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Le fonti principali per la ricostruzione della
vita di Euripide sono un'opera anonima intitolata VITA e alcuni
frammenti di papiro di una biografia. Euripide nacque a Salamina nel
480 a. C. ; secondo molte fonti, proprio il giorno di settembre in
cui si combatté la famosa battaglia navale far Greci e Persiani. Il
padre sarebbe stato un negoziante, mentre la madre Clito sarebbe
stata un'erbivendola. La famiglia non fu, come vogliono alcune
testimonianze, delle più cospicue, ma dové godere d'una certa
agiatezza, se il poeta poté formarsi una delle prime biblioteche
private di cui si abbia notizia. Da ragazzo, Euripide fu torciere
dell'ara di Apollo e pare che abbia svolto anche della attività
atletica. Un suo approccio all'arte pittorica può essere alla base
della notizia che sarebbe stato pittore. Poco attendibili le
allusioni a sue disavventure coniugali e anche alla sua misantropia.
Quest'ultima sarebbe stata così acuta, da indurlo a vivere in
isolamento d'una grotta in cospetto del mare: un motivo che si
riscontra in varie biografie romanzate. Euripide non partecipò alla
vita politica;
tuttavia Satiro, Strabone e Gellio confermano un
magistero esercitato su Euripide da parte di Anassagora, che di
certo non si limitò a una strigliata.. Esordì in teatro nel 455 con
le Peliadi (andate perdute).
Da alcune informazioni raccolte pare che Cleone
gli avrebbe intentato un processo di empietà. Sulla morte di
Euripide esiste una leggenda, inventata dai suoi rivali, che vuole
che il poeta sia finito sbranato da dei cani. Di certo morì nel 406
a Pella e fu sepolto nella valle d'Aretusa.
Ippolito
- 1/20
AFRODITE:
Importante e non senza fama tra i mortali io anche nel cielo sono
chiamata la dea Cipride; quanti abitano dentro il Ponto
ed i limiti di Atlante e vedono (vedendo) la luce del sole,
quelli che rispettano il mio potere io (li) proteggo, mentre
quelli che sono superbi verso di noi io (li) rovino.
Anche nella stirpe degli
dei vi è questa (caratteristica): essi hanno piacere se sono
onorati dagli uomini.
Subito farò vedere la
verità delle mie parole.
Il figlio di Teseo, il rampollo dell’Amazzone,
Ippolito,
allievo
del casto Pitteo,
solo fra i cittadini di questa
terra di Trezene dice che io sono la più spregevole delle dee:
rifiuta l’amore e si astiene dalle nozze; egli onora Artemide,
sorella di Febo,
figlia di Zeus, in quanto la considera la più grande delle
divinità, stando sempre con la fanciulla per la verde foresta,
con i (suoi) agili cani
egli stermina gli animali selvatici di (questa) terra, avendo
trovato una (compagnia) più alta di un’amicizia mortale.
Ora non ce l’ho con loro;
infatti perchè dovrei esserlo?
Ippolito
- 21/40
Ma per i torti che ha avuto verso
di me punirò
Ippolito oggi stesso; essendo andata avanti
già da tempo nella maggior parte delle cose (che devono essere
fatte), non ho bisogno di grande sforzo.
Fedra,
la nobile
sposa di suo padre, infatti, avendo visto lui venuto un giorno
dalla casa di Pitteo nella terra di Pandione
per la contemplazione e la celebrazione dei sacri misteri,
fu presa nel cuore da amore tremendo per i miei disegni.
E prima di venire in questa terra
di Trezene, proprio presso la stessa rocca di Pallade,
di fronte a questa terra, essa fondò un tempio di Cipride,
amando un amore lontano, e d’ora in avanti si dirà che la dea
(il tempio della dea) è stata costruita a causa di Ippolito.
Ora poichè Teseo
ha lasciato la terra di Cecrope,
fuggendo la contaminazione del sangue dei Pallantidi
e con la (sua) sposa ha fatto vela verso questa terra, consentendo
all’esilio di un anno
fuori del (suo) paese, da allora gemendo, sconvolta dal pungolo
dell’amore, l’infelice
muore in silenzio e nessuno della (sua) gente è consapevole del
(suo) male.
Ippolito
- 41/57
Ma
non così bisogna che vada a finire questo amore, rivelerò la
faccenda a Teseo ed essa verrà fuori chiara.
E il padre ucciderà il giovane a
noi ostile con le imprecazioni
che il dio del mare, Posidone, concesse in dono
a Teseo, cioè che nulla invano chiedesse al dio per tre volte; e
l’altra, Fedra, con il suo onore salvo
tuttavia morrà; infatti non considererò la sventura di costei
a tal punto che i miei nemici non mi paghino una pena tale da
soddisfarmi.
Ma vedo avanzarsi il figlio di
Teseo, il quale ha lasciato le fatiche della caccia, Ippolito; mi
allontanerò da questi luoghi.
Un numeroso
corteo di servi, muovendo i passi insieme con lui, fa sentire
canti, onorando con inni la dea Artemide; infatti non sa che le
porte dell’Ade stanno aperte e che vede (per ultima questa luce)
per l’ultima volta la luce di questo giorno.
Le
innovazioni apportate da Euripide nel secondo “Ippolito”,
dice il Martina, devono essere state
numerose ed abbastanza rilevanti. Anzitutto la scena è posta
a Trezene; in Seneca ed in Ovidio in Atene. Così doveva
essere in Sofocle e nel primo “Ippolito”. La scena in
Atene implica la centralità ateniese del mito di Teseo, a
Trezene quella trezenia del mito di Ippolito. Operando lo
spostamento il poeta sarà stato costretto ad apportare una
serie di modificazioni nella vicenda. E’ probabile che il
prologo del primo “Ippolito” fosse recitato dalla nutrice
o dalla stessa Fedra; nel secondo da Afrodite; nell’”Ippolito”
superstite Euripide si è preoccupato di caratterizzare, nella
loro prima apparizione, i personaggi di Ippolito e di Fedra:
non possiamo dire se anche nell’”Ippolito” perduto abbia
fatto la stessa cosa. Ma l’innovazione fondamentale riguarda
il trattamento della figura di Fedra. Vi sono fondati motivi
per ritenere che questo personaggio fosse radicalmente diverso
nelle due tragedie. Nel primo “Ippolito” è una donna
sfrontata che non esita a manifestare il suo amore, nel
secondo è travolta da una violenta passione che ella cerca
subito di soffocare per salvare la buona fama per sè ed i
figli: la profonda modificazione nel trattamento di questa
figura implica una serie di problemi di cui almeno ad uno è
necessario accennare. Sia la prima che la seconda delle due
tragedie è intitolata “Ippolito”: questo, e non Fedra
(a differenza di quanto accadeva in Sofocle), è considerato
il personaggio principale. Nell’”Ippolito” a noi giunto
Fedra verso la metà della tragedia si uccide e scompare dalla
scena, Ippolito invece domina la scena dal principio alla
fine. Tuttavia la tragedia del giovane comincia proprio quando
quella di Fedra è al termine: è il secondo episodio il
centro di tutto il dramma, e qui il poeta ha innovato
radicalmente.
La scena della tragedia rappresenta l’esterno del palazzo
reale di Trezène; nel mezzo c’è un’ampia entrata con due
battenti; alla vista del pubblico sono due statue: una di
Afrodite e l’altra di Artemide. Quella di Afrodite è vicino
alla porta (v. 101) e la sua posizione è legata all’azione
perchè i personaggi si rivolgono ad essa quando entrano
nella casa (v. 113, 114-120, 522-524, 1461). Non si dice mai,
invece nella tragedia, dove sia la statua di Artemide: due
volte solo collegata all’azione, tuttavia, statua od altare
che sia, la si colloca simmetricamente a quella di Afrodite e
con questa dea Artemide nella tragedia è continuamente
bilanciata.
E’ consuetudine di E. iniziare le sue tragedie con un lungo
discorso in cui un attore può esporre al pubblico l’essenziale
che esso deve sapere. Qui la scelta di Afrodite era
inevitabile: Fedra è innamorata di Ippolito, ma nasconde il
suo amore; il pubblico deve sapere questo per capire le scene
precedenti a quella in cui è rivelato l’amore; Fedra, l’unica
mortale che potrebbe dirglielo non è in condizioni di
farlo: deve essere, quindi, un dio e Afrodite, che è la causa
dell’amore, è la dea indicata. Da notare che di E. anche
recitati da un dio sono i prologhi delle tragedie: Baccanti
(Diòniso), Alcesti (Apollo), Ione
(Ermes), Troiane (Posidone)
il Mar Nero, ad oriente, e specificamente la terra della
Colchide (ved. Apollonio
Rodio, II, 417 ss); ad occidente, le colonne d’Ercole
E. non precisa il nome dell’Amazzone non perchè esso era
incerto nella tradizione (Antìope o Ippolita), ma perchè
entrambi qui poco adatti dal punto di vista metrico. E’
probabile che originariamente il nome dell’Amazzone fosse
Antìope e che sia divenuto Ippolita soltanto dopo che l’Amazzone
fu considerata la madre di Ippolito. Forse si tratta di un’importazione
attica nella stirpe di Ippolito, modellata sulla spedizione di
Eracle, allo scopo di spiegare la storia, molto più antica,
dell’invasione dell’Attica da parte delle Amazzoni.
dattilo in prima sede; questo stesso fenomeno ricorrerà al v.
22
è il bisnonno di Ippolito, padre di Etra, madre di Teseo
l’aggettivo pronominale deittico, cioè accompagnato dal
gesto della mano dell’attore, indica che Trezene è la scena
della tragedia (fenomeno, questo, raro in Eschilo e in
Sofocle)
Afrodite echeggia il linguaggio con cui Ippolito rende onore
ad Artemide: nell’invocare una divinità si richiama di
solito la sua stirpe e a volte altre relazioni di cui essa è
probabilmente orgogliosa (ved. Pindaro,
Nemea 11, 1 ss)
il termine, nel significato di “cane da caccia”, è
ordinariamente femminile
più normale il costrutto di questo verbo in greco con l’accusativo
della persona ed il genitivo della colpa
Afrodite pensa a se stessa come soggetto e, perciò, usa il
nominativo del participio aoristo, ma, poi, continua con una
costruzione in cui grammaticalmente essa è accusativo,
costrutto normale in E.: si tratta di un anacolùto, proprio
di un modo di parlare naturale e spontaneo
nel passo è notevole l’allitterazione della “pi”,
a sottolineare lo sdegno della dea
i vv. 24-33 non sono strettamente pertinenti la tragedia, ma
la non-pertinenza ha la sua ragione: sotto l’acropoli di
Atene c’era un monumento sepolcrale di Ippolito ed un
tempio: è probabile che, quando gli Ateniesi rilevarono la
leggenda di Ippolito da Trezène, dissero che questo tempio
era stato eretto da Fedra. E., poichè un poeta che scriveva
per un pubblico ateniese doveva rispettare le leggende
collegandole con culti ateniesi, dovette quindi concepire la
sua trama in modo che Fedra fondasse il tempio. Nella
tragedia, svolgentesi a Trezène, il tempio sarebbe stato
impossibile a meno che Fedra non si fosse innamorata prima di
lasciare Atene per l’ultima volta: di qui l’importanza dei
versi citati.
perchè figlia di Pasifae e di Minosse, re di Creta, il quale
era figlio di Zeus e di Europa
re dell’Attica, succedendo ad Erictònio
sono i misteri che si celebravano ad Elèusi, nei pressi di
Atene: Ippolito partecipò alla parte più sacra delle
cerimonie, a cui erano ammessi soltanto gli iniziati
cioè l’acropoli; il tempio era all’incirca sulle sue
pendici meridionali e da esso si poteva vedere, dall’altra
parte del golfo Sarònico, la regione intorno a Trezène
un’assenza di breve durata, non come quella di Seneca (e
della “Fedra” di
Sofocle) in cui apprendiamo che egli mancava da quattro anni
essendo andato all’Ade per aiutare Piritoo a rapire
Persèfone.
