1. Dalla nascita alla
conversione (354-386)
Nacque il 13 novembre del 354, figlio, forse
primogenito, d’un consigliere municipale e modesto proprietario di
Tagaste nella Numidia. Se, come sembra, fu africano di razza oltre
che di nascita, fu certamente romano di lingua, di cultura, di
cuore. Studiò a Tagaste, a Madaura e, con l’aiuto del concittadino
Romaniano, a Cartagine. Insegnò grammatica a Tagaste (374) e
retorica a Cartagine (375-383), a Roma (384), a Milano (autunno
384-estate 386): qui come professore ufficiale. Conobbe a fondo la
lingua e la cultura latina, non ebbe familiare il greco, ignorò il
punico.
Educato cristianamente dalla piissima madre,
Monica, restò sempre, nell’animo, un cristiano, anche quando, a 19
anni, abbandonò la fede cattolica.
La sua lunga e tormentata evoluzione interiore
(373-386) cominciò con la lettura dell’Ortensio di Cicerone che lo
entusiasmò per la sapienza, ma ne tinse i pensieri di tendenze
razionaliste e naturaliste. Poco dopo, letta senza frutto la
Scrittura, incontrò, ascoltò e seguì i manichei. Le ragioni
principali furono tre: il proclamato razionalismo che escludeva la
fede, l’aperta professione d’un cristianesimo spirituale e puro che
escludeva l’Antico Testamento, la soluzione radicale del problema
del male che i manichei offrivano.
Non fu un manicheo convinto, ma solo un manicheo
fiducioso che la sapienza promessa gli venisse mostrata (De b. vita
4); fu invece un convinto anticattolico. Del manicheismo accettò i
presupposti metodologici e metafisici: il razionalismo, il
materialismo, il dualismo. Accortosi a poco a poco, attraverso lo
studio delle arti liberali, particolarmente della filosofia,
dell’inconsistenza della religione di Mani – la controprova gliela
diede il vescovo manicheo Fausto – non pensò di tornare alla Chiesa
cattolica, non si affidò a una corrente di filosofi " perché
ignoravano il nome di Cristo " (Conf. 5, 14, 25); ma cadde nella
tentazione scettica: " Gli accademici tennero a lungo il timone
della mia nave " (De beata vita 4). Il cammino di ritorno cominciò a
Milano. Cominciò con la predicazione di Ambrogio che dissipava le
difficoltà manichee e offriva la chiave per interpretare l’Antico
Testamento, continuò con la riflessione personale sulla necessità
della fede per giungere alla sapienza, approdò nella convinzione che
l’autorità su cui si appoggia la fede è la Scrittura; la Scrittura
garantita e letta dalla Chiesa. Aveva opposto Cristo alla Chiesa,
ora si accorgeva che la via per andare a Cristo era proprio la
Chiesa.
Si è molto discusso e si discute sul momento
della conversione di Agostino e sull’influsso che in essa ebbe la
lettura dei platonici. Se si vuole restare fedeli ai testi
agostiniani occorre fare una distinzione importante tra il motivo
della fede e il contenuto della medesima: quello lo aveva
conquistato prima della lettura dei platonici; questo lo chiarì, in
parte, dopo. Nonostante molte questioni gli restassero ancora
oscure, aderiva, come sempre aveva fatto, all’autorità di Cristo e,
di nuovo ormai, all’autorità della Chiesa. " Rimaneva tuttavia
saldamente radicata nel mio cuore la fede nella Chiesa cattolica...
Certo una fede ancora rozza in molti punti e fluttuante oltre i
limiti della giusta dottrina, però il mio spirito non l’abbandonava,
anzi se ne imbeveva ogni giorno di più " (Conf. 7, 5, 7).
I platonici lo aiutarono a risolvere due grossi
problemi filosofici, quello del materialismo e quello del male: il
primo imparò a superarlo scoprendo nel suo mondo interiore, seguendo
appunto il consiglio dei platonici (Conf. 7, 10, 16), la luce
intelligibile della verità; il secondo intuendo la nozione del male
come difetto o privazione di bene. Restava il problema teologico
della mediazione e della grazia. Per risolverlo si volse a s. Paolo,
dalla cui lettura comprese che Cristo non è solo Maestro, ma anche
Redentore. Superato così l’ultimo errore, il naturalismo, il cammino
di ritorno alla fede cattolica era terminato.
Ma a questo punto nasceva o, meglio, rinasceva un
altro problema: la scelta del modo di vivere l’ideale cristiano
della sapienza; se cioè convenisse rinunciare per esso ad ogni
speranza terrena, e quindi anche alla carriera e al matrimonio,
oppure no. La prima rinuncia, anche se la carriera si annunciava
brillante (era vicina la presidenza d’un tribunale o d’una
provincia), non gli costava molto; molto invece gli costava la
seconda: a 17 anni, per mettere un freno all’erompente pubertà e
restare in sintonia con la buona società (Solil. 1, 11, 19), s’era
unito con una donna, da cui aveva avuto un figlio (morto tra il 389
e il 391), e a cui era restato sempre fedele (Conf. 4, 2, 2). Dopo
lunghe esitazioni (Conf. 6, 11, 18-16, 26) e drammatici contrasti,
non senza uno straordinario aiuto della grazia (Conf. 8, 6, 13-12,
30), la scelta fu fatta secondo il consiglio dell’Apostolo e le più
profonde aspirazioni di Agostino: " Mi volgesti a te così a pieno,
che non cercavo più né moglie né altra speranza di questo mondo " (Conf.
