in vacca della ninfa Io), nelle "Metamòrfosi" usa la stessa tecnica callimachea (la favola di Filèmone e Bàuci, VIII 620-724, è simile all'"Ecale" callimachea), nei "Fasti" la stessa struttura; frequentissimo il mito

Cecilio di Calatte

Atticista

Dionigi di Alicarn.

Cesare: con il poeta neotèrico G. Lic. Calvo aderisce all'atticismo (fautore di semplicità, sobrietà, naturalezza), movimento anti-asiano a cui appartiene D. (modello -> Demostene), ma anche Cecilio di Calatte (modello -> Lisia)

Epicuro

Lucrezio: da Empèdocle trae impulso per il "De rerum natura" in cui espone le dottrine epicuree con grande fervore intellettuale e sensibilità artistica

Epicuro

Orazio

Epicuro

Seneca: pur seguace dello stoicismo, cità nei primi libri delle "Epistole a Lucilio" numerose massime di E. per avviare l'amico Lucilio allo studio della filosofia

Epicuro

Marx: lo considera il filosofo per eccellenza

Epitteto

Gellio: ci tramanda alcuni concetti di E.

Epitteto

Illuminismo: ha notevole diffusione l'opera prima di E.

Epitteto

Leopardi: lo traduce

Eroda

Teocrito: "Le Siracusane" nell'argomento sono simili a "Le donne che sacrificano ad Ascelpio" di Eroda ed a "Le donne che assistono alle gare istmiche" di Sòfrone (470-406)

Euforione

Poco stimato da Cicerone, i suoi epìlli e le sue "Imprecazioni" sono riprese dalla poesia romana

Filodemo

Sarà imitato da Catullo (c. 13), da Orazio (Odi I, 20; Epistole I, 5) e da Marziale (epigrammi erotici)

Gius. Flavio

S. Girolamo: lo considera il Livio greco

Meleagro

Catullo: prende a modello gli epigrammi erotici e sensuali di M.

Meleagro

Properzio: prende a modello gli epigrammi erotici e sensuali di M.

Menandro

Plauto: le sue commedie derivano da originali appartenenti anche a Filèmone e Dìfilo (anch'essi della Commedia Nuova), ma sono modificate con grande libertà dall'autore a favore della fantasia, del gioco, del paradossale, dando ampio spazio anche alla musica

Menandro

Cecilio Stazio: lo predilige come modello, è fedele agli originali nelle trame, ma ricerca una comicità più corposa ed esplicita

Menandro

Terenzio: segue i modelli fedelmente e si propone non solo di divertire il pubblico, ma anche di educarlo e di elevarlo culturalmente e moralmente

Mosco

Con Bione continua il genere bucolico dopo Teocrito, di certo influenzando la poesia latina

Nicandro

Virgilio: nelle "Georgiche" segue il suo alessandrinismo (Nicàndro compose un'opera simile nel titolo a quella latina)

Panezio

Cicerone: rifà il trattato "Sul conveniente" di P. (di cui sono perdute tutte le opere)

Partenio

Gallo: amico di P., si serve, per le sue elegie, dei suoi prontuari

Peripatetici

Cicerone: nel "Brutus" (120) li considera, con gli Accademici, gli unici filosofi in grado di parlare in modo piacevole

Plutarco

Tacito: ha in comune con P., a lui contemporaneo, il rifiuto di fare della biografia uno strumento di esaltazione dell'imperatore; ma, per alcuni studiosi, T. emerge proprio per la sua trattazione biografica degli imperatori (si notano affinità della rappresentazione di Galba ed Otone nelle "Historiae" con le corrispondenti biografie di P.)