l’Attica, e qui propriamente Atene, da Cècrope, mitico
capostipite delle genti attiche rappresentato sotto sembianze
umane e di serpente
l’uccisione dei cugini Pallàntidi da parte di Teseo era
già una tradizione ateniese: Pandiòne divise l’Attica tra
i suoi quattro figli, dando Atene ed i suoi dintorni ad Egeo,
l’Attica meridionale a Pallante; i figli di Pallante
contestarono il diritto di Teseo a succedere ad Egeo, lo
aggredirono, ma furono uccisi da Teseo. Questo, secondo E.,
sarebbe stato costretto ad andare esule da Atene a Trezène
(un’invenzione del poeta, comunque, per trasferire l’azione
della tragedia a Trezène, a costo pure di alterare la
cronologia degli avvenimenti)
questi bandi sembra fossero contemplati dal diritto attico in
caso di omicidio involontario. Nel caso di Teseo, l’omicidio
non era involontario, ma giustificabile, e la legge attica
normalmente non avrebbe comminato nessuna pena, ma i
Pallàntidi erano cugini di Teseo e, per questa ragione, è
probabile che la “contaminazione”
fosse considerata abbastanza grave per mandarlo in esilio
Fedra
ed Ippolito, leggiamo nel Martina,
proiezioni umane di un’antinomia
che ha come simbolo divino Afrodite ed Artemide, appaiono in
tutto inconciliabili. Non è forse del tutto fuori posto
supporre che le modificazioni apportate nel secondo “Ippolito”
a questi due personaggi hanno giovato non solo alla struttura
esterna della tragedia, che appare rispondente ad evidenti
esigenze di simmetria, ma anche ad una caratterizzazione
dei personaggi più nettamente contrastante.
i versi che seguono sembrano contribuire a mettere fuori
strada il pubblico. E., qui, innova parecchio: nella forma
nota della leggenda, Fedra, respinta da Ippolito, l’accusa a
Teseo di averla violentata, Ippolito è maledetto e muore,
Fedra poi si suicida; nella nostra tragedia, invece, Fedra,
tradita dalla nutrice che rivela ad Ippolito la sua passione,
si suicida prima, in un tentativo di salvare il suo onore, e
accusa Ippolito con un biglietto che Teseo trova dopo che essa
è morta. Di questa innovazione non si parla affatto in questi
versi; anzi Afrodite riporta gli avvenimenti nel loro ordine
tradizionale, ma è probabile, da parte del poeta, un’intenzionale
ambiguità: a lui, qui nel prologo, non interessa dare una
sintesi esatta della trama, ma creare, anche con un “inganno”
nell’azione tragica, la “suspense”
nel pubblico
la maledizione che Teseo lancerà contro il figlio sembra
costituire un punto fermo anche nel primo “Ippolito”
secondo la leggenda, Posidòne
aveva promesso a Teseo di adempiere tre sue preghiere: Teseo
ne utilizzò una in occasione di un viaggio da Trezène ad
Atene, quando, dovendo affrontare mostri e ladroni, li vinse,
e un’altra all’uscita del labirinto di Creta
questo è un altro motivo per far attendere nel pubblico con
ansia lo svolgimento della trama: nella tradizione Fedra
moriva suicida e disonorata, mentre qui si parla “di
onore salvo”
Fedra, in effetti, è un oggetto nelle mani di Afrodite e la
dea, pur di vendicarsi di Ippolito, non si fa scrupolo di
sacrificarla
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Ippolito
- 73/94
IPPOLITO:
Per te, o signora, porto questa corona, intrecciata dalle mie
mani, da un vergine
prato,
dove il pastore non osa pascere la (sua) greggia, dove il ferro
(degli attrezzi) non è mai passato, ma (questo) prato senza
macchia l’ape lo sorvola a primavera; ed il Pudore (lo) irriga
con le acque di un fiume per tutti quelli
ai quali niente è stato insegnato ma nella cui natura la virtù
sempre ha il posto ad essa assegnato in tutte le cose, proprio per
essi, affinchè ne colgano: ai malvagi non (è) permesso
(coglierli).
Dunque, mia cara
signora, accogli(la) come diadema della (tua) aurea chioma da una
mano pia.
Perchè a me solo
tra i mortali tocca questo privilegio: di stare (sto) insieme con
te e di risponderti (ti rispondo) con (le mie) parole, sentendo
la (tua) voce, anche se non vedo il tuo viso.
Possa io girare intorno
all’ultima meta
così come ho cominciato la (mia) vita.
SERVO: Signore, perchè bisogna chiamare padroni gli dei,
accetteresti un mio consiglio, se io ti consigliassi bene?
I: Certo; altrimenti non ci mostreremmo saggi.
S: Conosci la legge che vige tra i mortali?
I: Non so; ma a qual proposito mi fai esattamente questa domanda?
S: Odiare la superbia e ciò non è gradito a tutti.
I: E’ giusto: chi dei mortali, (essendo) superbo, non (è)
odioso?
Ippolito
- 95/120
SERVO: E nelle persone affabili c’è qualche favore?
IPPOLITO: Grandissimo, e guadagno con pochissima pena.
S:
Fra gli dei credi che (ci sia) questo stesso (sentimento)?
I: Se naturalmente noi mortali usiamo le leggi degli dei.
S: Come mai, allora, non rendi omaggio ad una dea veneranda?
I: Quale? Bada che la tua lingua non commetta qualche (errore).
S: Questa che sta presso la tua porta, Cipride.
I: La saluto da lontano, perchè sono puro.
S: Eppure (essa è) augusta ed insigne fra i mortali.
I: Degli dei come degli uomini chi sta a cuore ad uno, chi ad un
altro.
S: Sii felice, avendo quanto senno è necessario (tu abbia).
I: A me non piace nessuno degli dei venerato di notte.
S: Figlio mio, alle divinità sono dovuti gli onori.
I: Andate, compagni,
dopo di essere entrati nella casa, pensate al cibo; (tornando)
dalla caccia è piacevole una tavola riccamente imbandita;
bisogna anche strigliare i cavalli, affinchè, saziato il cibo,
dopo aver(li) attaccati ai carri, li addestri in (esercizi)
convenienti.
Alla tua Cipride dico di
mandare tanti saluti.
S: Ma io, poichè non bisogna imitare i giovani che la pensano in questo modo, come conviene parlare agli
schiavi, supplicherò la tua immagine, signora di Cipro: occorre
avere indulgenza.
Se qualcuno, avendo il
cuore focoso per la giovinezza, ti rivolge parole sconsiderate, fa’
finta di non sentirlo: gli dei infatti devono essere più saggi
degli uomini.
Dopo
che il coro ha concluso un breve inno ad Artemide Ippolito
muove verso la statua della dea per incoronarne il capo con
una ghirlanda di fiori
Euripide,
con questo collegare ossessionatamente la castità sua e dei
saggi alla morale, secondo
alcuni critici, non vuole far riferimento all’Orfismo od ai culti misterici
(tendenti a creare un circolo di iniziati), nè alla
considerazione aristocratica e di Pindaro
(Olimpica 9, 100 sgg.) che la natura sola genera virtù, ma il
poeta vuole in questo modo mettere solo in risalto la
moralità di Ippolito tanto sentita dal giovane da farlo
sembrare egocentrico, arrogante e sprezzante di tutti.
Sembra
che il terreno consacrato ad un dio fosse comunemente vietato
all’uso umano, ed addirittura un’epigrafe del 400 a.C.
trovata in Eubea comminava a chi vi fosse stato trovato a
pascolare o a tagliar legna una multa di 100 dracme
Già
dai primi cenni la preghiera di Ippolito ad Afrodite esprime l’intolleranza
del giovane, intolleranza che andrà man mano accentuandosi
fino allo sprezzante rifiuto della dea ed all’arroganza con
cui tratterà il consiglio amichevole e leale del servo
I
Greci ritenevano che il destino ad un uomo venisse dato da un
“démone” con una distribuzione imparziale, ma alcune
volte il concetto veniva capovolto (Omero, Platone [Fedone],
Euripide [Elena]) e l’individuo era ricevuto come sua
porzione da una potenza responsabile del suo destino
Questa
concessione era offerta ad Ippolito dalla sua condizione di
castità
Lo
stadio in cui si svolgevano le corse a piedi avevano una pista
lunga m. 192 con pali che indicavano il punto dove girare e
tornare indietro (uno per ciascun atleta) alle due estremità;
nelle corse più lunghe gli atleti dovevano girare parecchie
volte intorno a questi pali che fungevano anche come linee
di traguardo
”ànax”
è un saluto deferente da parte di uno schiavo o di un uomo
libero ad un re o ad un principe, “déspota”
è l’umile saluto di uno schiavo al suo padrone: con questo
gioco di termini il vecchio prepara il terreno per suggerire
ad Ippolito di essere umile anche nei riguardi dell’altra
dea, di Afrodite
Inizia
una lunga sticomitìa,
tecnica abituale nei tragici e nei comici
Il
servo naturalmente vuol dire che anche gli dei disapprovano la
superbia ed approvano l’affabilità, ma è probabile che
nelle sue parole Euripide intende adombrare anche il concetto
che la superbia è spiacevole tanto in un dio quanto in un
uomo
Questo
termine, usato negativamente al v. 93 con il senso di “superbo”,
assume qui un significato positivo, anche se va sottinteso un
senso generale: in effetti “superbi”
sono sia Ippolito sia Afrodite
Da
alcuni critici l’intero verso è stato considerato una
nomale formula di congedo e, quindi, variamente collocato
nella parte, ma altri, invece, tra cui il Barrett,
hanno ribadito l’importanza del passo ritenendolo degno
passaggio psicologico ai due versi seguenti in cui si esorta
Ippolito a venerare tutti gli dei, anche Afrodite
Non
è una parola attica, ma dorica
I
servi entrano nel palazzo, Ippolito li segue, oltrepassa la
statua di Afrodite che è accanto alla porta e, nel fare
questo, rivolge al servo con sprezzante ironia la battuta, a
far intendere in modo sottinteso che egli non vuole più
avere a che fare con la dea
Il
vecchio, prostrandosi alla statua di Afrodite, si rivolge alla
dea assumendo intenzionalmente un linguaggio moderato ed
indulgente
Il
contrasto, evidente fin dal v. 113, è duplice: in primo
luogo, il vecchio ha riverenza verso Afrodite, mentre Ippolito
è stato irriverente; in secondo luogo, egli è tollerante
verso Ippolito, mentre il giovane è stato intollerante nei
suoi confronti
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Ippolito
- 601/615
IPPOLITO:
O terra madre, e tu, splendore diffuso del sole, di quali
parole l’indicibile suono senti.
NUTRICE:
Taci, figlio mio, prima che qualcuno si accorga delle
(tue) grida!
I:
Non è possibile che io taccia, perchè ho udito parole
terribili.
N:
Fàllo, (ti supplico) per questa bella mano.
I:
Non accostare (a me) la (tua) mano e non toccare le (mie)
vesti.
N:
Per le tue ginocchia, non rovinarmi!
I:
Perchè, se è vero, come affermi, che non hai detto
niente?
N:
Questo (mio) discorso, figlio mio, non (era fatto) per
tutti.
I:
Ciò (che è) bene, (è) meglio dirlo in pubblico.
N:
Figlio mio, non tradire i (tuoi) giuramenti.
I:
Ha giurato la lingua, ma la mente non (è) legata da
giuramento.
N:
Figlio mio, che vuoi fare? Vuoi rovinare i tuoi amici?
I:
Li respingo (gli amici);
nessuno (che sia) perverso mi è amico.
N:
Perdona! (E’) naturale che gli uomini sbaglino, figlio
mio.