8, 12, 30). Era l’anno 386, inizio del mese di agosto.
2. Dalla conversione
all’episcopato (386-396)
Meno di dieci anni, ma spiritualmente e
teologicamente ricchissimi. Presa la decisione di rinunciare
all’insegnamento e al matrimonio, verso la fine di ottobre si ritirò
a Cassiciaco (probabilmente l’odierna Cassago nella Brianza) per
prepararsi al battesimo, ai primi di marzo tornò a Milano,
s’iscrisse tra i catecumeni, seguì la catechesi di Ambrogio e fu da
lui battezzato, insieme all’amico Alipio e al figlio Adeodato, nella
notte tra il 24 e il 25 aprile, vigilia di Pasqua: " e fuggì da noi
l’inquietudine della vita passata " (Conf. 9, 6, 14). Dopo il
battesimo, la piccola comitiva decise di tornare in Africa per
attuare laggiù " il santo proposito " di vivere insieme nel servizio
di Dio. Prima della fine di agosto lasciò Milano e giunse a Ostia
dove la madre, Monica, si ammalò improvvisamente e morì. Morta la
madre Agostino decise di tornare a Roma e vi si trattenne fino a
dopo la morte dell’usurpatore Massimo (luglio o agosto del 388),
interessandosi alla vita monastica e continuando a scrivere libri;
partì poi per l’Africa e si ritirò a Tagaste, dove con gli amici
mise in opera il suo programma di vita ascetica (cfr. Possidio,
Vita, 3, 1-2).
Nel 391 scese a Ippona per " cercare un luogo
dove fondare un monastero e vivere con i miei fratelli ", ma vi
trovò la sorpresa dell’ordinazione sacerdotale, che accettò
riluttante (Serm. 355, 2; Ep. 21; Possidio, Vita 4, 2). Ordinato
sacerdote, ottenne dal vescovo di fondare, secondo il suo piano, un
monastero, dove " prese a vivere secondo la maniera e la regola
stabilita ai tempi dei Santi Apostoli " (Possidio, Vita 5, 1),
intensificando l’ascetismo, approfondendo gli studi di teologia e
cominciando l’apostolato della predicazione. La consacrazione
episcopale intervenne nel 395 o, secondo altri, nel 396. Fu per
qualche tempo coadiutore d’Ippona, poi – almeno dall’agosto del 397
– vescovo. Lasciò allora il monastero dei laici, dov’era vissuto a
capo di quella comunità, e per essere più libero nell’usare
ospitalità verso tutti, si ritirò nella " casa del vescovo "
facendone un monastero di chierici (Serm. 355, 2).
3. Dall’episcopato alla
morte (396-430)
L’attività episcopale di Agostino fu davvero
prodigiosa, tanto quella ordinaria per la sua diocesi quanto quella
straordinaria per la Chiesa d’Africa e per la Chiesa universale.
Tra le attività ordinarie devono annoverarsi: il
ministero della parola (predicò ininterrottamente due volte alla
settimana – sabato e domenica – spesso per più giorni consecutivi o
anche due volte al giorno); l’audientia episcopi per ascoltare e
giudicare le cause, che gli occupavano non raramente tutta la
giornata; la cura dei poveri e degli orfani; la formazione del
clero, con il quale fu paterno, ma anche rigoroso; l’organizzazione
dei monasteri maschili e femminili; la visita agli infermi;
l’intervento a favore dei fedeli presso le autorità civili (apud
saeculi potestates), che non amava fare, ma, quando lo riteneva
opportuno, faceva; l’amministrazione dei beni ecclesiastici, della
quale avrebbe fatto volentieri a meno, ma non trovò nessun laico che
se ne volesse occupare. Ancor maggiore l’attività straordinaria: i
molti e lunghi viaggi per esser presente ai frequenti concili
africani o per venire incontro alle richieste dei colleghi; la
dettatura delle lettere per rispondere a quanti, da ogni parte e di
ogni ceto, si rivolgevano a lui; l’illustrazione e la difesa della
fede. Quest’ultima esigenza lo indusse ad intervenire senza posa
contro i manichei, i donatisti, i pelagiani, gli ariani, i pagani.
Fu l’anima della conferenza del 411 tra vescovi cattolici e vescovi
donatisti e l’artefice principale della soluzione dello scisma
donatista e della controversia pelagiana. Morendo il 28 agosto del
430 al terzo mese dell’assedio d’Ippona da parte dei Vandali, lasciò
tre importanti opere incompiute, tra cui la seconda risposta a
Giuliano architetto del pelagianesimo. L’ultimo scritto fu una
lettera (Ep. 228), dettata forse dal letto di morte, sui doveri dei
sacerdoti di fronte all’invasione barbarica. Sepolto presumibilmente
nella Basilica pacis – la cattedrale –, le sue ossa, in data
incerta, furono trasportate in Sardegna e da qui, verso il 725, a
Pavia nella Basilica di s. Pietro in Ciel d’Oro, dove riposano.
L’uomo
Agostino ha una personalità complessa e profonda:
è filosofo, teologo, mistico, poeta, oratore, polemista, scrittore,
pastore. Tutte qualità che si completano a vicenda e fanno di lui un
uomo " al quale quasi nessuno o certo pochissimi di quanti son
fioriti dall’inizio del genere umano fino ad oggi si possono
comparare " (Pio XI, AAS 22 (1930) 223). Scrive l’Altaner: " Il
grande vescovo univa in sé l’energia creatrice di Tertulliano e la
larghezza di spirito di Origene con il senso ecclesiastico di
Cipriano, l’acutezza dialettica di Aristotele coll’idealismo alato e
la speculazione di Platone; il senso pratico dei latini con la
duttilità spirituale dei greci. Fu il massimo filosofo dell’epoca
patristica, e senza dubbio il più importante ed influente teologo
della Chiesa in generale. La sua opera incontrò fin dai suoi tempi
entusiastici ammiratori " (Patrologia, trad. ital., Torino 1976,
433).