Plutarco

Tommaso Moro: nell'"Utopia" si rifà ai "Moralia"

Plutarco

Shakespeare: per le sue tragedie mostra di aver letto le "Vite" plutarchee

Plutarco

Corneille

Plutarco

Racine

Plutarco

Alfieri

Posidonio

Manilio: aderisce alla fede stoica in un pneuma divino che compenetra tutto il cosmo e lega insieme tutte le sue parti, stabilendo tra esse un rapporto di interazione

Romanzo

Petronio: un genere a cui il "Satyricòn" si ispira, sotto forma di parodia, è il romanzo erotico d'avventura, di cui presenta i due filoni fondamentali, quello dell'amore perseguitato da un dio, in questo caso Prìapo, e quello dell'avventura, ma in esso confluiscono anche spunti dell'elegia erotica e della storiografia ellenistica

Romanzo

Apuleio: nelle "Metamòrfosi" si nota l'influenza, si, della Seconda Sofistica, ma soprattutto, del romanzo erotico (evidente, per struttura e tecnica, nella storia di Carite del l. 8°), mentre nel racconto di Amore e Psiche abbiamo una sovrapposizione dei miti orientali a quelli ellenici ed ellenistici

Stoicismo

Cicerone: nei primi ll. 2 del "De officiis" si rifà a "Sui doveri" di Panezio, mentre nel "Brutus" (118) riconosce l'abilità argomentativa e dialettica dello S., ma considera i suoi rappresentanti incapaci di esprimersi in modo pregevole stilisticamente

Stoicismo

Seneca: il suo teatro è una serie di "prediche" filosofiche, un'esposizione di precetti di morale stoica in forma drammatica

Stoicismo

Lucano: nella stesura del lavoro le tradizioni repubblicane della sua casa e della Stoa prendono il sopravvento e così Cesare diventa il grande peccatore che ha distrutto la libertà di Roma, mentre Catone, incarnazione della "virtus", risulta il vero eroe del poema

Stoicismo

Persio: derivano dalla filosofia stoica (suo maestro fu Anneo Cornuto) soprattutto le satire della "libertà interiore"

Stoicismo

Giovenale: spunti e motivi delle sue satire appartengono alla predicazione stoico-cinica (III sulla ricchezza male acquisita, X sui desideri di uomini ignoranti, XII sui cacciatori di testamenti, XIII sul rimorso di coscienza e XIV sull'importanza dell'educazione)

Stoicismo

Seneca

Storiografi

Sallustio: per la ricerca psicologica, per la tendenza a porre singoli personaggi al centro dell'attenzione, come era avvenuto per la figura di Alessandro

Storiografi

Velleio Patercolo: soprattutto per l'interesse che mostra, limitatamente all'impostazione generale dell'opera, nei riguardi delle forti personalità

Storiografi

Valerio Massimo: ha in comune con essi non solo la tendenza a mettere in rilievo il fatto straordinario per fini morali, ma anche le implicazioni retoriche che la contraddistinguono

Storiografi

Curzio Rufo: si inserisce nel filone del romanzo d'avventura, che nelle imprese d'Alessandro trovò uno dei suoi temi preferiti (Bardon)

Storiografi

Ammiano Marcellino: eredità ellenistiche sono in lui la tendenza al moralismo, la ricerca dell'effetto, l'enunciazione di massime morali, le digressioni sulla corruzione di Roma, la trattazione divisa secondo uno schema comprendente virtù, difetti ed aspetto esteriore

Sul sublime

Tacito: nel "Dialogus" riprende la posizione dell'Anonimo ("la grande eloquenza politica è morta per mancanza di libertà")

Sul sublime

Classicismo francese

Sul sublime

Lessing

Sul sublime

Kant

Sul sublime

Swift

Sul sublime

Pope

Sul sublime

Romanticismo

Sul sublime

Croce

Teocrito

Virgilio: nelle "Bucoliche" la tecnica è teocritea e molti versi, più che imitati, sono tradotti dal modello greco, ma, mentre Teocrito ha molto gusto per il particolare preciso e realistico, V. tende più al sentimentale, cerca ciò che ha un valore interiore

Teocrito

Orazio: il sentimento della natura, in quanto quasi esclusivamente bucolico, rispecchia il sentire ellenistico, così come il paesaggio è simile a quello di T., ma più scarso di particolari

Teocrito

Tibullo: anche in lui c'è l'atteggiamento bucolico, ma, espresso quale contrasto tra la vita della campagna e quella della città, lo distingue da quello di T. e lo avvicina, piuttosto, a Virgilio

Teocrito

Ovidio: tiene presente T. nel descrivere l'amore di Polifemo per Galatèa (Met. XIII, 750-987)

 

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Ultimo aggiornamento: 05-05-03

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