I
precedenti: I
Episodio III Scena - Il coro sente la confessione di
Fedra e ad esso, ora che si è liberata del peso del
suo segreto, Fedra si rivolge con una lunga narrazione
della sua passione. Risponde la nutrice esponendo le sue
idee anticonformiste, dettate dall’esperienza della
vita, e propone rimedi e soluzioni: dire ad Ippolito la
verità (consiglio che Fedra respinge) o ricorrere a
filtri amorosi con cui Fedra guarirà il suo amore (la
regina acconsente). La vecchia si allontana dalla scena
e, enigmatica, medita di agire; I Stàsimo - Il coro intona un inno all’Amore; II Episodio I Scena - Mentre il coro canta, Fedra si avvicina alla
porta e rimane lì ad ascoltare con viva apprensione.
Dal dialogo concitato che si svolge tra Fedra e la
corifea, si apprende che la nutrice sta rivelando ad
Ippolito che Fedra l’ama e che la reazione del giovane
è violenta; II
Episodio II Scena - Dal palazzo esce, in preda a
viva concitazione, Ippolito seguito dalla nutrice e
Fedra si ritira in un angolo appartato.
I
vv. 611 e 612 sono fondamentali
per la continuazione della tragedia: con il primo
verso Ippolito conferma di aver fatto alla nutrice il
giuramento di non parlare, con il secondo, e con Fedra
che ascolta non vista, lo stesso Ippolito non garantisce
alla nutrice il suo silenzio e così spinge l’amante
verso il suicidio.
Ippolito,
nella sua collera, giunge alla conclusione che l’approccio
è stato iniziativa di Fedra, non della nutrice: un
errore non innaturale.
Ippolito
- 651/668
IPPOLITO:
Così anche tu, essere maledetto, sei venuta a proporci
una tresca con il letto intoccabile di (mio) padre; e queste
(tue proposte) io purificherò con acqua corrente
versandola nelle orecchie.
Come dunque farei
il male, io che, dopo aver sentito simili (parole), non
credo di essere puro?
Sappilo bene, ti
salva, donna, la mia pietà; se non fossi stato sorpreso
indifeso dai giuramenti sacri, mai mi sarei trattenuto dal
raccontare questo (tuo intrigo) a (mio) padre.
Ma ora andrò via
dalla casa, finchè Teseo sarà lontano da (questa) terra,
terremo la bocca in silenzio (tacerò): quando sarò tornato
con il (piede del) padre, starò a vedere
come volgerai a lui lo sguardo, tu e la tua padrona.
[Conoscerò allora
tutta la tua sfrontatezza, per averne fatta ora esperienza.]
Possiate morire!
Mai mi sazierò di odiare le donne, neppure se si afferma
che io ne parlo sempre; perchè proprio esse sono in certo
modo sempre perverse.
Perciò, o si
insegni loro ad essere virtuose o mi si lasci, a mia volta,
assalirle in ogni occasione.
I
precedenti: II
Episodio II Scena - I vv. 616-650 contengono una
critica di Ippolito alle donne, a quelle malvage in
particolare, ed alle serve, loro strumento.
vv.
661: Ippolito continua ad ignorare Fedra, ma in questo
verso l’accomuna sprezzantemente alla nutrice.
Questo
verso, espunto dal Barrett e dal Diggle in quanto
sarebbe scenicamente e psicologicamente privo di
importanza, è mantenuto dal Sodano che vede in esso un
giustificato contrasto tra le due azioni verbali
segnate.
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Ippolito
- 776/789
NUTRICE
[dall’interno]: Ohimè! ohimè! correte in aiuto (voi)
tutti (che siete) vicino al palazzo! Si è impiccata (è nei
lacci), la (nostra) signora, la sposa di Teseo.
CORIFEA:
Oh, è finita: la regina non è più, perchè si è sospesa
ad un laccio attaccato ad una trave.
N:
Non vi affretterete? Non porterà qualcuno un’arma a
doppio taglio, con cui spezzeremo il nodo (che le serra) la
gola?
C:
Amiche, che fare? Vi pare proprio di attraversare (la
soglia del)le case e di liberare la sovrana dal cappio tirato
saldamente?
UNA
COREUTA:
E che? Non ci sono lì giovani serve? Il darsi molto da
fare (non è nella sicurezza della vita) è pericolo nella
vita.
N:
Raddrizzate, stendendolo (questo) misero cadavere; triste
custode della casa per il mio padrone!
CORIFEA:
E’ morta, l’infelice, a quel che sento: ecco che la
stendono come morta.
Ippolito
- 790/810
TESEO:
Donne, sapete qual mai grido con forte chiasso giunse
attraverso le porte? In nessun modo infatti
la (mia) casa si degna di salutare lietamente me in quanto
pellegrino, aprendo le porte.
Forse a Pitteo
(che è) in età avanzata è stato fatto qualcosa di
spiacevole? (Pitteo è) abbastanza avanti negli anni, ma
ugualmente (ancora adesso doloroso per noi) sarebbe causa per
me di dolore, se lasciasse queste case.
CORIFEA:
Questa sventura non ti si riferisce a vecchi, Teseo;
giovani, morti, sono causa di sofferenza per te.
T:
Ahimè! A qualcuno dei miei figli è stata forse rapita
(tolta) l’esistenza?
C:
Vivono, mentre al contrario è morta la (loro) madre, nel
modo più doloroso per te.
T:
Che dici? (Mia) moglie è morta? E per quale accidente?
C:
Si è legato un cappio strangolante sospeso ad una trave.
T:
Ghiacciata dal dolore o per quale sventura?
C:
Tanto sappiamo:
da poco, Teseo, sono arrivata anche io al palazzo per piangere
le tue sventure.
T:
Ah! perchè dunque essermi coronato il capo di questo
intreccio di foglie, infelice pellegrino che sono!
Aprite, servitori, il serrame
delle porte, ritirate le sbarre! Affinchè io veda l’amaro
spettacolo di (mia) moglie che morendo mi ha tolto la vita.
I
precedenti: II
Episodio III Scena - Fedra decide di morire, ma anche
di trascinare nella sventura Ippolito; II
Stàsimo - Il coro favoleggia posti lontani, ma, poi,
ricade sul doloroso presente e sul caso di Fedra.
I
vv. 776-777, 780-781 e 786-787 sono attribuiti a una voce
che viene dall’interno: si è pensato a quella della
nutrice, e non ad altri, supponendo che questa sia rimasta
in casa, nonostante tutto, ansiosa delle sorti della sua
padrona.
La
coreuta è restia ad intervenire perchè, se salvano la
vita a Fedra, questa non sarà certamente a loro grata e
perciò esse hanno una buona ragione per non agire.
Le
domande fatte da un personaggio che è appena entrato in
scena sono seguite di solito da una frase con “congiunzioni
fisse”, le quali spiegano perchè egli si pone la
domanda.
Padre
di Tèseo e nonno di Ippolito, Pitteo viveva evidentemente
nel palazzo reale, ancor dopo che il figlio era stato
incoronato re di Trezène.
La
corifea è ora costretta a dire un’evidente bugia per
salvare la trama della tragedia.
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Ippolito
- 1153/1177
MESSAGGERO:
Dove potrai andare e trovare, o donne, il re di questa
terra, Teseo? Se lo sapete, indicatemelo; è forse all’interno
del palazzo?
CORIFEA:
Eccolo in persona; egli esce dalla (sua) casa.
M:
Teseo, porto una notizia degno motivo di angoscia per te,
come per i cittadini che abitano la città di Atene ed il
territorio di Trezene.
TESEO:
Che c’è? Qualche spiacevole catastrofe ha colpito le due
città vicine?
M:
Ippolito non è più, per così dire;
egli vede tuttavia la luce su un tenue filo.
T:
Per mano di chi? Forse era venuto in inimicizia con lui
qualcuno del quale egli disonorò con la violenza la moglie
come (ha disonorato la moglie) di (suo) padre?
M:
Il suo stesso carro lo uccise e (lo uccisero) le
imprecazioni (uscite) dalla tua bocca, quelle che a tuo padre,
il re del mare, tu avevi rivolto contro (tuo) figlio.
T:
O dei, e tu Posidone! Come dunque eri realmente mio padre, tu
che hai esaudito le mie imprecazioni! Precisamente come è
morto? Parla! In qual modo la mazza della Giustizia ha colpito
lui che mi disonorò?
M:
Presso la riva aperta ai flutti, con le striglie (in mano,
noi stavamo a pettinare la criniera dei cavalli, piangendo: un
messaggero era venuto a dire che Ippolito non avrebbe portato
più i (suoi) passi su questa terra, perchè aveva da te un
triste esilio.
Ippolito
- 1178/1193
Lui stesso, levando
lo stesso (nostro) canto di lacrime, venne a noi sulla riva, e
una folla innumerevole di amici e di coetanei camminava
insieme (con lui) seguendolo.
Infine, dopo qualche
tempo, dopo essersi liberato dei gemiti, disse: “Perchè mi
lascio sconvolgere dalla sorte (da ciò)? Bisogna obbedire
agli ordini di un padre. Attaccate al carro le cavalle da tiro,
servi; questa non è più la mia città”.
Da quel momento
tutti allora si affrettarono e, più rapidamente di quanto non
si potrebbe dire, ponemmo le cavalle, dopo che erano state
bardate, presso il nostro signore.
Afferra con le mani
le redini (staccandole) dal bordo anteriore,
adattando i suoi piedi giusto negli incavi.
Ed in primo luogo
dice agli dei, tendendo le mani: “Zeus, che io non sia più,
se sono un malvagio: possa (mio) padre sentire come ci
oltraggia, o che siamo già morti o che vediamo ancora la luce”.
Ippolito
- 1194/1212
Ed in questo,
prendendo tra le mani il pungolo, lo spinse con un sol colpo
nel (fianco dei) cavalli; e noi servi, sotto il carro, presso
i morsi accompagnavamo il (nostro) signore lungo la strada
(che va) diritto ad Argo ed al territorio di Epidauro.
Quando entrammo nel
tratto deserto, al di là di questo (territorio) c’è una
riva che si estende ormai verso il golfo Saronico.
E di lì un rombo
sotterraneo, simile al tuono di Zeus, diffuse un profondo
brontolio, spaventoso a sentirsi; i cavalli drizzarono ritto
il capo e l’orecchio verso il cielo, e tra noi c’era un
violento terrore, (domandandoci) da dove mai potesse venire
(quel) rumore.
Volgendo lo sguardo
verso la riva rumoreggiante, vedemmo un’onda prodigiosa che
toccava il cielo sicchè il mio occhio fu privato di vedere le
scogliere di Scirone, nascondeva l’Istmo e la roccia di
Asclepio.
Poi, gonfiandosi e
rigettando all’intorno con il ribollimento del mare molta
spuma, essa avanza verso la riva là dove era la quadriga.
Ippolito
- 1213/1233
E con la triplice
onda che si infrangeva il flutto vomitò un toro, un essere
mostruoso e selvaggio; la terra intera, piena del suo muggito,
gli rispondeva in modo raccapricciante, ed a chi osservava lo
spettacolo appariva più terribile della vista.
Subito sui cavalli
si abbatte un panico spaventoso; il padrone, che aveva grande
familiarità con l’indole dei cavalli, afferrò le redini a
due mani; (le) tira, come un marinaio (tira) il remo; tenendo
il corpo sospeso all’indietro per mezzo delle cinghie; ma
quelle (le cavalle), mordendo con le mascelle il freno
forgiato con il fuoco, (lo) trascinano a forza, senza badare
alla mano del pilota, nè alle cinghie, nè al carro ben
costruito.
E ogni volta che
(se), reggendo il timone, dirigeva il (loro) corso verso le
parti pianeggianti del terreno, appariva di fronte il toro sì
da far volgere indietro la quadriga impazzita per il terrore;
e se (esse) si lanciavano sulle rocce, furenti nell’animo,
avvicinandosi in silenzio, seguiva il bordo del carro, finchè
fece cadere e rovesciò (il veicolo), mandando la ruota a
sbattere su una roccia.