In realtà egli ha creato nell’ambito del
cristianesimo la prima grande sintesi di filosofia che resta un
momento essenziale nel pensiero dell’Occidente. Partendo
dall’evidenza dell’autocognizione, spazia sui temi dell’essere,
della verità, dell’amore, e getta molta luce d’intelligibilità sui
problemi della ricerca di Dio e della natura dell’uomo,
dell’eternità e del tempo, della libertà e del male, della
Provvidenza e della storia, della beatitudine, della giustizia,
della pace.
Con umiltà ed ardimento ha illustrato i misteri
cristiani, determinando il più grande progresso dommatico che la
storia della teologia ricordi; e non solo intorno alla dottrina
della grazia, ma anche intorno alla Trinità, alla Redenzione, alla
Chiesa, ai Sacramenti, all’escatologia: si può ben dire che non ci
sia argomento teologico che non abbia illuminato. Ha spiegato
ampiamente la dottrina morale incentrata nell’amore, e la dottrina
sociale e politica; ha difeso le vie dell’ascetica cristiana e
indicato le vette più alte della mistica.
Come oratore ha saputo mettere insieme la
profondità e la precisione dommatica del dottore, l’altezza lirica
del poeta, la vibrante commozione del mistico, la semplicità
evangelica del pastore che vuol farsi tutto a tutti. Conosce i
diversi stili dell’oratoria, che egli stesso descriverà verso la
fine della vita nel De doctrina christiana, e li usa, passando con
molta naturalezza da quello semplice a quello moderato, e da questo,
molto spesso, a quello sublime.
È un polemista formidabile. Profondamente
convinto della verità e dell’originalità della dottrina cattolica,
la difende contro tutti – pagani, giudei, scismatici, eretici – con
le armi della dialettica e con le risorse della fede e della
ragione. Ma ebbe rispetto per gli avversari. Ne studiò le opere, ne
riportò il testo che confutava, ne riconobbe i meriti, ne dissimulò
e perdonò le offese. Imparò dalla sofferta esperienza dell’errore ad
essere buono con gli erranti.
Della retorica fu maestro consumato. Se ne servì
ed insegnò ad altri a servirsene (cfr. De doctr. christ. 4),
subordinandola sempre, però, al contenuto. " Si deve considerare il
contenuto al di sopra delle parole come l’anima al di sopra del
corpo " (De cat. rud. 9, 13). Quando fosse necessario, pur di farsi
capire, non ebbe timore di usare neologismi o di sgrammaticare. "
Preferisco essere criticato dai grammatici che non essere capito dal
popolo " (In ps. 138, 19; 36, serm. 3, 6; Serm. 37, 14). Se nelle
prime opere lo stile è ancora classicheggiante – " gonfio della
consuetudine delle lettere secolari " (Retract., prol. 3) – nelle
altre va ispirandosi sempre più alla Bibbia e agli autori
ecclesiastici, contribuendo validamente, in questo modo, a creare il
latino cristiano. Non ebbe un solo stile, ma tanti, si può dire,
quanti ne esigevano i contenuti delle sue opere: le Confessioni, la
Città di Dio, i Discorsi, le Lettere – queste ultime secondo la
diversità dell’argomento – hanno uno stile chiaramente diverso nella
struttura del periodo e nel vocabolario, adeguato alla fisionomia
delle singole opere.
Particolarmente interessante è lo studio
dell’animo di Agostino. Alle straordinarie qualità intellettive
facevano riscontro quelle morali, che non erano inferiori. Un
carattere nobile, generoso e forte; una ricerca insaziabile della
sapienza; un bisogno profondo dell’amicizia; un amore vibrante a
Cristo, alla Chiesa, ai fedeli; un’applicazione e una resistenza
sorprendenti al lavoro; un ascetismo moderato e pur austero; una
sincera umiltà che non teme di riconoscere i propri errori (cfr.
Confessioni e Ritrattazioni); una dedizione assidua allo studio
della Scrittura, alla preghiera, alle ascensioni interiori, alla
contemplazione.
È un pastore che si sente e si definisce " servo
di Cristo e servo dei servi di Cristo " (Ep. 217), e ne tira le
conseguenze estreme: piena disponibilità ai bisogni dei fedeli,
desiderio di non essere salvo senza di loro (" non voglio essere
salvo senza di voi ", Serm. 17, 2), preghiera a Dio di essere sempre
pronto a morire per loro aut effectu aut affectu (Serm. 296, 5),
amore verso gli erranti anche se non lo vogliono, anche se
l’offendono (" Dicano contro di noi quello che vogliono; noi li
amiamo anche se non vogliono ", (In ps. 36, 3, 19). È pastore nel
senso pieno della parola.
È un maestro che si sente discepolo e desidera
che tutti siano condiscepoli della verità, che è Cristo. Nelle
controversie non ama che una sola vittoria, quella propria della
Città di Dio, la vittoria della verità (De civ. Dei 2, 29, 2). " In
quanto a me non esiterò a cercare se mi trovo nel dubbio, non mi
vergognerò d’imparare se mi trovo nell’errore. Perciò... prosegua
con me chi insieme a me è certo; cerchi con me chi condivide i miei
dubbi; torni a me chi riconosce il suo errore, mi richiami chi si
accorge del mio " (De Trin. 1, 2, 4-3, 5). Ritiene pertanto con
grande favore essere corretto, anche se non si nasconde che chi vuol
correggerlo deve anche egli guardarsi dall’errore (De dono persev.
