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QUALCOSA DELL’AMERICA CHE NON
AMO
di Davide Sparti
Io sarei americano, per passaporto, e per via della famiglia di mia
madre (ma si tratta di una sola generazione). Ebbene, io non
mi sento tale, se non per poche cose che sono anche valori ebraici, come
la propensione alla mobilità geografica (l’esodo è il gesto
fondativo degli USA), il wandering, la transnazionalità.
Ma c’è qualcosa degli americani - anche degli europei lì
emigrati da una generazione - che li rende impercettibilmente ma anche
così chiaramente americani. Qualcosa che io non amo
(a partire dalla passione dei cubetti di ghiaccio, comprati a pacchi).
Come posso amare un paese dove percepisci il capitale nella sua potenza
nuda, dove persino il palato è plasmato dal capitale, e dove però
ogni città ha quartieri (neri, di solito) in cui il reddito è
40 volte più basso di quello medio? Dove esiste persino
una gerarchia fra i poveri: gli hoboes (lavoratori migranti), i
tramps
(migranti senza lavoro) ed i bums (stanziali) ?
Se vai all’Art Institute di Chicago, finanziato dai macellai,
noti che i mecenati non si sono limitati a segnalare il loro nome con piastrine
vicino ai quadri come in tutti gli altri musei. No, qui le
tele sono organizzate in funzione dei donatori, non degli artisti!
In una sala trovi i quadri donati dal signor X, tra cui Picasso, Hopper
e Matisse, poi, dieci sale più in là, fra i quadri regalati
dal signor Y riecco ancora Hopper! Epoche lontane e pittori
incompatibili sono riuniti dal mecenate. Nel museo d’arte soggetto
non è l’artista, ma il mecenate.
Non posso amare un paese dove l’ideale è vivere nella casetta
unifamiliare di proprietà, separata da un prato dalle casette altrui,
e dove si gode di TV e consumo vorace di trash food. L’idea
soggiacente è quella di un’ illimitata disponibilità e di
una sfrenata voracità: cibo accessibile a tutte le ore e in tutti
i luoghi (per strada, in metropolitana, nel pullman, all’università,
in auto in attesa del semaforo verde...).
Non mi riconosco in un paese in cui le stazioni di treni (che sono
state sempre e solo gestite da compagnie private) sono ormai dei luoghi
da visitare, come vecchie chiese, o, peggio, sono shopping Malls
(a St. Louis, Memphis, Chicago, ad esempio, shopping centers che
sostituiscono la piazza come luogo di incontro - oltre ad essere più
brutti delle piazze, ad una certa ora chiudono: sono privati).
In USA mi sento defraudato del mio amato treno! Oltretutto,
per costruire i binari ora arrugginiti hanno disboscato foreste sconfinate.
Oggi trionfa il capitalismo su ruota, soprattutto automobilistico, più
individualistico, più familista. Sai che io amo la bici.
La macchina è un involucro di metallo che ti chiude ed isola da
suoni e dal contatto: è un walkman all’ennesima potenza.
Come posso amare paesi dove le città non hanno un downtown,
dove la periferia non è più periferia di un centro (che non
c’è) e si ‘autocentra’. L’idea americana non è
l’urbanità ma la suburbanità (in Europa almeno la parola
‘suburbio’ ha una connotazione negativa). Proprio perché
insignificante, il suburbio si difende con l’uniformità e l’autosegregazione.
E poi non dimenticare che questa forma di esistenza umana (il suburbio)
è stata resa possibile dall’automobile, dato che esclude qualsiasi
sistema di trasporto che non sia l’automobile. Il suburbio
americano è pensato e costruito per mamme-mogli-casalinghe, che
dovrebbero vivere felici lontane dall’ansia del lavoro, della città,
degli sconosciuti, e che a forza di fare tutto in macchina con/per i propri
bambini si trasformano in chauffeuses. Ma questa vita
auto e casetta è una trappola, anzi, una specie di campo di concentramento!
In America, proprio grazie ai suburbs, dove si lavora non si abita, e dove
si abita non si lavora. E’ così negato tutto ciò
che per me rende attraente il vivere urbano, ossia il fatto che siano contigui
ufficio, casa, negozio, teatrini d’avanguardia, ristoranti asiatici, un
locale di blues, cinema alternativi e altre urban amenities che
si accavallano. Il suburb è invece il regno della
separazione: di giorno si svuota così come la notte è disabitato
il centro degli affari. Lo so, lo so... In periferia
ci sono spesso molte zone verdi, l’aria aperta, persino qualche bosco ed
alcune fattorie... Va bene, ma questi sono i vantaggi degli
svantaggi, e poi, come disse Alfred Döblin, “che cosa sono io, una
mucca?” Rispetto a certe periferie nordeuropee in America è
peggio: nessun segno di vita reale a eccezione di macchine in movimento
qua e là, i cui passeggeri vivono nel loro mondo piccino, solitario,
dominato dall’onnipresente televisione e climatizzato. Tutte
attività passive e non creative in questa sorta di deserto che si
estende per miglia e miglia.