Ippolito
- 1234/1254
Tutto era confuso; i
mozzi delle ruote e le chiavette degli assi volavano in alto;
egli stesso, l’infelice, impigliato nelle redini, preso in
(questo) laccio inestricabile, è trascinato, sbattendo
violentemente la (sua) povera testa contro le rocce,
lacerando le (sue) carni, gettando grida terribili a sentire:
“Fermatevi, o (cavalle) nutrite alle mie greppie, non
cancellatemi (dai vivi)! O funesta imprecazione d’un
padre!
Chi vuole salvare soccorrendolo il più degno degli uomini?”.
Pur volendolo in
molti rimanevamo indietro con piede troppo lento. Infine
districatosi, non so in qual modo dai legami delle redini
tagliate, egli cade, avendo ancora un debole soffio di vita;
erano scomparsi i cavalli ed il funesto mostro del toro,
ignoro in qual luogo della terra rocciosa.
Io (sono) uno
schiavo della tua casa, signore, ma di tanto non sarò mai
capace: credere che tuo figlio sia un malvagio, neppure se si
impiccasse tutta la razza delle donne e dovessero coprirsi di
scritti i pini dell’Ida!
Perchè io ho la
certezza che è un nobile cuore.
E’ un verso scenico; la coincidenza dell’uscita di
Tèseo è un espediente tecnico, cui i tragici erano
costretti a ricorrere, perchè l’azione si svolgeva
soltanto all’esterno, non anche all’interno della
casa.
In realtà, fra Atene e Trezène, corrono trenta miglia
del golfo Sarònico e perciò l’epìteto va spiegato
soprattutto per il legame politico che le univa.
Il messaggero dà subito la notizia della morte di
Ippolito, che poi non corrisponde alla verità e che egli
attenua, aggiungendo “per così dire”.
In questo passo il carro di Ippolito sembrerebbe tirato da
due cavalle soltanto, mentre al v. 1212 e al v. 1229 si
parla di “tiro a
quattro”.
La fronte ed i lati del carro erano formati da una sbarra
collegata con elementi verticali all’ossatura del fondo:
a questa sbarra erano attaccate le redini, quando il carro
era fermo.
Sodano:
Euripide parla della strada che
conduce direttamente ad Argo e ad Epidauro: poichè le
montagne rea Capo Nìsiza ed Epidauro cadono a picco sul
mare, qualsiasi strada da Trezene ad Epidauro deve passare
per il retroterra di esse attraverso la valle superiore
del fiume Bedhèni, e perciò nei suoi primi tratti
coinciderà con la via che da Trezène porta ad Argo. Da
Trezene stessa, che si trova a tre miglia nell’interno,
si raggiunge la valle del Bedhèni prendendo verso
occidente attraverso il valico a sud del monte Ortholìti;
ma Ippolito, partendo dalla costa a nord di Trezene, avrà
naturalmente cavalcato verso occidente per qualche tratto
lungo la costa e poi avrà piegato verso l’interno per
incontrare la strada proveniente dalla città. A quale
punto Ippolito intende piegare verso l’interno? Le
possibilità sono due: l’una (la più ovvia) dopo circa
tre miglia, a Lesià, dove egli poteva cavalcare verso
sud-ovest su per la valle e incontrare la strada
proveniente dalla città prima che essa attraversa il
valico; l’altra, circa quattro miglia più lunga, a capo
Nìsiza, dove è un valico nelle montagne costiere (presso
il villaggio di Ano Fanàri) che dà accesso alla valle di
uno degli affluenti del Bedhèni. Di queste due
possibilità, la descrizione di Euripide si accorda con la
seconda. Nei vv. 1207-1209 il poeta parla delle “scogliere
di Sirone”, dell’Istmo e della “roccia di Asclepio”.
Le rupi Scironie, ad occidente di Megara, dovrebbero
essere chiaramente visibili per venticinque miglia di mare
da Capo Nìsiza, da qualsiasi punto più lontano ad est.
La roccia di Asclepio è sconosciuta. L’unica
difficoltà è l’Istmo, cioè l’Istmo di Corinto.
Questo infatti è completamente invisibile da Capo
Nìsiza, perchè è nascosto dai monti a nord di Epidauro.
Perciò, o Euripide ha qui commesso il suo unico
evidente errore oppure usa la parola Istmo nel significato
più libero che essa ha talvolta, cioè tutta la
striscia di terra fra Megara e Corinto, di cui tutta la
metà orientale è visibile da Capo Nìsiza.
Veramente Ippolito non sa della maledizione di Tèseo, o
almeno non l’ha sentita sulla scena, sicchè si è
supposto che gli possa essere stata riferita dopo la sua
uscita dalla scena a v. 1101; ma il pubblico non l’avrebbe
mai notato nè è compito del poeta spiegare ogni
particolare, anche il più insignificante.
Leggiamo
nel Rivier: Tra il padre e il figlio il disaccordo è totale, e certamente
preesisteva alla crisi. Teseo non è mai penetrato nel
mondo in cui respira Ippolito. Anzi, egli deve
considerarlo con risentimento e diffidenza. Alla denuncia
di Fedra, egli fa un’accoglienza calorosa che la sua
tristezza non spiega in maniera sufficiente. Vi si
discerne come una gioia malvagia nello scoprire
finalmente colpevole questo figlio troppo perfetto. Era
dunque così: quella perfezione nascondeva una tara
segreta! Ed ecco Ippolito abbassato al livello della
comune umanità; la fierezza in lui non è che
presunzione, l’alterezza: orgoglio, e l’innocenza:
doppiezza. Tutto ciò che Ippolito dice è volto a suo
svantaggio dal padre tratto in inganno. Veramente l’offensiva
condotta contro la sua felicità era ben congegnata; suo
padre vi ha messo l’ultima mano. Al punto in cui siamo,
Ippolito ha perduto tutto. Non vi è che il messaggero a
rendergli giustizia (v. 1254).
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Ippolito
- 1389/1409
ARTEMIDE:
Infelice, a quale prova sei stato legato!
La (tua) nobiltà d’animo ti ha rovinato.
IPPOLITO:
Oh! O divino profumo d’ambrosia!
Pur essendo nei mali, ti ho sentito e ne fui alleviato
nel corpo. E’ in questi luoghi la dea Artemide.
A:
O sventurato, è da te la più amata fra le dee.
I:
Vedi, signora, me, l’infelice, in quale stato mi
trovo?
A:
Lo vedo; ma ai (miei) occhi non è consentito versar
lacrime.
I:
Non hai più il (tuo) cacciatore, nè il (tuo)
servo.
A:
No, purtroppo! ma muori certamente a me caro.
I:
...nè il (tuo) cavaliere, nè il custode delle
(tue) immagini.
A:
Così decise Cipride, la scellerata.
I:
Ahimè! Intendo il dio che mi uccise.
A:
Se l’ebbe a male per l’onore ed era corrucciata
con te (che eri) virtuoso.
I:
Essa, da sola, ha rovinato noi che siamo in tre: me ne
sono accorto.
A:
Si: (tuo) padre, te, e per terza la (sua) sposa.
I:
Piango anche le sfortune di (mio) padre.
A:
E’ stato ingannato dalla volontà divina.
I:
Sventurato tu, o padre, per la tua disgrazia.
TESEO:
Sono finito, figlio (mio), nè io (ho) piacere
della vita.
I:
Piango te più che me per il (tuo) errore.
Ippolito
- 1410/1430
TESEO:
Oh, se potessi, figlio (mio), esser morto al posto
tuo!
IPPOLITO:
Dono amaro di Posidone, tuo padre!
T:
Oh, non fosse mai venuto alle mie labbra!
I:
Perchè? Mi avresti allora ucciso, tanto allora eri
adirato.
T:
Perchè eravamo stati ingannati nell’opinione
dagli dei.
I:
Oh, se la stirpe dei mortali fosse capace di
maledire gli dei!
ARTEMIDE:
Lascia andare; anche nelle tenebre sotterranee le
ire della dea Cipride non cadranno per sua volontà
invendicate sul tuo corpo a causa della tua pietà e
della (tua) virtù; io, con la mia mano mi vendicherò
su un altro di lei con queste frecce inevitabili,
(un altro) il quale sia il più caro fra i mortali.
Per te
sfortunato, in cambio dei tuoi mali, gli onori più
grandi nella città di Trezene, io te li concederò:
le giovani vergini, prima delle loro nozze,
taglieranno per te le loro chiome, per te che
attraverso le età raccoglierai il profondo lutto
delle (loro) lacrime; e sempre sarà per te la cura
musicale delle fanciulle, e, caduto senza fama, non
sarà taciuto l’amore di Fedra.
Ippolito
- 1431/1445
Tu, figlio
del vecchio Egeo,
prendi tuo figlio tra le braccia e stringilo (a te); l’hai
ucciso innocentemente
ed è naturale per gli uomini sbagliare, quando gli
dei lo permettono.
A te
raccomando di non aver rancore verso tuo padre, o
Ippolito; hai una sorte per la quale sei stato
rovinato.
Addio,
dunque! Non mi (è) consentito vedere i trapassati,
nè contaminare
il (mio) occhio con l’anelito dei moribondi; ora ti
vedo già vicino all’istante fatale.
IPPOLITO:
Anche tu, vergine beata, va’ con il mio addio; la
(nostra) lunga intimità tu lasci senza difficoltà.
Cancello l’inimicizia
con (mio) padre, se tu lo desideri; infatti anche
prima ero docile alla tua parola.
Ahimè, le
tenebre già mi oscurano gli occhi: padre (mio),
prendimi e deponi ritto il (mio) corpo.
Ippolito
- 1446/1461
TESEO:
Ahimè, figlio (mio), che fai di me, di un
infelice?
IPPOLITO:
Sono morto; vedo le porte degli inferi.
T:
(Muori) lasciando impura la mia mano?
I:
No, perchè ti assolvo da questa (mia) morte.
T:
Che dici? Mi mandi assolto del sangue (versato)?
I:
Chiamo a testimone Artemide dall’arco
irresistibile.
T:
O caro, quanto sei generoso con (tuo) padre.
I:
Augurati di trovare tali i tuoi figli legittimi.
T:
Piango, ahimè, sulla tua pietà e la (tua) virtù.
I:
A te anche addio, addio molte volte, padre mio!
T:
Non abbandonarmi ora, figlio (mio), ma fatti coraggio!
I:
I miei sforzi sono finiti; muoio, padre (mio).
Coprimi al più presto il volto con il mio mantello.
T:
Illustre territorio di Afea e di Pallade,
di qual uomo sarai privato! Me sventurato! Quante
volte, o Cipride, dovrò ricordarmi dei tuoi mali!
La metafora del giogo, dal cui peso il bue o il
cavallo non può liberarsi, è propria a
significare una sventura inevitabile.
Artemide è invisibile ad Ippolito, ora come nel
passato. Qui, sulla scena la dea è fuori del suo
campo visivo, ma ciò sta a simboleggiare con
sufficiente evidenza anche la vera invisibilità
che essa conserva davanti a lui. Ippolito tuttavia
ne avverte la presenza, riconoscendone la divina
fragranza: motivo tuttavia frequente nella poesia
(cfr. Callimaco,
fr. 22 e Virgilio,
Eneide I, 403)
Ippolito, consapevole ora che la sua morte è la
punizione per il suo rifiuto di Afrodite, rimane
fermo in quel rifiuto: la punizione non ha
provocato nessun pentimento, ma una maledzione. Ed
ora la sua dea lo rinsalda nel rifiuto: essa non
può difenderlo, ma può e vuole vendicarlo. Il
conflitto umano è risolto con la morte; il
conflitto fra gli dei nell’Olimpo continua
irrisolubile.
Artemide promette ad Ippolito la sua ricompensa:
un culto a Trezene. In effetti Euripide dà una
profezia di un culto del 5° secolo (che si legge
anche in Pausania): spesso infatti si trattava di
spiegare un culto in modo che il pubblico
ateniese avvertisse la continuità del passato
mitico con il presente.
Egeo era in verità morto da tempo: probabilmente
si allude al fatto che Egeo era già vecchio
quando divenne nota la sua paternità di Tèseo.