21, 55; 24, 68). Soprattutto non vuole essere identificato con la
Chiesa di cui si professa figlio umile e devoto: " Sono forse io la
[Chiesa] cattolica?... A me basta di essere in essa " (In ps. 36, 3,
19).
Questo, in sintesi, l’uomo che è stato il maestro
più seguito in Occidente, di cui si può ben chiamare Padre comune. "
Ciò che era stato Origene per la scienza teologica del II e del IV
secolo, Agostino lo fu, in modo assai più duraturo ed efficace per
tutta la vita della Chiesa nei secoli successivi fino all’epoca
contemporanea. La sua influenza si estese non solo nel dominio della
filosofia, della dogmatica, della teologia morale e della mistica,
ma ancora nella vita sociale e caritativa, nella politica
ecclesiastica, nel diritto pubblico; egli fu, in una parola, il
grande artefice della cultura occidentale del Medio Evo " (Altaner,
Patrologia, Torino 1976, p. 433).
Egli volle essere, come studioso e polemista,
interprete fedele dell’insegnamento cattolico: questo insegnamento
resta la chiave migliore per interpretarne il pensiero. " E se
talora da parte dei protestanti si tentò e si tenta d’interpretare
il suo pensiero come parzialmente non consono al sentire della
Chiesa, si deve al contrario constatare con K. Holl (A. innere
Entwicklung, 1922, p. 51), che la " chiesa cattolica lo comprese
sempre meglio dei suoi avversari ". Il magistero ecclesiastico nelle
sue decisioni non ha seguito alcun altro autore teologico quanto
Agostino, e ciò anche per la dottrina della grazia " (Altaner, o.
c., pp. 433-434).
Infatti Celestino I ne difese la memoria e lo
annoverò tra " i maestri ottimi " dichiarando che era stato sempre
amato e onorato da tutti (DS 237); Ormisda (DS 366), Bonifacio II (DS
399), Giovanni II si richiamano nelle questioni della grazia ad
Agostino, " la cui dottrina secondo le decisioni dei miei
predecessori – così l’ultimo Pontefice ricordato – segue e conserva
la chiesa romana " (PL 66, 21). I Pontefici a noi più vicini – Leone
XIII (Acta 1, 270), Pio XI (AAS 22, 233), Paolo VI (AAS 62, 420) ne
hanno esaltato la dottrina e la santità. I Concili poi – di Orange
sul peccato originale e la grazia, di Trento sulla giustificazione,
del Vaticano I sulle relazioni tra la ragione e la fede e del
Vaticano II sul mistero della chiesa, sulla Rivelazione e sul
mistero dell’uomo hanno attinto largamente – specialmente il primo –
alla sua dottrina, dimostrando con ciò che essa non era di Agostino
ma della chiesa, la quale pertanto la riconosceva per sua. È inutile
ricordare che in questi casi non è più in questione il vescovo di
Ippona, ma la chiesa stessa.
Per il resto egli rimane un, pensatore e uno
scrittore, al quale le ripetute attestazioni del magistero e la
stima continua dei teologi posteriori – tra essi non ultimo s.
Tommaso – hanno conferito una particolare autorità. Questa, se non
autorizza nessuno a preferirne l’insegnamento a quello della chiesa
(DS, 2330; AAS 22, 232), non consente neppure, d’altra parte, di
metterne in dubbio l’ortodossia o di negarne il servizio
incomparabile reso alla chiesa stessa e alla civiltà cristiana.
Che il suo insegnamento sia stato interpretato
lungo i secoli in maniere tanto diverse non è segno di oscurità:
Agostino non è un autore oscuro, ma neppure un autore facile. Non è
facile per molte ragioni: per la profondità del pensiero, per la
molteplicità delle opere, per la vastità delle questioni affrontate
e il modo differente di affrontarle, per la diversità del
linguaggio, e qualche volta l’incertezza propria dei grandi
iniziatori, per l’evoluzione del pensiero stesso e la mancanza di
sistemazione; ed anche, in ultimo, per i limiti che esso, come ogni
pensiero umano, possiede. Solo chi riesce pazientemente a superare
queste difficoltà troverà il vero Agostino, quello degli scritti, "
nei quali i fedeli sempre lo ritrovano vivo " (Possidio, Vita 31,
8), quello della storia, molto più ricco e più armonioso di quanto
non appaia attraverso frettolose interpretazioni o agostinismi di
moda.
Dopo aver ricordato gli scritti, daremo un breve
riassunto del pensiero, abbondando in citazioni, perché il lettore
possa rifare per suo conto il nostro lavoro di ricostruzione
Il pensatore
La dottrina agostiniana ha come merito principale
la molteplicità degli aspetti e la forza della sintesi. In realtà
Agostino è il grande pensatore che ha costruito sintesi grandiose e
profonde sulle quali, poi, come su binari sicuri, si è mossa la
cultura occidentale. Ricordo alcune coppie di termini,
apparentemente opposti ma necessariamente uniti, che servono a
costruire quelle grandi sintesi.
