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Negli anni Trenta i paesi presentavano un aspetto molto diverso dall’attuale sotto il profilo delle attività commerciali e della vita quotidiana. A quei tempi, non esistevano naturalmente i supermercati e i centri commerciali, inoltre i mezzi di trasporto e gli spostamenti da un paese all’altro erano assai rari. In paese si doveva trovare il necessario dai generi alimentari, alla merciaia, alle botteghe del sarto o del calzolaio.
Per l’alimentazione, quasi tutte le famiglie potevano contare sui prodotti dei campi e dell’orto, oltre che sulla stalla e sul pollaio. Al negozio di alimentari si ricorreva per i generi di prima necessità come l’olio, lo zucchero, conserve, marmellate e le spezie. Spesso, a svolgere questa funzione era la stessa bottega che vendeva il pane e non di rado la stessa aveva la licenza per i tabacchi. In ogni paese si trovavano anche il macellaio e il lattaio. Le osterie erano tante e non mancavano mai d’avventori, non essendoci molti altri svaghi. Vi erano poi degli ambulanti come il gelataio o qualche venditore di bottoni, nastri e stoffe. Vi forniamo alcuni ricordi dell’epoca.

 

Il panettiere.

Numerose famiglie contadine si preparavano il pane in casa, dopo essere andati a macinare la farina al mulino, tuttavia in ogni paese non mancava il negozio del panettiere, dove molti si recavano a far cuocere il pane di produzione propria; altri invece acquistavano il pane già pronto, cosa che, con il passare degli anni, divenne la norma. Il lavoro del panettiere avveniva durante la notte perché il pane fosse pronto di mattino presto. Il forno era a legna e davanti alla bottega si trovavano sempre accatastate delle fascine per accendere il fuoco: nelle notti calde d’estate il panettiere usciva e sedersi sulla legna, a parlare con i nottambuli di turno. La luce accesa nel forno costituiva una sorta di garanzia per la sicurezza della piazza.

Il tabacchino.

Il negozio di sale e tabacchi (il tabachin) vendeva, su un banco a parte, oltre al sale, parecchie marche di sigarette.
Molto si arrotolavano le sigarette con cartine e tabacco che conservavano in una scatoletta metallica.
Sul banco faceva un certo effetto uno strano congegno; si trattava di una testa metallica nella cui bocca s’infilava il toscano, premevi sul capo e un’inesorabile ghigliottina troncava di netto in due pezzi il robusto sigaro toscano, la “scigala”.
Il tabacco era forse l’unica merce che era consegnata solo dietro pagamento in contanti. Quasi tutto il resto era ceduto a credito: il negoziante registrava a penna la merce data su un libretto dalla copertina color celestino, asciugava con un pezzo di carta da formaggio, e lasciava il quadernetto in custodia al cliente senza conservarne copia, se non nella propria memoria.
Il tabacchino offriva anche tutte le varietà di leccornie che l’industria dolciaria di allora poteva disporre. Le caramelle “Novecento”, gommose e con gusto di catrame, costavano cinque centesimi (un soldo), le “Topolino” costavano dieci centesimi e si saliva sempre più con il prezzo fino a raggiungere la quota di ben dieci soldi, che a quei tempi era un prezzo elevato.
Nei negozi non mancavano le eleganti e gustose caramelle Perugina, avvolte in dolce cioccolato con l’omaggio del classico bigliettino.
Oltre a dolci e cose simili, il tabacchino vendeva le prime figurine da collezione: “i biglitit”, i bigliettini, con le immagini dei calciatori e d’altri campioni sportivi. Con i biglitit, i ragazzi ingaggiavano interminabili partite a testa e croce e c’era chi in questo gioco eccelleva tanto da essere considerato imbattibile.

Il gelataio.

Il gelataio tra autunno e inverno, cuoceva le caldarroste, mentre nella buona stagione vendeva gelati, preparati da lui stesso. Generalmente era un ambulante che girava per i paesi con il suo carretto in occasione di fiere e mercati, oppure nelle giornate di festa. Con dieci centesimi ti dava un minicono, tanto per assaggiare. Avere un cono dipendeva da quanto volevi spendere: più aumentavano i soldi posseduti, più aumentava la grandezza del gelato. Se disponevi di cinquanta centesimi o di una lira, acquistavi un cono di quelli che oggi costano non saprei quanto.