Un paese in cui di fronte agli alti casi di intossicazione alimentare
(famoso il caso del virus Ecoli nel 1993, in cui morirono varie persone
che avevano mangiato ad un fast-food di Tacoma) il governo riduce i controlli
(il governo stanzia soldi per analizzare un animale su 300 invece che uno
su 5), un paese che ha adottato lo slogan di McDonalds (dappertutto e sempre
lo stesso sapore), in cui la dimensione, il colore ed il sapore sono standardizzati
(se il sapore è troppo ‘definito’ si discosta dalla norma, meglio
allora un non-sapore), questo paese non è il mio.
Dell’America non mi piacciono né l’amore divorante per la
proprietà privata (presente anche in Italia) e nemmeno le case,
che sono leggere e consumano una quantità enorme di energia per
la regolazione termica. Di nuovo la voracità di legna,
di acqua, di asfalto, di energia. L’assurdo lo vedi nel deserto
californiano, dove per lavare l’auto o il giardino ogni casa consuma una
quantità d’acqua letteralmente insensata. Niente fa
capire quanto è irrazionale e ingiusta l’America quanto le casette
del deserto californiano, dove ognuna ha un praticello verde circondato
da una infinita desolazione di pietre e sabbia, terra morta di sete, un
verde conquistato con migliaia di litri di acqua versati - a scopo estetico
- su un fazzoletto di terra. Le case di proprietà si
chiamano real estate, ossia proprietà reale, come se il resto
fosse irreale o finto. Invece finta, o fragile, è proprio
la proprietà: per comprarla occorrono mutui enormi da restituire
in trent’anni, con la conseguenza che tutti vivono con l’ansia di non farcela
e di venire espropriati (anche perché in America si è sempre
licenziabili dall’oggi al domani; i diritti dei lavoratori non sono mai
arrivati...). Per questo sono tutti costretti ad essere ottimisti.
Se poi hai avuto la fortuna di pagare tutte le rate sei ormai già
vecchio, sei in pensione, i tuoi figli sono emigrati, la tua casa è
troppo grande. Hai passato la vita a pagare la tua casa che,
nella migliore delle ipotesi, sarà venduta... E poi
in America ci sono i grattacieli, che sono forse belli (a volte), ma che
non amo perché di notte muoiono, diventano come fossili: essi negano
la città - i contatti - perché sono essi stessi una città
chiusa, che è alta e basta, anzi, che deve essere più alta
dell’altra.
Non mi piace nemmeno l’assenza di voci critiche. In
America si ricorre molto più spesso all’exit: quella marca
di automobile non mi piace, l’abbandono, cambio auto, ma cambio anche la
casa, la scuola, il partito. Cosa c’è che non va?
Anzitutto, fare sentire la propria voce e protestare è più
costruttivo ed efficace; fa sentire il proprio malcontento e cerca di migliorare
la qualità (della scuola, dell’auto, ecc.). Nessuno
protesta più per i treni: prende la macchina, e così i treni
peggiorano sempre. Capisci? In secondo luogo, è
di nuovo il modello del mercato a trionfare. Cambio casa e
non porto appresso nulla: svendo tutto e riparto da zero, ricompro tutto
nuovo. E’ la logica dell’usa e getta. Quante voci
critiche ci sono negli USA? Domandiamoci quante teste di politici
potenti sono davvero cadute per corruzione? Pochissime.
Si cade per scandali sessuali, o per intercettazione (Watergate),
non per il denaro incassato. Il corpo è più maligno
del denaro. Il denaro e la ricchezza sono sempre buoni, ed
in USA conta non come lo guadagni ma quanto ne hai. Non a caso
gli anni Sessanta sono stati l’unico periodo nella storia americana in
cui stampa e TV ebbero un ruolo realmente critico, per esempio nella guerra
del Vietnam. Da allora, niente. Nessuna protesta
contro la guerra in Iraq, nessun vero dissenso contro Reagan (a parte Noam
Chomsky).
Non mi piace lo stato ultraminimo, che delega tutto al mercato,
di modo che anche il sapere è governato dall’economia, e che mercato
e cultura sono legati (pensa ai costi delle Università, che creano
subito un sistema di diseguaglianze). Posso immaginarmi che
fra poco si arriverà a pagare anche per la protezione personale:
chi non compra un contratto di protezione se sarà assalito per strada
non sarà soccorso dalla polizia (così come oggi è
curato solo chi paga). Non mi piace che sia diventato senso
comune considerare tutto ciò che è pubblico come inevitabilmente
più inefficiente e corrotto di ciò che è privato,
come se il mercato fosse più trasparente della politica, ed il potere
del capitale più ‘giusto’ del potere politico.