1) Ragione e fede. La soluzione agostiniana del
grande problema - un problema che attraversa, volere o no, ogni
cultura - poggia sull’esaltazione di due primati, quello temporale
della fede e quello assoluto della ragione. Luminosa distinzione,
che permette alla linea dottrinale del vescovo d’Ippona di passare
incolume tra gli scogli opposti del fideismo e del razionalismo,
unendo insieme, senza confonderli, gli apporti della ragione e della
fede: della ragione, che non perde il suo primato in ordine alla
conoscenza della verità; della fede, che mantiene anch’essa il suo
primato, ma temporale, non assoluto. Quando questi due primati sono
stati separati l’uno dall’altro, o assolutizzando il secondo, quello
della fede, o lasciando solo il primo, quello della ragione, la
cultura ha imboccato filoni diversi, giungendo a conclusioni
anch’esse molto diverse. In ogni caso è sempre istruttivo e
stimolante vedere come il vescovo d’Ippona li ha tenuti insieme
dimostrandone le mutue esigenze e il radicamento nella struttura
dello spirito umano.
2) Dio e l’uomo. E’ l’altro grande binomio che il
vescovo d’Ippona non ha mai separato e alla cui conoscenza ha
ricondotto tutto l’umano sapere. Se ha detto cose stupende su Dio,
altrettanto stupende le ha dette sull’uomo. Agostino ha pensato a
Dio in ordine all’uomo come l’Eterno all’interno dell’uomo ("internum-aeternum")
e secondo la forma triadica che l’uomo possiede: Dio è la causa
dell’essere, la luce del conoscere, la fonte dell’amore. E ha
pensato all’uomo in ordine a Dio: l’uomo, perché immagine di Dio, è
capace di Dio e bisognoso di Dio. Egli dimostra in tante sue opere
che solo in Dio trovano soluzione i problemi dell’uomo. Ma a Dio non
si giunge se non per mezzo di Cristo.
3) Libertà e grazia. E’ il terzo binomio, che
nasce dalla profonda problematicità dell’uomo e su cui Agostino
gettò tanta luce d’intelligibilità. Egli difese con molto equilibrio
l’uno e l’altro termine: il primo per render conto della grandezza
dell’uomo, il secondo per render conto della sua fragilità e per
porvi rimedio. La sintesi agostiniana è entrata nei tessuti del
pensiero occidentale e giova ricercarla nelle opere del Maestro per
ritrovarla nella sua genuinità e nel suo equilibrio.
4) Cristo e la Chiesa (vedi lettera apostolica "Augustinum
Hipponensem" e il Commento di A. Trapè). Agostino amò
appassionatamente il Cristo, ne difese la personalità e l'azione con
energia e continuità, e vide nel Cristo la risposta a tutti i nostri
bisogni. Lo vede come centro della fede, perché ne è il fondamento,
la ragione, il riassunto; il centro della pietà, perché Cristo prega
per noi come sacerdote, prega in noi come Capo, è pregato da noi
come nostro Dio; centro della teologia, perché è la nostra sapienza
e la nostra scienza e, siccome si va alla sapienza per mezzo della
scienza, si va a Cristo per mezzo di Cristo; centro della filosofia,
perché molti dei grandi problemi che il pensiero umano pone e a cui
non sa rispondere, non hanno altra soluzione se non in Cristo. Il
dramma cosmico in cui l'uomo è immerso si svolge in mezzo a cinque
grandi problemi che hanno tormentato e tormentano ancora il pensiero
umano: il problema delle sue origini, il problema angoscioso del
male (chi non lo sente non è uomo, chi non tenta di risolverlo non è
filosofo, chi non trova la soluzione del vangelo non è cristiano),
il problema della lotta fra il bene e il male (problema drammatico e
aperto a tutti gli sbocchi o dell'eroismo o della perdizione), il
problema della vittoria del bene sul male (che è la grande speranza
dell'uomo), il problema della sorte eterna dei giusti e degli iniqui
(il piú bello e il piú terrificante, da cui la storia stessa trae
significato di intelligibilità). In ciascuno di questi cinque
momenti della storia umana Cristo è presente ed è operante: presente
con la sua luce, operante con la sua grazia. La Chiesa madre
verissima dei cristiani. Cosí Agostino chiamò la Chiesa fin
dall'inizio della sua vita cristiana, cosí la chiamò sempre, cosí la
vide, l'amò, la difese. Amò teneramente la Chiesa e, per amore della
Chiesa, accettò il sacerdozio e l'episcopato, sacrificò tutte le sue
energie. Scrisse, predicò, vegliò notti insonni per la Chiesa. E
quando parlò della Chiesa, o condottovi dalle controversie del tempo
o portatovi dalla predicazione o da argomenti della Scrittura o da
un bisogno del cuore, raggiunse un lirismo che non potrebbe essere
maggiore. Parlò della Chiesa come comunione dei sacramenti e
comunione dei santi, della Chiesa corpo mistico di Cristo, della
Chiesa regno di Dio, tempio di Dio, città di Dio; della Chiesa
composta di peccatori e di giusti, della Chiesa pellegrina tra le
persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio; della Chiesa
celeste composta solo di giusti, quando il tempo non sarà piú, le
persecuzioni saranno passate, la beatitudine sarà piena. Ma
soprattutto parlò della Chiesa madre e maestra. Questo aspetto l'ha
innanzitutto esperimentato nella sua vita e poi l'ha inculcato ai
suoi fedeli con insistenza, con passione. La crisi di Agostino che
abbandona la fede cattolica non è, come si è detto, di natura
cristologica ma ecclesiologica. Il problema ecclesiologico è al
centro della deviazione dalla fede cattolica e sarà al centro del
suo ritorno, quando cominciò a maturare la convinzione che la Chiesa
è la madre che ci genera a Cristo, è la maestra che c'insegna a
conoscere Cristo: è maestra perché madre ed è madre perché maestra.