Il macellaio

Il macellaio vendeva la carne degli animali che lui stesso macellava, dopo averli acquistati dai contadini della zona. Accanto ad ogni bottega c’era il macello e ogni settimana era fissato il giorno per la macellazione dei bovini; la carne tagliata a grossi pezzi era conservata in una ghiacciaia, un luogo molto fresco riempito di ghiaccio in blocchi, fatto arrivare da Borgomanero.

L’osteria

In un paese come Fontaneto le osterie erano diverse: due erano affacciate sulla stessa piazza, mentre in via Marconi ne esistevano tre, una accanto all’altra. Oggi questi locali sono tutti scomparsi. Allora erano molto frequentate, soprattutto di domenica, quando molti avventori arrivavano dalle frazioni per fare due chiacchiere e bere un bicchiere di vino. Le osterie non avevano un orario fisso: aprivano di mattino e chiudevano a sera inoltrata, quando l’ultimo cliente se ne andava. In osteria si poteva anche mangiare e un piatto molto richiesto, perché di non molto costo e saporito, era la trippa, qui denominata “la piccola”. Ogni oste aveva i suoi clienti fissi che gli richiedevano questo piatto. Oltre al vino, l’osteria erano l’unico posto in cui si potevano trovare le prime bibite come la limonata, la gazzosa e il chinotto. Generalmente vi si recavano solo gli uomini; a Carnevale c’era l’usanza di portarvi la moglie a bere un bicchiere di vino bianco.

 

La merceria.

La merceria vendeva un po’ di tutto: dall’ago ai fili per il cucito, dal dentifricio ai saponi ed ai profumi. Non mancava neppure la brillantina, secondo la moda dell’epoca. 
Gli scolari vi compravano le matite ed i quaderni per la scuola, oltre a qualche cinghia per i libri o gli astucci. Le donne vi ricercavano qualche paio di calze, i guanti ed il velo che era obbligo indossare in chiesa.

 

Il barbiere.


Negli anni trenta era un mestiere praticato non solo per il taglio dei capelli ma soprattutto per la barba. Allora non esistevano i rasoi elettrici, così molti contadini, una volta la settimana, andavano dal barbiere a farsi sbarbare. Il sabato davanti al negozio c’era la coda: generalmente il barbiere non lavorava tutta la settimana, ma solo in giorni stabiliti, compresa la domenica mattina. L’attesa era tempo per scambiare due chiacchiere o per leggere il giornale e intraprendere vivaci discussioni sugli avvenimenti sportivi.

 

 

Il calzolaio

Il calzolaio era in grado di produrre un paio di scarpe partendo dal cuoio. Nel suo retrobottega aveva un banchetto con tutto l’occorrente per la lavorazione della scarpa e le macchine per cucire la pelle. In vetrina esponeva le calzature di sua creazione, pronte per essere acquistate, ma realizzava anche scarpe su ordinazione, prendendo le misure del piede del cliente e cercando di soddisfare le diverse richieste. Pochi erano i prodotti già preconfezionati disponibili nel suo negozio, in genere si trattava di ciabatte o pantofole. Quando iniziarono a diffondersi le scarpe prodotte in serie dall’industria, i calzolai di paese cercarono di convincere il cliente ad acquistare quelli di produzione propria, ma presto dovettero adattarsi al cambiare dei tempi. Molti si accontentarono allora di eseguire le riparazioni delle scarpe usate, altri si trasformarono in commercianti.