La legge attica sembra abbia fatto differenza fra
tre specie di omicidi: assassinio volontario,
omicidio giustificabile (cioè in una legittima
difesa, contro un adùltero colto in flagrante),
assassinio involontario. Quest’ultima categoria
comprendeva non solo l’omicidio involontario (il
tipo più comune) ma anche l’omicidio commesso
perchè costretti (cfr. Lisia);
è abbastanza probabile che essa comprendesse
anche l’omicidio volontario commesso nell’erronea
opinione che esso fosse giustificabile.
La morte contamina e perciò il morto ed il
moribondo devono star lontano dai luoghi sacri;
anche l’uomo che ha avuto contatto con la morte
è evitato finchè non sia purificato. A maggior
ragione agli dei non è consentito assistere al
trapasso di un uomo. L’allontanamento di
Artemide ha tuttavia anche una sua ragione nell’economia
della tragedia e soddisfa alle esigenze poetiche,
rendendo ancora più chiara una caratteristica
apparsa evidente in tutta la scena. La dea ama il
giovane ed ha pietà di lui, ma non può piangere,
non può rimanere accanto a lui mentre muore,
mostrando così una riservatezza ed un distacco
propri dell’austerità e della sua divina
essenza.
Secondo il diritto attico, prima di morire, la
vittima poteva assolvere l’uccisore dalle
conseguenze dell’omicidio.
Trezene ed Atene, le due città su cui regna
Tèseo e partecipi della tragica vicenda, ambedue
alluse con il cognome delle divinità lì
particolarmente onorate: Artemide ed Atena.
Tèseo rientra nel palazzo reale, seguito dai
servi che portano il cadavere di Ippolito.
La Fedra di Euripide
Fedra è consumata fino allo spasimo
dai turbamenti della passione; incapace di dominare il suo sentimento,
ella è fortemente condizionata dalle convenzioni sociali: più che la
percezione di ciò che di illecito la sua passione contiene, sono il suo
buon nome e l’opinione i principali moventi della disperazione che la
condurrà al suicidio.
Si preoccupa di non essere giudicata
male neppure dopo la morte, e per questo ordisce il diabolico piano volto
a giustificare il proprio gesto. La motivazione apparente del suicidio è
di notevole sottigliezza psicologica: si presenterà al marito come
sfortunata tutrice di un pudore violentemente offeso dal depravato
giovane, ed il suo cadavere ne sarà prova inconfutabile.
Giungiamo così ad una questione
irrisolta: se cioè nell’Ippolito debba o no vedersi una confutazione della
dottrina socratica, che istituiva un nesso di conseguenziale necessità fra
la coscienza di ciò che è bene e la sua attuazione.
Per Fedra, in realtà, l’amore per
Ippolito è una malattia e una follia, un dato di fatto che le appare ormai
come ineliminabile; ella è convinta che non può sperare di distruggere la
passione che ha invaso il suo animo, o meglio, lo può fare solo
distruggendo se stessa.
Perciò, quando la moglie di Teseo
parla alle donne di Trezene, il proposito di suicidarsi è ormai chiaro
alla sua mente: ella dichiara nel v. 419 che il desiderio di non
disonorare il marito e i suoi figli la "uccide". Senonchè, quando la
tragedia è arrivata a metà del suo svolgimento, Fedra si toglie
effettivamente la vita. Ella dunque mette in atto quel proposito che ella
stessa presenta come il migliore di tutti, data la situazione.
L’antisocratismo che molti studiosi
hanno visto sembra dunque che non sussista: Fedra conosce il suo bene e lo
mette in atto, e le ragioni che ella enuncia come capaci di impedire la
realizzazione di ciò che uno giudica essere il meglio per se stesso in
realtà si rivelano non determinanti per il comportamento del personaggio
nel corso della tragedia.
In realtà il confronto con Socrate si
realizza ad un livello più profondo, che non sul piano del puro confronto
di opinioni. E’ vero che Fedra esegue quello che è per lei il proposito
migliore, ma questo coincide con la distruzione di se stessa. L’ottimismo
che sta alla base della concezione socratica della conoscenza come
sufficiente a garantire agli uomini la felicità è quindi scalzato alle
fondamenta.
L’antisocratismo dell’Ippolito può in
verità essere considerato rappresentativo dell’inconciliabilità che non
poteva non risultare da un confronto della filosofia socratica con una
concezione tragica (o anche, semplicemente, più realistica) della vita.
D’altro canto circa tale questione
sono state formulate numerose tesi, come quella del Dodds: " Ma un ripudio
cosciente della teoria socratica è stato riconosciuto, secondo me con
ragione, nelle famose parole che egli pose in bocca a Fedra tre anni più
tardi. La cattiva condotta, dice Fedra, non dipende da difetto di intuito
"perchè molte persone hanno un buon intendimento". Sappiamo e
riconosciamo il nostro bene, ma non ci comportiamo secondo quel che
sappiamo: o ce lo impedisce una specie di inerzia, oppure "qualche
altro piacere" ci distrae dal nostro proposito. Queste parole suonano
come una presa di posizione nella controversia, perché non sono richieste,
né suggerite dall’azione drammatica.
E non sono passi isolati: l’impotenza
morale della ragione è affermata più di una volta nei frammenti di
tragedie perdute. Ma a giudicare da quelle conservate, Euripide, nelle sue
ultime opere, si preoccupa non tanto dell’impotenza della ragione umana,
quanto del dubbio più vasto, se sia possibile discernerne un qualche fine
razionale nell’ordinamento della vita umana e nel governo del mondo.
Tutta la prima parte dell’ Ippolito è
dramma dell’onore di Fedra; la moglie di Teseo è atrocemente divisa tra la
passione amorosa infusale da Afrodite e la cura della sua "eukleia".
Già la dea, nel prologo, chiarisce i
termini della tensione che porterà Fedra al suicidio: la passione
sconvolgente, l’angoscia di lei che tenta di soffocarla nel silenzio ("e
l’infelice, piangendo e straziata sotto gli stimoli dell’amore, si consuma
in silenzio: nessuno di quelli di casa sa di che male ella soffre",
Hipp. 38 ss.), la morte per salvare l’onore, "Fedra perirà onorata, ma
pure perirà" (vv.47 s.).
Ma il tema della lotta disperata per
la salvezza dell’onore domina il lungo racconto di Fedra, "cerchiamo di
trovare una via onorevole per uscire dalla condizione in cui mi trovo"
(v.331): ella si sente oscuramente in colpa, ma lotta per salvare la sua
reputazione.
Non per amore del marito Fedra
rifugge dall’adulterio, poiché ella ama il figliastro, né per rispetto dei
sentimenti di quello, o dei familiari. L’opinione della gente la
condiziona totalmente, e solo per rispetto della sua "eukleia" ella
contrasta disperatamente la passione, e decide finalmente di affrontare la
morte.
La fama, buona o cattiva, di una
persona ricade anche sui suoi familiari, e , se è cattiva, comporta una
riduzione del loro status sociale. Intanto la Nutrice mette in atto il suo
piano, cercando di fare da intermediario tra Fedra ed Ippolito. Fedra
avverte le voci contrastanti, ed ha la netta percezione che il suo atroce
segreto è venuto alla luce, e che per lei tutto è finito.
E’ la legge dell’etica aristocratica,
valida per Fedra come lo era stata per Aiace: l’uomo vive per ciò che di
lui pensano gli altri della sua casta, che condividono i valori negativi e
positivi che la costituiscono e la individuano.
Il suicidio diviene ora una
necessità; ma non era sufficiente, come lo era per Aiace, a reintegrare
l’onore.
La passione amorosa si tramuta in
odio verso l’uomo che non ha compassione per il suo tormento e con
l’eccessività del suo atteggiamento la ferisce nel più intimo: per
riscattarsi ella è costretta a cercare di colpire a sua volta il suo
accusatore.
Pur non rivelando i particolari del
suo piano, ella riconferma in tutta chiarezza le ragioni della sua estrema
decisione: "io, riflettendo su ogni cosa, trovo un unico rimedio alla
mia disgrazia, tanto da assicurare ai miei figli una vita onorata, e che
io mi risollevi un po in confronto alla caduta che ho compiuto. Certo io
non produrrò disonore alla mia casa di Creta , e non mi presenterò a Teseo
disonorata" (vv.715-21).
Il Coro commenta tristemente che la
regina, "sommersa dalla atroce sventura, appendendosi alle travi della
sua stanza nuziale, adattando un laccio al suo bianco collo, vergognandosi
del suo odioso destino, preferirà salvare la sua buona reputazione,
liberandosi dall’amore che le strazia l’animo" (vv.769-75).
Col suo estremo sacrificio ottiene di
non disonorare la sua casa e la sua famiglia, sfuggendo al suo odioso
destino, scegliendo una fama gloriosa.
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La Fedra di Ovidio
Ovidio Publio Nasone, poeta latino
dell’età augustea, dedica alle eroine innamorate una delle sue opere
maggiori, Le Heroides, risalente al periodo tra il 4 e il 5 d.C..
Composte in forma epistolare, tutte
le Lettere, che Ovidio attribuisce alle singole eroine (figure della
tradizione epico-tragica e della poesia ellenistica), e che sono destinate
ai loro amanti riluttanti (come Ippolito), o lontani (come Ulisse), si
configurano come lunghi monologhi in cui trova espressione la sofferenza
della donna che lamenta la propria triste condizione, conseguente al
distacco dall’amato.
Anche se altri autori si erano
cimentati in simili esperienze letterarie, le Heroides ovidiane si
sviluppano in modo del tutto nuovo: infatti, mentre quei poeti collegavano
le loro opere, più o meno direttamente, con la propria persona o con
l’ambiente storico nel quale vivevano ed operavano, Ovidio trasferisce le
sue epistole poetiche in un mondo irreale, quello del mito, ormai
definitivamente staccato da quello della maggiore poesia augustea.
Caratteristica peculiare dell’opera è
l’assenza di altre voci, al di fuori di quelle delle eroine, che si
facciano garanti della realtà degli avvenimenti narrati. Infatti, quando è
possibile il confronto con i testi modello, si può verificare il carattere
strumentale di alcune affermazioni dei personaggi di Ovidio.
Il lettore, quindi, conosce delle
protagoniste e delle loro storie solo quanto loro stesse raccontano. Un
altro tratto caratteristico delle Epistulae è la mancanza di omogeneità:
infatti, manca una voce unificante ed il susseguirsi di quelle dei
personaggi che esprimono le loro verità parziali ed individuali dà luogo
alla possibilità di varie ed opposte interpretazioni dei fatti.
Tuttavia non bisogna pensare che
l’Autore scompaia del tutto, anzi esso trova un suo spazio caricando di
una sottile ironia, destinata al lettore, le parole delle eroine
inconsapevoli.
Tra le Epistolae merita particolare
attenzione quella di Fedra ad Ippolito. I personaggi sono ripresi
dall’"Ippolito" di Euripide, tragedia per eccellenza dell’amore infelice.
Il centro di questa tragedia è
costituito dall’incestuosa passione di Fedra per il figliastro Ippolito;
la sua rivelazione, fatta dalla nutrice ad insaputa della donna, scatena
la collera del giovane. Egli, infatti, alla dea Afrodite preferisce la
caccia e la dea Artemide, assumendo nei confronti dell’amore un
atteggiamento di disprezzo. E’ proprio il rifiuto di Ippolito e la
vergogna per la rilevazione della sua passione, a spingere Fedra al
suicidio.
In Ovidio ritroviamo delle
sostanziali differenze rispetto ad Euripide: la prima consiste nel fatto
che è Fedra stessa, proprio attraverso la lettera, a dichiarare il suo
amore ad Ippolito; la seconda nel modo in cui la donna vede un’eventuale
concretizzazione della propria passione: per lei non si verificherebbe un
incesto, ma un "semplice" adulterio. L’incesto si configura come atto
molto grave nella cultura antica: lo scarto tra la società umana e non, è
rappresentato dall’esogamia.