Del resto la grande sicurezza, la grande gioia dei cristiani è
questa: avere Dio per Padre e la Chiesa per Madre. La Chiesa è madre
perché sposa di Cristo, e da Cristo e per Cristo genera
spiritualmente i suoi figli. Ed è madre perché vivificata dallo
Spirito Santo, che infonde in lei la carità: e la carità è
essenzialmente materna. Lo Spirito Santo ha, nella Chiesa, la stessa
funzione che ha l'anima nel corpo. E' lo Spirito Santo che vivifica
la Chiesa, che gli dà l'unità, la bellezza, l'espansione, la grazia.
Ed in tanto ciascuno possiede lo Spirito Santo, in quanto ama la
Chiesa, e tanto piú avrà lo Spirito in sé quanto piú ama la Chiesa.
E quanto piú ama la Chiesa, tanto piú ama Cristo, ama il Padre, ama
la Trinità. Non si può amare la Chiesa, senza amare Gesú che ne è il
fondatore e il capo, e non si può amare Gesú senza amare il Padre,
senza amare lo Spirito Santo, che è in Lui e che da Lui è stato
donato a noi.
5) Verità e amore. Altra sintesi che ha per base
due termini che non si possono separare e che Agostino non ha mai
separato. Scrutando nell’abisso dell’interiorità umana, dove abita
la verità - "la verità abita nell’uomo interiore" -, scopre che
l’uomo conosce ed ama; il suo verbo - quello che dice interiormente
pensando, il verbo che non ha lingua - gli è unito tramite l’amore.
E poiché ama la conoscenza e conosce l’amore, il verbo è nell’amore
e l’amore nel verbo e tutti e due nello spirito che ama e dice il
verbo, il quale altro non è che conoscenza amorosa. E’ facile capire
come Agostino abbia parlato sempre della verità animata dall’amore e
dell’amore illuminato dalla verità. Né intellettualismo, né
volontarismo, ma simbiosi dell’uno e dell’altro per la compresenza
dell’atto teorico e dell’atto volontario. Egli pertanto poteva dire,
senza paura di essere frainteso: "Ama e fa’ quel che vuoi".
6) Amore privato e amore sociale. Un altro
binomio, che serve ad Agostino per creare un’altra celebre sintesi,
la sintesi delle due città. Si sa che l’autore della "Città di Dio"
narra la storia dell’umanità raccogliendola in due città: la città
dei giusti e la città degli iniqui. Le due città sono fondate su due
amori, che sono appunto l’amore privato e l’amore sociale, cioè su
egoismo e carità.
Sono questi binomi i grandi binari su cui si è
mossa la cultura occidentale. E’ utile tornare alle fonti e vedere
come li ha impostati e risolti una grande mente che sentiva la
vocazione del pensatore ma che accettò per obbedienza il compito di
pastore, e pastore per di piú di una piccola diocesi africana. Brevi
accenni che possono servire, a chi conosce la storia del pensiero
occidentale, a ritrovarvi la presenza e l’influsso del pensiero
agostiniano: dai tempi di S. Tommaso e S. Bonaventura - due grandi
interpreti, anche se in misura diversa, dell’agostinismo - fino ai
giorni nostri. Per riferirmi al pensiero contemporaneo, se anche si
volesse prescindere dagli influssi di Pascal e di Kierkegaard -
notoriamente debitore del pensiero agostiniano il primo, meno
notoriamente ma non meno realmente il secondo -, non si può non
constatare che alcune forme di esistenzialismo, lo spiritualismo di
Bergson, Le Senne, Lavelle, Blondel, Sciacca, Guzzo, Carlini,
Stefanini - per fare solo alcuni nomi -, il personalismo di Mounier,
il problema dei valori dello Scheler, l’essere e la verità in
Heidegger, la corrente neoscolastica e quella neo-agostiniana, e
grandi pensatori di oggi come Jaspers, Gilson, Guitton ecc., tutti
si richiamano su argomenti non secondari ad Agostino
28
Quando dal fondo
misterioso dell’anima una profonda meditazione ebbe portato
fuori e raccolto tutta la mia miseria davanti
agli occhi del mio cuore [Atti 2, 25], scoppiò una grande
tempesta, che provocò una grande pioggia di lacrime.
Per sfogarla tutta con i
suoi gemiti mi alzai e da Alipio,
la solitudine mi sembrava la più adatta al mio bisogno del
pianto, mi appartai troppo lontano per evitare che potesse essermi
di fastidio anche la sua (sola) presenza.
In questo stato mi
trovavo allora, ed egli se ne avvide, perchè, penso, mi era
sfuggita qualche parola, ove risuonava ormai gravida di pianto la
mia voce; e in questo stato mi alzai.
Egli dunque rimase dove
ci eravamo seduti, immerso nel più grande stupore.
Io mi gettai disteso,
non so come,
sotto una pianta di fico e diedi libero corso alle lacrime.
Dilagarono i fiumi dei
miei occhi, sacrificio gradevole per me, e ti pregai molto, se non
proprio con queste parole, certamente con questo senso:
“E tu, Signore, fino a
quando? [Sal. 6, 4].
Fino a quando, Signore, sarai irritato fino alla fine? Dimentica
le nostre passate iniquità” [Sal. 78, 5.8].