Il sarto

La bottega del sarto era un piccolo laboratorio organizzato in casa. Non esistevano negozi di abbigliamento, così molti ricorrevano al sarto per gli abiti delle grandi occasioni. Questa era un’attività molto fiorente, sia nel settore maschile sia in quello femminile. Il cliente doveva procurarsi la stoffa, poi sceglieva il modello: soprattutto per gli abiti femminili, si consultavano delle riviste specializzate o ci si faceva consigliare dalla sarta stessa, che doveva essere sempre aggiornata sulle novità della moda. Quindi il sarto prendeva le misure e tagliava l’abito. Il lavoro di imbastitura e cucitura era spesso affidato a giovani aiutanti che stavano apprendendo il mestiere. Un sarto in genere poteva avere anche tre o quattro garzoni, lo stesso avveniva per le ragazze che lavoravano nella bottega della sarta.
Quando in paese c’era uno sposalizio, per i sarti era un’occasione d’oro: si dovevano confezionare gli abiti degli sposi e di tutti gli invitati. Il lavoro era tanto e le sarte facevano a gara nel confezionare gli abiti da sposa più belli, sapendo che sarebbe stati ammirati e commentati da tutte le donne del paese. Molte sarte confezionarono abiti da sposa fino agli anni sessanta.

Lo straccivendolo 

Lo straccivendolo aveva un magazzino dove raccoglieva le cose ormai inservibili, dal ferro arrugginito, da inviare in fonderia, agli stracci. Gli si potevano consegnare anche le pelli del coniglio che lui pagava cinque lire, l’equivalente di un gelato. Le pelli andavano ben asciugate ed essiccate al sole, poi si riempivano di paglia in modo da mantenerle ben tese. Esse erano usate nella fabbricazione dei guanti.

 

Il vetturino e il carrettiere.

Quando non esistevano le motociclette e le automobili ci si spostava con carrozza e cavallo. Molti uomini praticavano di mestiere il vetturino, cioè il conducente di carrozza. I vetturini vestivano molto elegantemente, con il cappello a cilindro o bombetta, frac e guanti bianchi.
Furono sostituiti dalle automobili pubbliche, che per distinguersi da quelle private dovevano obbligatoriamente avere una carrozza bicolore: verde e nera.
Oggi, queste vetture sono i taxi, si trovano nelle città più grandi, a Novara sono liberi sia l’abbigliamento del guidatore sia il colore delle vetture. 
Il carrettiere o conducente di carri è uno dei mestieri più antichi. Questo mestiere è ormai scomparso, sostituito dagli autisti di camino e di autocarri, allora il carretto era l’unico sistema per trasportare le merci. 

L’ombrellaio. 

Gli ombrellai o “umbrilat” erano artigiani provenienti quasi tutti dal Lago Maggiore: molti da Gignese, dove esiste tuttora un museo dell’ombrello.
L’ombrellaio di mattina andava in giro per le strade gridando: ”Umbrilat, umbrilat!” Poi nel pomeriggio, in un angolo della piazza, aggiustava gli ombrelli. Egli viaggiava su una bicicletta, sulla quale aveva appoggiato un grosso scatolone pieno di ombrelli da vendere e da riparare.
Egli davanti al manubrio della bicicletta teneva sempre una scatoletta di pelle piena di filo e arnesi.

 

 

Lo spazzacamino.

Gli spazzacamini, o “spazacamin” venivano dalla Val Vigezzo (a Santa Maria Maggiore esiste il museo dello spazzacamino) e avevano il compito di pulire i comignoli incrostati della fuliggine, era un servizio molto utile essendo i camini e le stufe a legno l’unica forma di riscaldamento e di metodo per cucinare i cibi.
Lo spazzacamino andava per il paese con una bicicletta molto mal messa, con i suoi attrezzi legati con il fil di ferro. Aveva sempre una corda e il rampone. Insieme a lui aveva sempre un ragazzo per fargli imparare il mestiere, in genere si trattava quasi di bambini, spesso emarginati perché di famiglie molto povere .
Allo spazzacamino, finito il suo lavoro, si donava sempre un piatto di minestra e un bicchiere di vino.

 

L’arrotino (Mulitä) 

Era un personaggio molto frequente nei paesi della zona. Spesso proveniva dalla montagna, anche dal Tirolo. Tutti gli anni, a primavera, girava di paese in paese per affilare coltelli, falcetti, forbici d'ogni tipo.
La sua attrezzatura consisteva in una specie di carretto, su cui era collocata la mola. L'arrotino di solito si spostava a piedi spingendo a mano il suo carretto, qualcuno utilizzava una bicicletta. Passava di cortile in cortile, gridando: "Mulita, mulita!" poi si sedeva e con una leva faceva muovere le ruote di trasmissione del suo arnese di lavoro, che davano velocità alla mola su cui affilare le lame.Alla sera veniva ospitato dalla gente del luogo, spesso si accontentava di trovare riposo in qualche fienile.