Alle tematiche connesse all’incesto
si ricollega il mito di Fedra; ai versi 129-134 l’eroina pronuncia queste
parole per convincere Ippolito della liceità del loro rapporto amoroso: "Né
poiché la matrigna vorrà accoppiarsi al figliastro / nomi vani
atterriranno il tuo animo. / Codesta pietà è antica e morirà in un evo
futuro, / esistette nel tempo in cui Saturno reggeva regni selvaggi. /
Giove stabilì che fosse pio tutto ciò che giova, / e rese del tutto lecito
che la sorella si accoppiasse al fratello.. ". Con queste parole lo
persuade ad abbandonarsi a ciò che è contro la Pietas e contro il Fas:
Giove (Iuppiter) loda come pio tutto ciò che giova (iuvat).
La Fedra di Euripide non può
esprimere la propria passione anzi ne è prigioniera nel tentativo di
conformarsi a valori morali che non ammettono concessioni. Quella delle
Heroides, invece, vive in un ambiente mondano spregiudicato nel quale è
possibile abbandonarsi ad atteggiamenti meno inflessibili ed esaltare
un’etica moderna e tollerante.
La differenza tra le due Fedre si
ricollega ad un diverso atteggiamento dei rispettivi Auctores nei
confronti dell’universo femminile.
Euripide è condizionato da una forte
misoginia che si riscontra nel comportamento della stessa eroina: essa
nutre per il figliastro un groviglio di sentimenti che affascina e
sgomenta e che è malvisto nel contesto sociale in cui la donna vive.
La Fedra euripidea non riesce,
respinta ed insultata, a sopravvivere alla vergogna e si uccide; tuttavia
in punto di morte tenta un’ultima volta di riscattarsi agli occhi della
sua gente facendo ricadere la colpa dell’insana passione su Ippolito.
La Fedra di Ovidio, invece, convive
più serenamente con i propri sentimenti manifestandoli senza pudore ma
anzi cercando di convincere l’amato a condividerli.
La Fedra di Ovidio non è "colpevole"
per il suo "illecito" sentimento, giacché è lei stessa vittima
inconsapevole di una spietata "vendetta trasversale"di Afrodite: in questo
modo la dea ha voluto punire Ippolito, reo di averla trascurata per
Artemide, e di averla definita "la più
spregevole tra le dee".
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La Fedra di Seneca
Un posto particolarmente importante
tra le opere di Seneca rivestono le nove tragedie "cothurnate", cioè di
argomento mitologico greco: Hercules Furens, Troades, Phoenissae, Medea,
Phaedra, Oedipus, Agamemnon, Thyestes, Hercules Oetus.
Di esse abbiamo scarse notizie;
tuttavia sono le uniche tragedie latine ad esserci pervenute in forma non
frammentaria e hanno rappresentato non solo la ripresa del teatro latino
tragico arcaico, ma anche il punto di arrivo, ai limiti
dell'espressionismo verbale, della "tragedia retorica".
A causa della scarsità di notizie
pervenuteci le tragedie senecane presentano alcuni interessanti problemi
interpretativi, a cominciare dalla cronologia della composizione, legata
ad un quesito di base, cioè se sono state composte per fini puramente
artistici o con obiettivi politici, e ancora, se fossero destinate alla
rappresentazione o alla lettura nelle sale di recitazione (recitatio).
La critica propende per la seconda
ipotesi perchè l'azione drammatica è sostituita dalla declamazione dei
sentimenti (fine e profonda ne è la psicologia) e per la sottigliezza del
dialogo sofistico.
Della tragedia latina arcaica
riscontriamo in quelle di Seneca il gusto del pathos, l'esasperazione
della tensione drammatica ottenuta mediante l'introduzione di lunghe
digressioni, che alterano i tempi dello sviluppo, inserendosi nella
tendenza ad isolare singole scene come quadri autonomi; anche se alcune
caratteristiche tecniche contrastano con la consuetudine del teatro antico
in quanto alcuni passaggi di scena sembrano impossibili nel suddetto
teatro. In ogni caso, esse appartengono a pieno titolo al genere tragico
in quanto ne hanno la struttura tradizionale (prologo, episodi, cori,
trimetro giambico).
E' da sottolineare, comunque, che il
tragico dello Spagnolo non rispetta lo spirito dei modelli greci: è un
tragico, il suo, ideologico piuttosto che tematico, la realtà esistenziale
è assolutamente negativa e tutti i drammi hanno una conclusione luttuosa.
Le tinte fosche sono accentuate ed
anche i particolari più truci; inoltre tutte le tragedie sono sempre
alimentate dalla filosofia e dalla dottrina stoica dell'autore che, invece
di indurlo alla speranza, o almeno alla certezza che una ragione
provvidenziale domini il cosmo, riversa la sua visione in un pessimismo
totale.
Le vicende delle opere si configurano
come conflitti di forze contrastanti , soprattutto all'interno dell'animo,
nell'opposizione tra "mens bona" e "furor", la ragione e la passione.
Al centro troviamo la
rappresentazione dello scatenarsi delle passioni sfrenate, non dominate
dalla ragione. Della ragione sono quasi sempre portavoce i personaggi
secondari: nutrici, servi, destinati comunque a rimanere inascoltati.
Del "furor" sono, invece, spesso
dominati i protagonisti: Medea, Atreo, Fedra ...
Il "lògos" si rivela incapace di
frenare le passioni e di arginare, quindi, il male.
Nascono, perciò, scenari d'orrore e
di forze maligne, in una lotta tra bene e male che, oltre ad avere
dimensione individuale all'interno della psiche umana, assume un aspetto
più universale.
Le tragedie si configurano anche
grazie ad un carattere spiccatamente letterario, oltre che per quello
moralistico e filosofico, grazie alle reminescenze di tanti autori e allo
stile fortemente influenzato dalla retorica asiana, a cui dobbiamo la
forma prettamente gonfia, barocca ed il gusto per il macabro.
Infine all'autore non interessa tanto
lo sviluppo dell'azione, di cui dà scontata la conoscenza, ma il dibattere
su una serie di argomenti morali e politici, quali la colpa, il delitto,
il "regnum", la "fides". Prevalgono perciò gli scopi argomentativi,
perseguiti con tutti gli strumenti della retorica. I personaggi sono
portatori di determinati temi e tutto ciò fa derivare un tono declamatorio
che generalmente infastidisce il lettore moderno.
Tuttavia nelle tragedie più riuscite
l'approfondimento psicologico è potente e raggiunge momenti di alta
commozione: esempio lampante è sicuramente la "Phaedra" .
La materia della Fedra di Seneca è
attinta da Euripide, probabilmente sia dall'"Ippolito incoronato" sia
dalla più audace prima edizione dello stesso dramma : l'"Ippolito velato",
che dovette suscitare scandalo tra gli spettatori.
Per Seneca però non ci fu problema in
quanto la Roma neroniana era assai più spregiudicata e "moderna"
dell'Atene periclea, e l'incesto era tra i temi entrati nella cronaca non
meno che nella letteratura.
Amore e morte è il binomio tragico
già racchiuso nel mito che Seneca elabora e strizza fino a trarne gli
effetti più spasmodici ed esasperati, da romanticismo barocco, ed il
barocco è nel gusto del tempo, nel fondo della vita e dello spirito oltre
che nella retorica di moda.
Dapprima la protagonista coglie
l'attimo di furore omicida di Ippolito con masochismo sublime e, in
seguito, dopo la morte del ragazzo, la sua disperazione è tale da sperare
di congiungere il suo destino a quello di lui attraverso la morte, di
accompagnarlo oltre essa.
Fedra così viene ad essere la prima
creatura della poesia antica che porti, o si illuda di portare,
romanticamente il suo amore, il suo peccato, al di là della vita.
I motivi di confronto tra il modello
euripideo e la la tragedia senecana sono individuati in base a tre
parametri basilari.
Il primo sicuramente riguarda il
contrasto passione/castità che diviene in Seneca contrasto tra "furor" e "mens
bona". In Euripide il dualismo è costituito dallo scontro tra i due
personaggi e tra le due divinità che rappresentano queste forze: Afrodite,
che apre la tragedia, e Artemide, che la chiude come "dea ex machina".
In Seneca la lotta si trasferisce
direttamente all'interno della coscienza della donna e, nello stesso
tempo, si assolutizza in quella tra "furor" e "mens bona", tra
asservimento alle passioni, di cui l'amore risulta l'esempio più tipico e
devastante, e libertà da esse, filone conduttore della morale stoica.
In Euripide, anche nella seconda
edizione, Fedra non è più la primitiva ed istintiva cretese che conosce
solo le leggi della passione, ma una donna che lotta contro il suo
desiderio colpevole, contro il demone che l'agita, anche se è comunque
destinata a perire e a distruggere tutta la famiglia.
In Seneca, invece, anche se il
personaggio è sconfitto, si afferma la possibilità dell’uomo di lottare
con la passione e dominarla, in quanto l'amore non è un'imposizione
dell'onnipotente divinità, ma puro istinto che l'uomo può controllare con
la fermezza dello spirito.
L'altro parametro preso in analisi è
quello che evidenzia la trasformazione di Ippolito da devoto alla dea
Artemide a saggio stoico per Seneca.
Infatti nella versione euripidea il
giovane ci è presentato come un casto seguce della dea, amante solo delle
selve e della caccia, in Seneca egli diventa una sorta di filosofo sulla
quale bocca l'autore pone le massime tipiche della saggezza stoica;
quindi, lo stesso amore per la vita silvestre diviene distacco dalle
passioni, disprezzo degli onori e del potere.
Il terzo ed ultimo parametro riguarda
un elemento di attualità politica, cioè l ' accusa al potere ritenuto
autoritario e privo di "lume".
Esso è un ulteriore elemento a favore
della originalità del testo senecano ed è sicuramente legato al rapporto
che lo scrittore aveva col principato di Nerone.
Fedra, infatti, non è solo la donna
in preda alla insana passione, ma anche la regina abituata ad imporre il
proprio volere su quello degli altri e non a sottostarsi ad esso.
Comunque tutte le differenze e gli
elementi originali dell'opera di Seneca rispetto al modello greco non
fanno altro che ricondurci alle differenze culturali e politiche delle due
epoche, oltre che riflettere la matrice stoica dell'operato dello
scrittore latino.
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La Fedra di Racine
Figlia del re degli Inferi Minosse e
di sua moglie Pasifae, che doveva innamorarsi del toro inviato da
Poseidone e dare alla luce il minotauro, discendente del Sole per parte di
madre, Fedra fu data in sposa a Teseo, eroe attico. A Trezene o ad Atene,
dove lui sarebbe venuto a celebrare i misteri, Fedra incontra Ippolito,
figlio di Teseo e di un'amazzone chiamata a seconda delle versioni
Melanippe, Antiope o Ippolita, e si innamora di lui. La storia di Fedra
comincia in realtà con questa passione, dapprima taciuta, poi confessata
sia alla nutrice sia allo stesso Ippolito durante l'assenza di Teseo, il
cui ritorno provoca la calunnia di Fedra, il suo suicidio e la morte di
Ippolito, imprudentemente maledetto da suo padre, in un combattimento con
un mostro marino inviato da Poseidone.
Presentiamo qui di seguito la sintesi
della tragedia raciniana, di cui diamo un riassunto atto per atto,
inserendo successivamente la prefazione scritta dallo stesso Racine:
ATTO I: La tragedia si apre con la
decisione di Ippolito di allontanarsi da Aricia, la fanciulla amata, per
andare alla ricerca di Teseo. Compare sulla scena Fedra che è consunta da
un male misterioso. Enone, sua nutrice e confidente, riesce infine a
strapparle il segreto: Fedra ama il figliastro e pensa con sollievo alla
morte. L’atto si chiude con l’annuncio della morte di Teseo e da ciò Fedra
è indotta ad un barlume di speranza.
