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E’ molto strano e insolito scrivere in rete, soprattutto su un sito come questo, il ricordo di un prete. Almeno apparentemente, se non si conosce la persona.
Don Dano Stefanini era un priore di campagna. Nato nel 1929 sulle montagne dell’Appennino fiorentino, dove tornava spessissimo da sua sorella e da altri parenti, come molti ragazzini della sua epoca per studiare entrò in seminario. Fu un bel colpo arrivare nella “metropoli”, quella Firenze degli anni ’50 ricchissima di fermenti culturali e sociali. Un periodo che, nonostante le durezze seminariali sbeffeggiate con arguta ironia, rammentava con piacere. Non ho mai capito se il brillare dei suoi occhi, ricordando la vita del seminario sul Lungarno, era dovuto alla spensieratezza di quel tempo ormai lontano, o alla nostalgia di quei luoghi, confinato fra colline del Chianti fiorentino bellissime ma isolate dal mondo pulsante. La sua Firenze, tanto amata e citata, si capiva che era rimasta quella che purtroppo non è più. Alcune volte mi sono anche un po’ immalinconito pensando cosa doveva essere e cosa, invece, è diventata. A dire il vero un po’ se ne rendeva conto anche lui, quando – di tanto in tanto – andava in Curia, a Piazza Duomo, o alla Libreria dei salesiani in Via Gioberti. Ma era così forte e radicato il sapore di quella vita e di quelle relazioni che nulla poteva cancellarlo.
Nel 1954 Dano fu ordinato sacerdote e sei anni dopo, a soli 31 anni, fu spedito dall’Arcivescovo Elia Dalla Costa, ad occuparsi delle Pievi di San Lazzaro e di San Donato a Lucardo. Una chiesina, quest’ultima, incantevole, stretta e lunga, con 8 panche da un lato e 8 dall’altro, al massimo una sessantina di posti a sedere e pochi altri in piedi all’ingresso.
Non so quale fu la sua espressione del volto all’arrivo, per la prima volta, nella frazioncina del Fiano, Comune di Certaldo. Ma immagino le preghiere che fece quel giorno! Forse non troppo diverse dal suo amato Don Lorenzo Milani, quando fu mandato a Barbiana di Vicchio.
E qui se fosse più bravo e più colto l’estensore potrebbe avventurarsi in una serie di analogie fra Don Dano e Don Lorenzo, ma la mia ignoranza coniugata a quanto il primo l’avrebbe ritenuta una cosa “blasfema” mi fermano qua. Tuttavia almeno un elemento in comune c’era davvero: l’antipatia per il potere, per chi lo detiene e soprattutto per come lo gestisce. Non posso dimenticare che in ogni omelia della Domenica mattina (Messe senza antifone e senza tanti cori, dove l’importante era, appunto, la riflessione sulla parola di Cristo) ci infilava sempre un pensiero di sdegno verso la classe dirigente del Paese e verso le gerarchie ecclesiastiche, con i suoi beni nomi e cognomi. Come Don Milani, seminava nei fedeli venuti ad ascoltarlo dalla campagna il germe dello spirito critico, senza giri di parole o metafore astratte. I Vangeli sempre tuffati nella fango della quotidianità, come per ripulirla un po’. Così diverso dai preti in abito d’ordinanza della Chiesa giù in paese, divenuta negli ultimi anni un feudo di Comunione e Liberazione. La spiritualità del vecchio priore di campagna e la ritualità dell’organizzazione militaresco-imprenditoriale.
Chi scrive non ricorda di aver mai visto a Don Dano una tonaca, un clargmen, o qualche divisa, il suo abbigliamento, semplice e persino un po’ sgarrupato, era spesso acquistato da quei fratelli extra-comunitari a cui dava sempre qualcosa.
Anche le collette, durante le funzioni, non servivano mai a ristrutturare la Chiesa – come accade di frequente nelle Parrocchie – ma per le missioni in Africa, in modo particolare quelle comboniane. La Chiesa poteva avere mille problemi ma era la sua comunità che andava curata e sistemata.
Quando conobbi la ragazza che poi è diventata mia moglie, decisi a convolare a giuste nozze, andammo da lui per informarci sui corsi prematrimoniali. Lo rammento come se fosse ieri, una sera di primavera ancora piuttosto fredda. All’epoca dimorava in un vecchia casetta a fianco della Pieve. Entrati in un andito freddissimo, ci sedemmo al suo tavolone, pieno di libri, riviste e un fiasco di vino, quello buono di quelle campagne. Di lato svettava un vecchio televisore e un videoregistratore. Niente in quella stanza era in ordine, eppure tutto sembrava avere un suo ordine speciale. Una stufa a legna con un ciotolino a scaldare rendeva appena tiepido l’ambiente.
Ci pensò lui a scaldare le anime di due innamorati forte, a benedire con umanità la nostra unione e farci capire che dei corsi religiosi standardizzati non gliene importava un fico secco.
Uscimmo da quell’incontro e da pochi altri che si fecero, ogni volta con un senso di felicità che non so descrivere. Il 3 aprile ci unì in matrimonio, quasi scusandosi di fronte ad un uditorio venuto, per una volta, in buona misura da Firenze. Lui, capace di tradurre il vecchio ed il nuovo Testamento direttamente dalla fonte greca, segnalando cattive interpretazioni della Conferenza episcopale, tutt’altro che involontarie.
Come dimenticare il suo martellare sul fatto che il “diavolo” non è belzebù con la coda e con le corna, semplicemente richiamando l’etimologia della parola, ovvero: ciò che divide. Ciò che divide le unioni, le amicizie, i popoli.
Don Dano Stefanini se ne è andato la mattina del 4 novembre 2011 per una crisi respiratoria dovuta al suo povero cuore, ricolmo di amore ma un po’ acciaccato. La Domenica al suo funerale centinaia di persone tristi, una comunità rurale stretta intorno ad un uomo buono, generoso e saggio. Ci mancherà tanto, ma lo troveremo sempre dentro al nostro cuore e nell’insegnamento che ci ha dato.
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25/04/2012 19.28