Quello che segue è un canto relativo al mestiere del Mulita, come viene riscritto da Carlo Rossi nel volume “Il Pätuà dä Cürësc" che raccoglie innumerevoli canti e proverbi in dialetto cureggese …

Canto del Mulitä

Al me pà al fa’l mulitä
E mi facch äl mulitìn, 
Al me pà äl ciapä i sòlt
E mi ciapi i quattrìn, 
“Ziinziin, ziinziin”,
Lä disä lä bäracä 
“Dindin dindin” ,
Sunu i bon suldin.
Fiscëtt, cortei i tajiu 
Clè durei l’è’n gran piäsì, 
Sgeent, ghi da dis-ciulèvi,
Purtèi sütu chi.
Doni, bèli doni,
Al mulitä lè rivà!
Si ghi lä fulzëtä rutä 
Purtèlä sutu scià.
S’äv mancä la brucclëtä, 
Al ciò iv lä dacch mi.
Lä lenguä dël doni
Lè lungä tant insì;
Culä dji òimi
Lè faccia ä tri cantòn,
Ma culä dël dòni
lä vöj veighi sempre räsòn.

TRADUZIONE 

Mio padre fa il mulita 
e io faccio l'arrotino
mio padre prende i soldi 
ed io prendo i quattrini. 
“Ziinziin, ziinziin”,
dice la mola, 
“Dindin dindin” ,
suonano i buoni soldi .
Falcetti, coltelli,
tagliano che usarli è un piacere.
Gente, muovetevi
portateli subito qui.
Donne, belle donne
il mulita è arrivato! 
Se avete la forbice rotta 
portatela subito qui. 
Se vi manca un ribattino nella pentola,
il chiodo ve lo metto io.
La lingua delle donne
è lunga tanto così, 
quella degli uomini
è fatta come tre cantoni, 
ma quella delle donne
vuole avere sempre ragione.

Negli anni Sessanta l’arrotino percorreva ancora le nostre zone, ma era motorizzato, come ci ricorda questa testimonianza relativa al paese di Cressa:
“Si presenta due o tre volte l’anno il Tullio- Mulita, l’arrotino, a bordo di una motocicletta- negozio, con un rombo insistente e la classica nuvola di polvere al seguito. Arriva annunciato da un vociare di comari pronte ad ammansirlo con un bicchiere di vino, affinché affilasse velocemente gli stanche coltelli. Arriva dal Trentino, un paese così lontano che qualche vecchia ricordava a causa del primo conflitto bellico e che i ragazzini rammentavano di aver studiato a scuola con la canzone del Piave. Cantava come tutti gli uomini felici di esistere e si lasciava andare a raccontare le storie della sua terra e degli inverni pieni di neve. “

Il falegname in cascina

A Fontaneto il mestiere di falegname doveva essere molto diffuso e apprezzato, infatti, dai “registri” dell’Archivio Comunale si ricavano dati circa la grande presenza di quest’attività nel paese e nelle frazioni. Spesso le famiglie di contadini avevano un membro che svolgeva l’attività di falegname solo per le necessità della cascina; di solito non era il capofamiglia ma un congiunto che conviveva nella famiglia patriarcale. 
È facile intuire i motivi per cui conveniva avere un falegname in questi grossi nuclei che potevano arrivare anche a 15 – 20 componenti: l’artigiano costruiva gli attrezzi per i lavori agricoli, riparava i pochi mobili e gli arredi di legno, foggiava recipienti per la cucina. In alcuni casi, se disponeva dell’attrezzatura necessaria, poteva anche riparare porte e serramenti. Tale situazione risulta essere molto diffusa nell’800, la società di allora cercava di produrre l’indispensabile per la sopravvivenza e per ridurre le spese: il legname era, infatti, fornito dalle circostanti zone boschive. Tutti i contadini comunque, sapevano foggiare manici per tridenti, rastrelli, zappe e svolgevano questo lavoro seduti sotto il portico.

