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Svolgendo delle interviste alle persone con più di 70 anni del Comune di Suno, abbiamo potuto ricostruire il tipo di alimentazione della prima metà del Secolo scorso ed alcuni piatti della tradizione di cui oggi si è quasi persa la memoria.
Gli anni ’40 del Novecento sono stati molto duri perché era in corso la Seconda guerra mondiale. Il cibo scarseggiava e quindi era molto difficile per la popolazione sfamarsi a sufficienza: l’alimentazione era basata su prodotti semplici e poco costosi come il
pane di segale che alcune famiglie cuocevano nei loro forni oppure portavano al forno del paese, pagandone l’uso con parte dell’impasto che rimaneva al fornaio. Il pane poteva anche essere di granoturco o con l’uva passa. A Suno i nostri nonni preparavano un pane speciale, la
“müta”, fatta aggiungendo all’impasto i fichi secchi.
I benestanti avevano un’alimentazione piuttosto varia: si potevano permettere lo
zucchero, il caffè e la
carne. Questi prodotti non erano presenti, se non molto raramente, sulle tavole dei poveri (cioè della maggior parte della popolazione). Generalmente sulle loro tavole c’erano verdure
(cavoli, patate,
cipolle, carote,
fagioli e verze) coltivate nei loro orti e i prodotti ricavati dai loro animali, come
latte, formaggi e
uova.
L’alimentazione era totalmente diversa da come è oggi, già dalla prima colazione: chi possedeva le mucche poteva bersi una bella scodella di latte appena munto che, per essere reso più saporito, poteva essere salato (lo zucchero era un lusso per pochi). In altre famiglie, quelle più povere, si bevevo la
“süpa veva”: acqua bollita con cipolle e un po’ di passata di pomodoro in cui veniva sciolto del lardo e in cui si intingeva il pane raffermo. Anche il caffè non era ciò che intendiamo oggi ma era fatto con orzo tostato.
Nei pasti principali della giornata si consumavano piatti a base di riso,
minestre con le verdure, cereali. Tra i piatti poveri più diffusi nei nostri paesi c’erano la
“cazôla”, una zuppa di verze cotte con ossi spolpati ( o con le costine, la pancetta e la parte finale della zampa del maiale, il “piedino”, per i più fortunati), e la
“poot”, una polenta molto molle fatta con farina di mais e segale che si mangiava con il latte.
Esisteva già una parente delle nostre amate patatine fritte: la “spatascina”, ottenuta schiacciando nei ritagli di tela (spesso nei fazzoletti) delle patate bollite e attaccando queste polpettine alla stufa a legna che le tostava, rendendole più saporite.
Una volta alla settimana c’era il tapulone con la
polenta.
Gli uomini mangiavano quasi sempre almeno un piatto di carne al giorno mentre le donne e i bambini mangiavano il
sanguinaccio (sangue del maiale con le patate) e le verdure. Questa differenza nell’alimentazione è dovuta al diverso tipo di lavoro: agli uomini spettavano i lavori più pesanti, quindi avevano “diritto” a cibi più nutrienti.
A questi piatti si aggiunsero anche tipi di formaggi fatti in casa e conservati con il pepe. La carne in genere era fornita dagli animali allevati in famiglia. Lo scopo primo dell’allevamento era però la vendita.
In occasioni speciali come per il Natale o per i matrimoni, il piatto principe era certamente il
bollito che seguiva il risotto, cotto appunto nel brodo di carne.
Era molto diffusa la pratica del baratto del genere alimentare. A quei tempi quasi tutte le famiglie erano povere, molte volte la loro alimentazione era insufficiente sia per quantità che per qualità nutrizionali del cibo.
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