ATTO II: Ippolito rivela il suo amore ad Aricia,
colei che, per decreto paterno, non dovrebbe amare. Il dialogo tra i due
viene interrotto dall’arrivo di Fedra. Durante l’incontro la regina inizia
col raccomandargli d’aver cura di suo figlio, ma la sua passione non tarda
a tradirsi con parole allusive finché esplode in una confessione
disperata. Davanti a un Ippolito incredulo e turbato Fedra afferra la
spada del giovane e tenta di uccidersi, ma sopraggiunge la nutrice che la
porta via mentre ha ancora in mano la spada. Intanto corre voce che Teseo
sia ancora vivo.
ATTO III: Enone esorta Fedra a partire, ma la regina
spera ancora di poter conquistare il cuore di Ippolito offrendogli di
regnare su Atene. Manda così Enone a convincere il figliastro, ma poco
dopo questa ritorna con l’annuncio dell’arrivo di Teseo. Fedra sgomenta
pensa solo alla sua morte, rifiutandosi di dimenticare Ippolito nonostante
le insistenze della nutrice. Dopo l’arrivo di Teseo con il figlio il
dubbio si insinua nella mente del re creduto morto, in seguito alle
ambigue parole della regina semi incosciente e di Ippolito. Nell’ultima
scena Ippolito in un dialogo con Teramene, sua confidente, si chiede
quello che veramente nasconda la reticenza della matrigna.
ATTO IV: Enone accusa Ippolito aggiungendo alla
calunnia indizi quali la spada per confermare la veridicità del suo
discorso e convincere così Teseo. Il re impreca contro il figlio invocando
Nettuno perché lo punisca. Ippolito tenta inutilmente di difendersi
confessando il suo amore per Aricia, senza accusare Fedra, ma il padre non
si lascia convincere. Fedra supplica il marito di risparmiare Ippolito,
pensando anche di confessare il suo folle amore, ma, cieca di gelosia dopo
aver appreso di avere una rivale, non dice nulla in sua difesa lasciando
così allontanare Teseo iracondo. Dapprima sola e in seguito con Enone,
Fedra si abbandona al suo furore, ma sopraggiunto il rimorso scaccia
malamente la nutrice.
ATTO V: Aricia rimprovera ad Ippolito
il suo silenzio, ma egli le spiega le ragioni, sperando che a rendergli
giustizia sarebbe stata l’ignominia che Fedra avrebbe in seguito subito. A
Ippolito non resta nient’altro che fuggire e invita Aricia a seguirlo per
poterla sposare. Teseo incontra poi Aricia e dalle sue parole allusive
viene spinto ad interrogare nuovamente Enone. Appresa la morte della
nutrice e il delirio in cui è caduta Fedra, capisce il suo errore e prega
Nettuno di salvare il figlio, ma sopraggiunge Teramene ad annunciare la
morte di Ippolito dopo lo scontro con un mostro marino. Alla fine del
racconto di Teramene appare Fedra che giustifica Ippolito confessando la
sua passione. Per effetto di un veleno la regina muore di fronte a Teseo
che dopo aver invocato l’oblio su tutta la vicenda decide di rendere onore
al figlio e di accogliere Aricia come figlia.
LA PREFAZIONE DI RACINE
"Ecco un'altra tragedia il cui
soggetto è tratto da Euripide". Nello stendere questa tragedia l'autore
francese apporta però alcune modifiche rispetto al tragediografo greco in
particolare nel delineare i protagonisti:
Fedra, per Racine non è né del tutto
colpevole né del tutto innocente: "E' vincolata dal proprio destino e
dalla collera degli dei ad una passione illegittima di cui lei per prima
ha orrore". Essa compie ogni sforzo per sconfiggerla, preferendo di gran
lunga la morte, ma alla fine è proprio l'eroina tragica ad essere
sconfitta confessando il suo tremendo amore; ed è la voce della morte di
Teseo, basata sulla storia di un viaggio favoloso del re di Atene come la
si trova in Plutarco, che porta Fedra a fare la sua confessione che non
avrebbe mai osato fare finchè avesse creduto vivo il marito. Proprio per
questa parziale innocenza Racine ha tentato di renderla meno odiosa di
quanto non fosse nell'originale greco, affidando l'accusa contro Ippolito
alla nutrice: a questa infatti si addiceva meglio una simile bassezza
piuttosto che ad una principessa capace poi di esprimere sentimenti tanto
nobili e virtuosi.
Ippolito, mentre in Euripide e Seneca
è accusato di aver realmente violentato la matrigna, nella Phèdre
viene accusato solo di averne avuto l'intenzione. Inoltre Racine gli ha
attribuito "...qualche punto debole che lo avrebbe reso un poco colpevole
nei confronti del padre senza peraltro sminuire tutta la grandezza d'animo
con cui risparmia l'onore di Fedra e si lascia opprimere per non
accusarla", chiamando debolezza "...la passione che suo malgrado prova per
Aricia, figlia e sorella dei mortali nemici di suo padre".
Il mito di Fedra ha sempre avuto un
ottimo successo di pubblico, sia nell'antichità che nel XVII secolo,
perchè, a parere di Racine, "...essa possiede tutte la qualità che
Aristotele esige dall'eroe tragico e che sono adatte a suscitare la
compassione e il terrore".
Inoltre tra tutte le tragedie da lui scritte, egli afferma con sicurezza
che "...in nessun'altra la virtù è messa maggiormente in luce. Ogni più
piccola colpa è severamente punita. I peccati d'amore si confondono con i
veri peccati. Le passioni vengono descritte per mostrare tutto il
disordine di cui sono causa". Il fine ultimo di tutti i tragediografi è
quindi mostrare questa virtù, facendo diventare il teatro una scuola in
cui la si insegna al pari delle scuole filosofiche; ed è questo che in
ultima istanza si augura Racine.
Perché Fedra?
Al pari di Edipo la storia di Fedra
si configura come un archetipo che percorre tutta la letteratura
universale. La storia della seduttrice incestuosa o meno che si fa
calunniatrice si ritrova in India, in Cina, in Egitto e fa da trama ad
altre leggende della tradizione occidentale.
Phèdre inoltre presenta una tipica
situazione edipica: ritorna infatti, anche se in forma più mediata, il
tema dell’incesto. "Il mito di Phèdre e Hippolyte mette in scena non
tanto Edipo quanto Giocasta. Il desiderio incestuoso perfettamente
manifesto si sposta nella figura femminile… L’uomo deve solo subire e
accettare la volontà dell’eroina… La presenza di Hippolyte risveglierà
nella matrigna l’amante, facendole dimenticare il suo ruolo di madre."
(Alberto Capatti, Introduzione a Fedra, Mondadori).
Ma un altro elemento tanto più
interessante quanto meno esplicito collega il dramma di Fedra a quello di
Edipo, quello della riflessione sul linguaggio; il linguaggio che maschera
e tradisce le realtà interiori, dà peso alle apparenze, arreca morte
rivelando quel che deve essere taciuto. Edipo non vuole ascoltare le
parole di Tiresia, Fedra cerca di non pronunciare le parole fatali, ma il
dramma si consuma proprio attorno a due momenti linguistici: la
confessione e l’imprecazione. Alla parola non si può porre rimedio: il
passaggio dal silenzio alla parola genera l’irrimediabile.
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La Fedra di D’Annunzio
La Fedra di D’Annunzio è una figura
artisticamente viva con atteggiamenti tra il folle e demoniaco.
Ella, per assecondare troppo la sua
passione trasgredisce le leggi morali e sociali che regolano la convivenza
umana. È un essere primitivo, che non si integra nella normale vita, le
cui manifestazioni anzi suscitano in lei delirio e agitazione.
Nella tragedia dannunziana non spicca
molto la sacralità tipica del dramma greco, ma piuttosto è posto l’accento
su quanto d’umano suscita dolore e sofferenza.
Ella si inasprisce alla notizia che
Teseo è vivo, in quanto vede distrutta la propria gioia malvagia, mentre
si inebria, rivivendo la gloriosa ultima ora di Capaneo, folgorato da
giove su le mura di Tebe.
Fedra esalta, quindi il sacrificio
eroico che fu coronato dal sacrificio d’amore di lui moglie Evadne mentre
mostra odio per Teseo, che rappresenta l’ostacolo costante al suo sogno
vertiginoso di piacere, al suo amore non corrisposto per il figliastro
Ippolito.
Sentimenti di odio e di ammirazione
eroica nutrono l’anima complessa di Fedra. Ella è consapevole dei suoi
impulsi incoercibili al piacere, al peccato, alla trasgressione e si
vergogna di questa sua colpa.
E proprio dal conflitto dei suoi
desideri inappagati, dei sentimenti peccaminosi nasce la sua malvagità, la
sua empietà che la porta ad esaltare la ribellione di Capaneo a Zeus e il
sacrificio amoroso di Evadne.
Il personaggio mitologico, trattato
da Euripide, diventa in D’Annunzio un tipo dannunziano.
In Euripide spicca la donna che si
strugge, langue e tutt’al più si esagita. In D’Annunzio Fedra è ansia
furiosa, folle, abbandonata alle suggestioni del senso e dell’istinto
sfrenato, che vede nell’erotismo e nella sensualità il mezzo per
manifestare la vita profonda e segreta dell’io che sfugge al controllo
dell’intelletto.
E’ insomma un misto di voluttà e
istinto.
Ella è quindi un’interprete
genuinamente dannunziana dell’ideale orgiastico ed amorale del poeta, di
un ideale immorale di una vita fondata sull’accettazione di ogni invito
dei sensi, e sull’egocentrismo assoluto, sul rifiuto della razionalità, in
nome di una conoscenza del mondo da raggiungere attraverso la suggestione
immediata dei sensi, sul trionfo della vitalità istintiva.
Ed in nome di questo abbandono
all’ebbrezza dei sensi e ai suggerimenti dell’istinto, l’erotismo di Fedra
diventa angoscia, agitazione irrefrenabile, empietà furente contro
Afrodite, abbattimento alternato, orgoglio passeggero, ma vilipeso al
pensiero che tra qualche ora Ariandne la schiava tebana sarà tra le
braccia di Ippolito.
L’atteggiamento della Fedra euripidea
è, potremmo dire, quasi romantico, di un dolore realistico e struggente,
per un bene che non l’appartiene, quello della Fedra di D’Annunzio è
tipicamente decadente, irrazionale, naturalistico, istintivo e perciò di
una vogliosità incontrollata che assale Ippolito con tutti i mezzi a sua
disposizione, dalla sfrontatezza invereconda e immorale alla lusinga di
una promessa di potenza.
Al rifiuto del giovane, ella passa
alle offese e alle minacce, all’esasperante incalzare e alla folle presa.
Ippolito fugge e Fedra
momentaneamente s’abbatte.
Ma ella, demone terribile s’inalbera
presto nella sua fierezza amazzonica per l’ultima opera di ribellione alla
ragione, e di esaltazione dell’istinto, ricorrendo, in maniera spietata e
cinica, alla calunnia.
Tuttavia non bisogna considerare
questo gesto come fine a se stesso, ma come gesto di franca rivolta al
volere degli dei e del Fato, come Capaneo di cui ella è stata ammiratrice
ed esaltatrice.
E questo prometeismo suggella la sua
ribellione alle leggi della ragione per cercare, ma senza risultati, di
far prevalere l’istinto sulla ragione, anche contro il volere degli dei.
Fedra in D’Annunzio è, in
conclusione, anima viva, con qualche mistura di follie nietzschiane;
appartiene a quella categoria di caratteri demonici che, troppo asserviti
dalla loro passione, si mettono al disopra delle leggi e della morale
nella convivenza degli uomini; nature primitive in cui è convulsione e
spasimo ogni normale manifestazione di vita. Fedra uccise Ippolito non per
vendicarsi della repulsa, ma per vincere Afrodite, per domare in sé
l’incestuoso amore per il figliastro. E potrà dunque infine celebrare il
proprio nome come "il nome di chi sovverte antiche leggi per porre una sua
legge arcana", e chiamare su di sé a bella posta l’ira di Artemide,
ingiuriandola come casta ed inutile protettrice dell’ucciso Ippolito,
mentre anche nella morte è lei la vittoriosa, lei che, pura ormai di
colpa, si ricongiunge all’amato.