Sentendo di essere
avvinto ad esse [iniquità], lanciavo grida disperate: “Fino
a quando, fino a quando continuerò a dire <<domani e
domani>>? Perchè non subito, perchè non (avviene) in quest’ora
la fine della mia vergogna?”.
29
Così
parlavo e piangevo
nella più amara contrizione del mio cuore affranto.
Ad un tratto dalla casa
vicina mi giunge una voce, come di fanciullo o fanciulla,
non so, che diceva cantando e ripeteva continuamente: “Prendi e leggi, prendi e leggi”.
Mutai d’aspetto all’istante
e cominciai a riflettere con la massima cura se fosse una
cantilena usata in qualche gioco di ragazzi, ma non ricordavo
affatto di averla mai udita da nessuna parte.
Arginata la piena delle
lacrime, mi alzai.
Interpretando che null’altro
da Dio mi veniva comandato se non di aprire il libro e leggere il
primo capoverso che avessi trovato.
Avevo sentito dire,
infatti, da Antonio,
che da una lettura del Vangelo, alla quale era capitato per caso,
aveva ricevuto un mònito, come se fosse diretto a lui ciò che
veniva letto: “Va’, vendi tutte le cose
che hai, dàlle ai poveri ed avrai un tesoro nei cieli, e vieni,
sèguimi”
[Mt. 19, 21], e che dopo questa rivelazione subito si era
convertito a te.
Così tornai in tutta
fretta al luogo dove stava seduto Alipio e dove avevo lasciato il
libro dell’Apostolo quando mi ero allontanato di lì.
Lo afferrai, lo aprii e
lessi tàcito il versetto che per primo mi capitò sotto gli
occhi.
Diceva: “Non (vivete) tra festini ed ubriachezze, non tra alcòve ed impudicizie,
non tra contese ed invidie, ma rivestitevi del Signore Gesù
Cristo nè assecondate la carne nei suoi desideri”
[Rom. 13, 13 sgg.].
Non volli leggere oltre,
nè mi occorreva.
Subito, infatti, alla
fine della lettura, come se nel mio cuore si fosse diffusa una
luce di tranquillità, tutte le tenebre del dubbio svanirono.
30
Chiuso il libro, postovi
in mezzo il dito o non so quale altro segno, già rasserenato in
volto, rivelai tutto ad Alipio.
Egli, a sua volta, mi
rivelò ciò che a mia insaputa accadeva in lui.
Chiese di vedere il
testo che avevo letto.
Glielo porsi, e pose
attenzione anche a ciò che vi era scritto dopo il punto che avevo
letto io. Ed ignoravo che cosa venisse subito dopo.
Il seguito diceva: “E accogliete chi è debole nella fede”
[Rom. 14, 1].
Tale mònito lo
interpretò come rivolto a se stesso, e me lo disse.
Ma egli fu rinsaldato da
questo mònito e con una decisione ed un proposito buoni e del
tutto conformi ai suoi costumi, circa i quali egli già da tempo e
fortemente si distingueva in meglio da me, senza alcun turbamento
ed esitazione si unì (a me).
Immediatamente ci
rechiamo da mia madre e le riveliamo la decisione presa: ne
gioisce; le raccontiamo come si è agito: esulta e trionfa.
E cominciava a benedire
te perchè puoi fare più di
quanto noi chiediamo e comprendiamo [Ef. 3, 20] poichè vedeva
che le era stato concesso da te nei miei riguardi più di quanto
soleva chiedere con pietosi e flebili gemiti.
Infatti mi rivolgesti a
te così appieno, che non cercavo più nè moglie nè alcuna
speranza in questo mondo, stando ben saldo in quella regola di
fede, nella quale tanti anni prima mi avevi rivelato a lei; e mutasti
il suo dolore in una gioia [Sal. 29, 12] molto più grande di
quella che essa aveva desiderato, e molto più preziosa e pura di
quella che aveva pensato di ottenere dai nipoti della mia carne.
Schworer:
Le “Confessiones”, un’opera che ha segnato una traccia profonda ed
altamente significativa nella storia del pensiero umano, sono un’autobiografia
spirituale, un libro di memorie, un bilancio della propria
vita e insieme un inno di lode a Dio, ricercato e ritrovato
come luce immensa nelle tenebre per chi brancolava nel buio
dell’errore, ed un ammaestramento per i fratelli ancora
incerti o lontani dalla verità. Il titolo
è legato al verbo “confiteri”, che ha il molteplice
valore di lodare la divinità, riconoscere i propri peccati e
farne penitenza, dichiarare pubblicamente la propria fede.
Conte:
Il protagonista non è un personaggio eccezionale per il ruolo
che ricopre o per le sue vicende, ma un comune peccatore, che
per volontà di Dio ha trovato la strada della salvezza, come
tanti altri prima e dopo di lui; gli avvenimenti non sono
eccezionali o meravigliosi in sè, ma diventano tali solo per
la presentazione che ne fa l’autore, per la sua capacità di
ingrandire a dismisura il più piccolo particolare, di dare
dignità a fatti che la letteratura tradizionale passava sotto
silenzio o riduceva al solo registro del comico.
