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In memoria di Sebastiano Timpanaro
IL MATERIALISMO E LA LOTTA DI CLASSE
“…la fragilità biologica dell’uomo non potrà – a
meno di avventurarsi in ipotesi del tutto fantascientifiche - essere veramente
superata…Se una prima emancipazione dell’uomo dalla natura ha avuto inizio
da quando esso ha cominciato a lavorare e a produrre (e continua a svilupparsi
via via che si sviluppa il progresso tecnico), una seconda, qualitativamente
diversa, avverrà solo con l’instaurazione di una società
d’eguali, cioè col famoso salto dal regno della necessità
al regno della libertà. Ma anche questa seconda emancipazione non
libererà l’uomo dai suoi limiti biologici”.
Nello scantinato di un albergo di Firenze, dove si servivano pasti
a prezzo convenzionato per gli studenti, leggevo durante la primavera del
1968 il n. 37 dei “Quaderni piacentini”, uscito qualche mese prima, e riflettevo
su queste parole di Sebastiano Timpanaro. Era una replica ai vari interventi
che avevano seguito il precedente articolo, Considerazioni sul materialismo,
pubblicato sulla stessa rivista circa un anno prima. Verso la fine
del ’68, quando già il movimento degli studenti aveva aperto gli
occhi e la mente di molti di noi, solipsisti, idealisti e romantici, sulla
realtà del mondo e sulle sue contraddizioni, di Timpanaro sentivo
parlare da Domenico De Robertis, come massimo specialista del pensiero
leopardiano e come uomo riservatissimo e timido tanto da non poter sostenere
una lezione di fronte a un gruppo di studenti.
La particolarità dell’uomo e la forza delle idee spingevano
a saperne di più. Seguii lo sviluppo della discussione sul materialismo
sino al terzo articolo del 1969 Engels, materialismo, “libero arbitrio”.
Quell’anno, grazie ai buoni dell’Opera universitaria, acquistai la seconda
edizione di Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano e
nel 1970 la raccolta dei saggi Sul materialismo, entrambi pubblicati
in una collana di Nistri-Lischi diretta da Lanfranco Caretti.
Così avvenne che, mentre tanti si formavano alla lotta di
classe leggendo Lettera a una professoressa del priore di Barbiana,
altri, una minoranza, leggevano Marx avendo presente la lezione di Timpanaro.
E questa lezione trovava terreno fertile non solo in chi condivideva il
pessimismo leopardiano riguardo alla condizione umana, ma anche in
chi aveva attraversato la solitudine e la disperazione autodistruttiva
di Cesare Pavese. Costoro sapevano che la lotta rivoluzionaria contro il
sistema capitalistico per realizzare una società di eguali non significava
immediatamente che il processo rivoluzionario avrebbe costruito la felicità
degli individui. Ed erano diffidenti verso il volontarismo di quei gruppi
che si costituivano come chiese separate dalla società per prefigurare
l’uomo nuovo, ma anche verso l’apologia delle società socialiste
dell’est europeo dove si negava ogni conflitto che non fosse artificiosamente
provocato dal permanere di elementi borghesi.
Timpanaro dava voce e idee alla confusa insoddisfazione di costoro,
che pure spendevano la parte migliore del loro tempo nell’organizzazione
della lotta di classe. Ribadiva il valore conoscitivo, filosofico-scientifico
e politico-culturale insieme del materialismo, criterio di spiegazione
unitaria della realtà: “Senza conferma e approfondimento del
materialismo (quell’approfondimento che in campo marxista fu intrapreso
da Engels) il marxismo diventa una filosofia da laureati in lettere o da
filosofi puri, efficace sempre come denuncia polemica dei miti della società
del benessere, ma incapace di fare chiarezza sul problema del soggetto
della rivoluzione e delle spinte che portano alla rivoluzione stessa (e
che non possono essere delle spinte puramente volontaristiche)”. Difendeva
la scienza sperimentale contro Althusser, che disprezzava l’empiria
e approdava alla negazione dell’individuo come entità fisio-psichica
relativamente indipendente, e contro le tendenze idealiste e spiritualiste
che si andavano affermando anche all’interno della stessa scienza moderna:
“ogni
disconoscimento della biologicità dell’uomo porta a un contraccolpo
spiritualistico, perché si finisce per forza per attribuire allo
spirito tutto ciò che non si riesce a spiegare in termini
economico-sociali”. Si opponeva, denunciandone gli aspetti idealistici,
alle commistioni spurie del marxismo con le teorie alla moda, come lo strutturalismo
e la psicanalisi. Vedeva bene, con largo anticipo sui tempi, quando ancora
solennemente si riaffermavano i sacri principi della rivoluzione socialista,
che “in qualsiasi movimento politico la degenerazione teorica viene
dopo che ha già preso piede una pratica opportunistica”.
Per quelli di noi che nello sviluppo del movimento dopo il ’68 vedevano
emergere la miseria dei leaderismi, quest’uomo giusto e schivo che esponeva
le sue idee con tanta chiarezza, non poteva non essere compagno e maestro.