Falegnami a tempo pieno

I falegnami a tempo pieno svolgevano diversi tipi di lavorazione: serramenti, telai, ruote dei carri ma soprattutto oggetti per la casa. Alcuni artigiani erano specializzati nel costruire i mobili. Iin genere si tramandavano il mestiere da padre in figlio. Gli arnesi utilizzati non erano molti e richiedevano tutti un uso manuale. Il falegname aveva a disposizione: una sega normale e una sega a telaio, un seghetto, un martello a granchio, delle mazzuole, un succhiello, un girabacchino, un trapano a mano, scalpelli, la pialla, morsetti, lime, tenaglie, squadra e martelli da impiallacciatura. 

Lo zoccolaio (Zucclat)

Un mestiere particolare, ormai completamente scomparso consisteva nella fabbricazione degli zoccoli, calzature interamente fatte in legno, usate in modo abituale dei contadini, al posto delle scarpe che rappresentavano un accessorio di lusso da conservare con cura e da indossare solo nelle grandi occasioni.
Gli zoccoli (zucclun) venivano fatti con il legno di “duniscia” (ontano) e per evitare che facessero troppo rumore si risuolavano con pezzi di copertoni delle ruote di bicicletta. Lo zoccolaio confezionava anche i zucclin, i sandali usati dai bambini durante la bella stagione e le zocclee delle donne che spesso avevano la tomaia in pelle con delle decorazioni. 

 

Il fabbro

Nella bottega del fabbro si lavoravano gli strumenti in ferro; il fabbro aveva come compito di realizzare tutte le parti in metallo dei carri, di riparare gli aratro e gli attrezzi agricoli o casalinghi. Ogni famiglia, ad esempio, possedeva una mazza per spaccare la legna, compito del fabbro era fissare i due anelli di ferro che rinforzavano questo strumento, che altrimenti si sarebbe facilmente spezzato. Il fabbro svolgeva il suo lavoro servendosi della forgia per rendere incandescente il ferro, dell’incudine e del martello per modellarlo con vigorosi colpi e di vari tipi di tenaglie per afferrare il ferro caldo e immergerlo nell’acqua così da dargli la giusta durezza.
Nella società contadina era fondamentale anche la preparazione dei ferri di cavallo per gli animali da traino, il fabbro generalmente si occupava anche di questo, mentre alla ferratura del bestiame bovino provvedeva in genere una figura specializzata: il maniscalco.
Nel laboratorio del fabbro, come in ogni bottega di qualsiasi altro artigiano c’erano sempre dei garzoni : giovani aiutanti che cercavano di apprendere il mestiere.

 

Lo stagnaro (Magnen)

Era un altro artigiano ambulante che girava di paese in paese offrendo riparazione per tutti gli oggetti in rame e per i contenitori in ferro. Occorre considerare che allora non esisteva alcun contenitore di plastica; i secchi per attingere l’acqua dal pozzo, le tinozze per lavarsi, gli annaffiatoi e tanti altri oggetti casalinghi erano in ferro, facilmente attaccabili dalla ruggine fino a bucarsi. Se il foro era piccolo lo stagnaio lo riparava con un chiodo ribattuto, altrimenti applicava una lamina di ferro nuovo. Egli riparava anche i paioli in rame o in alluminio. Questo dato ci fa capire come le massaie dovessero fare economia a causa delle ristrettezze in denaro era molto difficile comperare un oggetto nuovo e così come venivano rammendati i vestiti e passati da un membro all’altro della famiglia mettendovi delle toppe lo stesso si faceva con gli oggetti della cucina.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, con gli anni dello sviluppo industriale , si produssero i primi recipienti in plastica, la vita delle famiglie cambiò completamente, fino ad arrivare all’idea di contenitori “usa e getta”, lo stagnaro non fu più necessario e divenne un mestiere ormai scomparso. Quel mondo fatto di piccole cose, di ambulanti che suonavano la trombetta per richiamare l’attenzione e che passando di casa in casa diffondevano le notizie da un paese all’altro, oggi purtroppo non esiste più.

 

 



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