Ciclope -
382/404
ODISSEO:
Appena in questa rocciosa spelonca fummo entrati, accese dapprima il
fuoco, d’eccelsa quercia tronchi gettando sull’ampio focolare, carico
all’incirca trasportabile di tre carri.
Dopo
stese a terra un letto di frasche di pino vicino alla fiamma del fuoco.
E avendo
munto le giovenche, un cràtere riempì di circa dieci anfore, avendovi
versato bianco latte.
E una
tazza di edera si pose accanto di tre cubiti di larghezza, ma la (sua)
profondità sembrava di quattro (cubiti), e (si pose accanto) spiedi,
(fatti di) ramoscelli di biancospino, all’estremità arroventati con il
fuoco, e nel rimanente lisciati con la falce, e ciclopiche conche per le
mascelle delle scuri, e un bronzeo lebète pose a bollire sul fuoco.
Poi,
quando tutto fu pronto per l’empio cuoco dell’Ade, afferrati due
uomini dei miei compagni, (li) scannava con un certo ordine, l’uno
(facendone colare il sangue) nella bronzea cavità del lebète, e l’altro
poi, preso(lo) per il tendine del calcagno, sbattendo(lo) sull’aspra
sporgenza d’una rocciosa parete, (ne) fece schizzar le cervella, e
strappate(ne) con avido coltello le carni (le) metteva ad arrostire sul
fuoco, gli arti invece gettò a lessare nel lebète.
Ciclope -
405/424
Ed io
sciagurato, lacrime dagli occhi versando, stavo accanto al Ciclope e (lo)
servivo; gli altri invece come uccelli negli anfratti dell’antro
rimpiattati stavano, e sangue non v’era (più) nel (loro) corpo.
Ma
quando (il Ciclope), rimpinzatosi della carne dei miei compagni, si stese
supino, dalla gola emettendo un fiato greve, venne a me un che di divino;
colmata una coppa di questo Marone a lui (la) offro da bere, dicendo
queste cose: "O Ciclope (figlio) del marino dio, vedi qui che divina
bevanda, refrigerio di Dioniso, dalle (sue) viti l’Ellade produce".
Ed egli
gonfio essendo del nefando cibo accettò e trincò il vino mandando(lo)
giù d’un sorso, e convenne alzando una mano: "O carissimo fra gli
ospiti, una buona bevanda dopo un buon pasto (mi) dai".
Ed io,
appena mi accorsi che egli ci pigliava gusto, (gliene) diedi un’altra
tazza, sapendo che il vino lo avrebbe abbattuto e presto (egli) avrebbe
pagato il fio.
E già
si dava alle canzoni; ed io mescendo una (tazza) dietro l’altra le
viscere (gli) riscaldavo con la bevanda.
Ciclope -
425/444
Canta
poi rozzamente tra i miei compagni che piangono, e l’antro rimbomba.
Ma io,
uscito (dall’antro) zitto zitto, voglio salvare, se vuoi, te e me.
Orsù,
dite(mi) se volete o non volete fuggire (questo) non socievole uomo ed
abitare le case di Bacco insieme con le ninfe Naiadi.
Il padre
tuo, infatti, (che è lì) dentro, queste cose approvò.
Ma
(troppo) debole in verità ed amante del bere, al bicchiere attaccato come
(un uccello) al vischio, è impacciato nelle ali; tu invece, infatti sei
giovane, salvati con me e ritrova il vecchio amico Dioniso, non
paragonabile al Ciclope.
CORO: O
carissimo, se davvero tale giorno potessimo vedere, essendo sfuggiti all’empia
testa del Ciclope. Perchè da gran (tempo) davvero... siamo soli. E lui
non possiamo divorar(lo) a nostra volta.
O: Odi
dunque ora la vendetta che ho (in mente) per (quel) bestione prepotente e
lo scampo dalla tua schiavitù.
C:
Parla, in quanto non sentiremmo con più gusto l’armonia d’una cetra
asiatica che il Ciclope morto.
Ciclope -
445/463
O: A
(far) baldoria (egli) vuole recarsi dai fratelli Ciclopi, reso allegro da
questa bevanda di Bacco.
C: Ho
capito; avendo(lo) colto solo fra i querceti lo vuoi scannare, o dalle
rupi buttar(lo) giù.
O: Nulla
di simile; ingannevole (è) il (mio) piano.
C: Come
allora? Da tempo in verità sappiamo che tu sei astuto.
O: Da
questa baldoria (voglio) allontanarlo, dicendo che ai Ciclopi non bisogna
dare questa bevanda, ma tenendo(la) per sè solo trascorrere soavemente la
vita.
Quando
poi dormirà vinto da Bacco, c’è in casa un ramo d’olivo che (io)
avendo appuntito all’estremità con questa spada, porrò sul fuoco; e
poi, quando ben arroventato lo vedrò, tolto(lo) ardente (lo) pianterò in
mezzo al ciglio del Ciclope, l’occhio (gli) distruggerò con il fuoco.
E come
quando un uomo connettendo la compagine d’una nave con due cinghie
spinge a guisa di remo il trapano, così farò girare il palo nell’orbita
lucente del Ciclope e (gli) seccherò la pupilla.
Ciclope -
464/482
C:
Evviva, evviva, gioisco, andiamo pazzi per le (tue) trovate.
O: E in
seguito avendo fatto salire e te e i compagni e il vecchio nel concavo
scafo della nave nera con doppi remi (vi) porterò via da questa terra.
C: E’
possibile allora che come nelle libagioni ad un dio anche io possa
mettermi accanto al palo acceca-occhi?
Di
questa uccisione infatti esser partecipe voglio.
O: E’
necessario anzi; grande infatti (è) il palo, che bisogna sollevare.
C:
Perchè solleverei anche il carico di cento carri, se l’occhio del
Ciclope che perirà malamente come un vespaio affumicheremo.
O: Fate
silenzio ora! L’inganno infatti ben conosci; e quando dò l’ordine,
ubbidite a chi l’ordì.
Io
infatti non mi porrò in salvo solo, lasciando i miei amici che sono
dentro.
Eppure
potrei fuggire, e sono uscito fuori dagli anfratti dell’antro; ma non
(è) giusto che mi ponga in salvo solo lasciando i miei amici, con i quali
venni qui.
Ciclope -
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ODISSEO:
Tacete, o fiere, per gli dei, avendo composto le articolazioni della
bocca; e non permetto che alcuno fiati, nè batta ciglio nè sputi,
affinchè non si desti quel malanno, finchè sia stato vinta dal fuoco la
luce dell’occhio del Ciclope.
CORO:
Tacciamo avendo ingoiato l’aria con le mascelle
O: Orsù
dunque, (bisogna) che vi diate da fare con il palo con le mani, essendo
andati dentro, in quanto (esso) è arroventato egregiamente.
C: Non
stabilirai tu quali (di noi è) necessario che per primi, avendo preso la
trave infuocata, brucino l’occhio del Ciclope, a che possiamo
partecipare alla sventura?
SEMICORO:
Noi siamo troppo lontani, stando davanti alle porte, per ficcare il fuoco
nell’occhio.
SEMICORO:
Noi invece adesso adesso siamo diventati zoppi.
SEMICORO:
Avete sofferto la stessa cosa appunto di me; nei piedi, infatti, stando
diritti ci siamo contratti, non so in che modo.
O:
Stando zitti vi siete contratti?
S: E
anche i nostri occhi son pieni di polvere o di cenere, non so come.
O: Gente
vile e per nulla alleata (son) questi.
C:
Poichè abbiamo pietà del (nostro) dorso e della spina dorsale e non ho
voglia di sputare i denti per le percosse, questa è vigliaccheria? Ma
conosco una formula magica di Orfeo proprio infallibile, sicchè il palo
entrando da se stesso nella testa (del Ciclope) bruci il monocolo figlio
della terra.
O: Da un
pezzo sapevo che tu sei tale per natura, ora però (lo) so meglio. Ma dei
miei amici (è) necessità che io mi serva. E se di mano nulla vali, ma
almeno suona la carica, affinchè il coraggio degli amici con i tuoi
incitamenti otteniamo.
o o o
C: Farò
ciò. Nel Cario arrischieremo. In grazia dei (nostri) incitamenti sia
affumicato dunque il Ciclope. Su, su! Valorosissimamente spingete,
affrettatevi. Bruciate il ciglio della fiera divora-ospiti. Affumichi,
bruci il pecoraio dell’Etna. Spingi, trapana! (Attento che) inferocito
dal dolore (il Ciclope) non ti faccia qualche guaio.
o o o
CICLOPE:
Ahimè! Siamo stati carbonizzati nella luce dell’occhio.
CORO:
Bello in verità questo peana! Càntamelo, o Ciclope.
CI:
Ahimè, ahimè! Come siamo stati straziati, come siamo rovinati. Ma in
nessun modo (avverrà) che fuggiate fuori da questo antro lieti (del
successo), gente da nulla; sull’ingresso infatti piantatomi di questa
grotta inserirò come sbarre le braccia.
C:
Perchè ululi, o Ciclope?
CI: Sono
morto!
C:
Sembri davvero brutto.
CI: E
oltre a ciò (son) proprio infelice.
C: Sei
caduto ubriaco in mezzo ai carboni?
CI:
Nessuno mi ha rovinato.
C:
Dunque non ti fece male nessuno.
CI:
Nessuno mi rende cieco nell’occhio.
C:
Dunque non sei cieco.
CI:
Così davvero (lo fossi) tu.
C: E
come nessuno ti potrebbe rendere cieco?
CI: (Mi)
beffi. Ma Nessuno dove sta?
C: In
nessun luogo, o Ciclope.
CI: Il
forestiero, perchè (tu lo) sappia chiaramente, mi ha rovinato, quello
scellerato, che avendomi dato la bevanda (mi) ha sopraffatto.
C:
Brutta cosa infatti (è) il vino e difficile a dominarsi.
CI: Per
gli dei, son fuggiti o sono in casa?
C: Essi
se ne stanno in silenzio avendo preso la roccia come riparo.
CI: Da
che mano?
C: Alla
tua destra.
CI:
Dove?
C:
Proprio presso la rupe. (Li) tieni?
CI:
Malanno su malanno in verità (tengo); mi son rotta, battendo, la testa.
C: E
intanto ti sfuggono.
CI: Di
qua no! Hai detto o no da questa parte?
C: No!
Da questa dico.
CI: Per
dove dunque?
C:
Girati, per di là, a sinistra.
CI:
Ahimè, son beffato! Mi deridete nella disgrazia.
C: Ma
(ora) non più, ma eccolo davanti a te.
CI: O
scelleratissimo, dove mai sei?
ODISSEO:
Ontano da te con guardie custodisco questo corpo di Odisseo.
CI: Come
hai detto? Cambiato nome (ne) dici uno nuovo?
O:
Proprio quello che (mi) diede il (mio) genitore: Odisseo. Ma (tu) dovevi
pagare il fio dell’empio pasto; perchè male certamente avremmo
incendiato Troia se non ti avessi punito dell’uccisione dei compagni.
CI:
Ahimè! Un antico vaticinio si compie. Diceva infatti (l’oracolo) che io
cieca avrei avuta la vista ad opera di te partito da Troia. Ma predisse
che anche tu in verità il fio pagherai per queste cose, per lungo tempo
sballottato sul mare.
O: Che
tu pianga ti auguro; e ho fatto ciò che dico. Io ora al lido me ne vado e
dalla nave lo scafo spingerò nel mare siculo e alla volta della mia
patria.
CI: No,
davvero, poichè ti schiaccerò con gli stessi (tuoi) compagni, avendo
divelto (un masso) da questa rupe (e) colpendo(ti). E su in vetta salirò,
pur essendo cieco, salendo per il sentiero di questa fenditura.
C: E
noi, essendo proprio compagni di questo Odisseo, di Bacco d’ora in poi
servi saremo.
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