Contro le morali della pura interiorità e contro la tetra esaltazione
del sacrificio fine a se stesso ci ricordava che “lo scopo ultimo dell’agire
umano è pur sempre la felicità” e che l’edonismo,
da non confondere con l’individualismo borghese, “è la base di
ogni etica scientifica”. Così come contro la degenerazione della
“socialdemocrazia autoritaria”, causata dalla delega permanente rilasciata
dalla base ai dirigenti, proponeva la democrazia diretta da realizzarsi
per mezzo del “superamento di fatto della distinzione tra rivoluzionari
intellettuali e non intellettuali” e di “un’educazione che miri a formare
persone responsabili e libere in senso scientifico e non mitologico, consapevoli
dei mezzi atti a raggiungere la maggiore felicità possibile e consapevoli
del carattere sociale e non individualistico di tale meta e dei mezzi per
raggiungerla”.
Poi me lo ritrovai compagno di partito durante la breve esistenza
del PdUP, in cui erano infelicemente confluiti il PSIUP e il gruppo del
“Manifesto”, diversi nella pratica e nella strategia politica: l’uno privilegiando,
nella sua parte migliore, la militanza di base, il movimento; l’altro teso,
più che a costruire il nuovo partito, a indicare al PCI quali fossero
la tattica e la strategia giuste da seguire. Nella fredda e fumosa sala
di via de’ Pepi, Timpanaro seguiva attentamente la discussione e
molto di rado faceva una domanda o diceva una frase di commento. Quando
la riunione era sciolta, allora continuava la discussione con un gruppetto
di compagni e, nella situazione informale, rivelava sempre la ferma
chiarezza delle sue posizioni e, insieme, l’interesse sincero verso i punti
di vista degli altri, non sottraendosi alla polemica quando la riteneva
necessaria.
La sua militanza, sempre di base e defilata nella pratica, intensissima
invece e di primo piano nella battaglia delle idee, testimoniava l’esigenza
di un impegno nella lotta di classe coerente con le premesse teoriche che
andava elaborando e che postulavano la necessità di costruire un
partito capace di guidare, o almeno di tenere aperta, la prospettiva di
una rivoluzione socialista in Italia (e nel mondo).
Com’è noto, questa linea politica e culturale nel corso degli
anni ’80 è stata sconfitta e molti intellettuali e leaderini non
hanno perso tempo per liberarsi sbrigativamente di qualsiasi idea di cambiamento
dei rapporti sociali e di produzione, e persino della propria storia
personale, allo scopo di saltare così alleggeriti sul carro dei
vincitori. Di questo opportunismo, che si rifiuta di vedere l’evidenza
dell’ingiustizia e dello sfruttamento imperialistico e che nega la possibilità
stessa del conflitto, Timpanaro ha provato disgusto. Con la forza delle
idee e con passione l’ha manifestato in numerosi interventi (l’ultimo nel
2000 su un numero del Ponte) e nelle conversazioni private.
L’incontravo ogni tanto, di pomeriggio, in via Ginori e ci fermavamo
a parlare. Grande era la sua ira contro i progressivi revisionismi che
avevano condotto la sinistra socialista e comunista italiana a non essere
più tale, neanche di nome, consegnando inerme la classe lavoratrice
negli ingranaggi del capitale imperialistico. Non risparmiava neanche le
critiche al Partito della Rifondazione Comunista, ogni volta che ne notava
i cedimenti verso la linea controriformista dei vari governi espressi
dalla coalizione di centrosinistra. Esprimeva una grave preoccupazione
per la libertà dei popoli e per il destino stesso dell’umanità
a causa del dominio incontrollato degli Stati Uniti d’America su tutto
il pianeta. Perciò aveva aderito con piena convinzione all’Appello
per l’istituzione di un Tribunale penale internazionale che perseguisse
i crimini di genocidio e contro l’umanità commessi in Guatemala
durante gli anni della guerra civile. Per raccogliere la sua adesione all’appello
sono andato a trovarlo e per l’ultima volta l’ho salutato.
Con poche eccezioni, questo Timpanaro, impegnato nella lotta di
classe, non è piaciuto a coloro che, in occasione della morte, di
lui hanno scritto sulla stampa e che di fatto lo hanno censurato, sminuendone
l’importanza nella cultura italiana ed europea del secondo Novecento.
Così invece voglio ricordarlo, perché avere presente la qualità
del suo impegno nella battaglia culturale e politica è la condizione
necessaria per comprendere nel vero valore anche la sua grandezza di intellettuale
e di studioso. Vorrei insomma evitare al caro compagno e maestro, visti
i tempi che corrono, il destino da lui stesso denunciato a proposito
dei più ostinati materialisti dell’Ottocento, compreso Leopardi,
cioè di essere collocato nel grigio e affollato calderone degli
“enfants du siècle” in cui il materialismo freddamente esibito
in tutte le opere pubblicate e la militanza socialista si scioglierebbero
al calore delle magnifiche sorti del capitalismo imperialista.
Giovanni Commare
( Il Grandevetro, n.155, dicembre 2000 - febbraio 2001)
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