Perelli:
La discussione, spesso introdotta dagli studiosi moderni,
se le “Confessioni” siano o meno un documento storicamente fedele dei fatti, non ha ragion d’essere,
perchè la memoria (e lo insegna l’esempio tipico di Proust, che fece della memoria la sua musa ispiratrice) non
rispecchia mai fedelmente le impressioni e gli stati d’animo
originari, ma li rivive attraverso all’interpretazione del
presente; è da escludere comunque una voluta falsificazione
dei fatti da parte dell’autore. [...] La novità
dell’opera consiste essenzialmente nel modo di
affrontare i problemi dell’anima, nell’approfondimento
dell’analisi interiore fino a giungere ad abissi finora
inesplorati, e nell’inserimento di questa analisi in una
prospettiva religiosa che la drammatizza e costituisce l’elemento
strutturale fondamentale dell’opera. L’indagine
sui problemi dell’anima e sul mistero rientra nel solco
della grande tradizione latina, da Catullo a Seneca, ma in
Agostino essa acquista nuove dimensioni, penetra più a fondo
nei complicati meandri della vita interiore, e soprattutto
diventa la storia del divenire di un’anima, disponendosi
secondo il filo sistematico e costante di un itinerario
spirituale; le “Confessioni”
costituiscono il primo esempio della struttura letteraria del
diario intimo con sviluppo romanzesco, che tanta
diffusione avrà nell’età moderna.
La consapevolezza della propria miseria scatena in Agostino un
tempestoso sconvolgimento interiore, che sfocia nel pianto
liberatorio.
Concittadino di Agostino, fu suo discepolo a Tagaste ed a
Cartagine; aderì con lui al manicheismo e seguì il maestro a
Roma e a Milano; turbato da problemi ed incertezze analoghe a
quelle di Agostino, era, parimenti, vicino alla conversione.
L’uso di tali formule di senso indeterminato denota stupore,
come se gli atti di Agostino in quel momento di intenso
travaglio siano stati guidati dalla forza misteriosa della
Grazia divina.
Agostino invoca l’aiuto divino, se non proprio con le parole
esatte, certo nel senso del salmo, giacchè solo le Sacre
Scritture possono suggerire espressioni adeguate al momento,
sopperendo all’insufficienza umana.
Il consapevole e sofferto pentimento di Agostino, che sfocia
nel pianto, è la condizione essenziale per ottenere il
perdono divino.
Molti hanno negato storicità al
fatto, interpretandolo come una finzione letteraria: Agostino
avrebbe inventato l’episodio, attribuendo ad un’entità
esterna, un fanciullo, per altro carica di simboli (purezza,
castità), quella che probabilmente era solo una voce
ascoltata nel profondo della sua anima. Non esistono motivi
validi per negare autenticità all’episodio, mentre ne
esiste almeno uno che sembra deporre a suo favore. Lo ha posto
in rilievo il Pellegrino,
il quale ha fatto rilevare come
all’interno del brano si possa notare un certo scrupolo, da
parte dello scrittore, nello sceverare ciò di cui egli ha
memoria netta da ciò che ricorda solo con approssimazione.
Questa espressione, non comune in un canto infantile, come
subito dopo Agostino ricorda, può essere, a detta degli
studiosi, una formula della propaganda cristiana per invitare
a leggere le Scritture, che un bimbo avrebbe sentito
pronunciare dagli adulti e ripetuto a mo’ di cantilena,
meccanicamente.
Antonio, nato ad Eracleopoli nel Medio Egitto verso la metà
del III sec., si ritirò a vita eremitica ed ascetica dopo la
lettura di un passo evangelico; è considerato uno dei
fondatori del monachesimo; di lui scrisse una biografia S.
Atanasio.
E’ il famoso passo in cui Gesù risponde al giovane ricco
che gli aveva chiesto in qual modo operare per avere la vita
eterna.
Questo passo, mettendo a fuoco il travaglio che ancora assilla
Agostino, acquista per lui, sul piano psicologico, il valore
di un suggerimento divino, di un segno della sua Grazia;
perciò egli non ha più esitazioni...
Casillo:
Il dramma di Alipio è ben diverso
da quello di Agostino;
quest’ultimo ha già trovato la sua fede, ma deve lottare
per liberarsi dalla schiavitù della carne; Alipio, invece, si
è liberato dai piaceri terreni, ma vive ancora tiepidamente
la fede in Dio. I due passi evangelici, letti separatamente,
forniscono l’attesa risposta ai bisogni diversi di entrambi.
La madre aveva sì pregato che il figlio si convertisse al
cristianesimo, ma per il resto aveva desiderato che egli si
formasse una regolare famiglia e vivesse una vita morigerata.
Agostino non solo si converte, ma addirittura pone al bando i
piaceri terreni e rinuncia persino alla sua professione di
maestro di eloquenza.
Pellegrino:
C’è un elemento squisitamente drammatico che pervade tutte le “Confessioni”
poichè ne costituisce l’anima, il motivo essenziale: la
preghiera. E’ appunto questo uno dei caratteri più
singolari di quest’opera, che non permette di classificarla
in nessuno dei consueti schemi e generi letterari. Nè la
preghiera è un pretesto, un artificio letterario. Le “Confessioni”
non sarebbero se non fossero preghiera. Le “Confessioni”
sono un dramma, a
parte certi passi in cui l’elemento drammatico è messo in
maggior risalto da particolari circostanze, proprio perchè vi
si muovono costantemente almeno due personaggi: Dio
e l’uomo. E Dio non è oggetto lontano di astratta
contemplazione, ma la Realtà sempre presente , vicino all’uomo
e nell’uomo, non solo come l’Unità pura, il Bene, il
principio dell’universo, oggetto d’intelligenza e d’amore,
ma privo della vita del pensiero e dell’amore, qual era in
Plotino, ma come Persona, pur nella sua infinita trascendenza,
che ascolta il nostro grido, coglie ogni palpito del cuore, e
risponde con una voce arcana, ma ben nota all’uomo, che è
luce, che è amore, che è forza.
|