L’America è poi un paese razzista. Il razzismo
bianco è ossessionato dall’incubo del maschio nero stupratore che
violenta la donna bianca, mentre per secoli (pensa allo schiavismo) è
stato il maschio bianco l’unico stupratore a violentare la donna nera.
Questo meccanismo di inversione è simile a quello per cui il coniuge
adultero è più geloso, perché proietta sul partner
i propri comportamenti. La discriminazione sessuale è
sempre stata asimmetrica negli USA. E’ più forte il
tabù contro il rapporto (non parliamo del matrimonio) donna bianca-uomo
nero che non quello contro uomo bianco-donna nera. A differenza
di Londra o Parigi, vedi pochissime coppie miste negli USA.
Nonostante anni di violenza e soprusi nei confronti dei neri (pensa al
modo in cui furono uccisi i leader dei Black Panters nel Maggio del 1970:
la polizia ha sparato 90 colpi, loro nemmeno uno, e Nixon ‘vendette’ la
storia che la polizia si era dovuta difendere!!! - solo dopo scoprirono
che aveva mentito il governo federale, aveva mentito il procuratore di
Chicago, aveva mentito la polizia ed aveva mentito il laboratorio criminale),
ecco, nonostante queste violenze, mai nessun leader politico ha compiuto
un gesto come quello di Willy Brandt, in ginocchio davanti alle vittime
della guerra nazista. In America un nero su quattro finisce
in prigione fra i 18 ed i 25 anni, tanto che il carcere diventa quasi un
rito di passaggio.
E poi c’è la politica, o meglio la non-politica.
L’America è un paese in cui non si può scioperare (non c’è
mai stato uno sciopero nazionale), in cui i sindacalisti bravi sono arrestati,
ed in cui la violenza gratuita della polizia è senza pari.
Colpa delle gang giovanili? No. La polizia ha bisogno
delle gang per aumentare la propria fetta di bilancio comunale.
I politici ne hanno bisogno per dimostrare che si battono contro la criminalità
(e d’altra parte le gang hanno bisogno dei politici per allentare la pressione
della polizia nel quartiere). Un altro piccolo esempio.
Siamo a Chicago, nel 1968, giorno della convention del partito democratico
(e casualmente anche il giorno in cui i sovietici invasero Praga).
Data la protesta contro la guerra nel Vietnam, viene schierato un apparato
militare e di polizia folle: 25.000 forze di difesa, che cominciano a caricare
il migliaio di pacifisti, a picchiarli (anche passanti, donne, anziani
e giornalisti furono picchiati), ad arrestarli (700!) e processarli (a
Bobby Seale, uno dei leader delle Black Panters, fu impedito di avere un
avvocato d’ufficio ed anche di difendersi da solo: fu legato alla sedia
ed imbavagliato in aula per tutto il lungo processo). Uno degli
attacchi della polizia fu filmato e trasmesso in TV, tanto che Die Welt
ha scritto che la convention dei democratici è stata più
violenta dell’invasione sovietica! La sproporzione fra la forza
di polizia ed i manifestanti rivela il terrore americano (simile a quell’israeliano
ed a quello staliniano) nei confronti di complotti e cospirazioni.
Ogni embrione di protesta viene ridefinito complotto all’ordine costituito,
possibilmente con il concorso dello straniero (ora i sovietici, ora gli
islamici, comunisti, negri...).
Infine l’ingenuità degli americani, che pensano al loro paese
come al paradiso, e quindi considerano la povertà o la corruzione
dei misteri inspiegabili. In Europa, che è ancora
vecchia e feudale, sì che possono darsi corruzione e povertà,
ma qui da noi, nel continente dotato di risorse inesauribili, in un sistema
politico libero e democratico, come possono esistere la povertà
e la corruzione? C’è qualcosa di commovente e di patetico
nella fiducia degli americani nell’equità del mercato e nella giustizia
del sistema politico, come quella di chi nel Settecento pensava che
grazie alle ferrovie i popoli in guerra avrebbero potuto finalmente conoscersi
fra loro smettendo di combattere, non considerando invece che i treni avrebbero
trasportato più rapidamente i cannoni!
Concludo con una nota sorprendente: lo sai quale è il primo
gruppo etnico negli USA? I tedeschi!!! E’ incredibile
ma vero, più degli inglesi e degli irlandesi.
Mail to: gicomma@libero.it
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