COME TARDANO A TARLARE QUESTI SOGNI
La nuova raccolta di Tommaso Di Ciaula
di Margherita De Napoli
“Come tardano a tarlare questi sogni”: questa frase, rubata ad una
poesia edita nel 1980 ed ora ripubblicata nella nuova raccolta Il cielo,
le spine, la pietra (edizioni Argo,pp.63, L.10.000) di Tommaso Di Ciaula
, mi sembra emblematica del suo modo di essere nel mondo. Egli vorrebbe
regalare alla gente, come disse in un’intervista di tre lustri fa, “una
scintilla, una manciata di sogni, di calore, di stelle, di allegria, di
magia”. Questo desiderio si scorge anche dietro la silloge che oggi segna
il ritorno dell’autore sulla scena letteraria dopo il romanzo Ali di
pietra.
Attraverso la scrittura il Di Ciaula cerca di raggiungere
il suo ideale di “Unità e Bellezza” e sa anche il prezzo alto che
dovrà pagare per soddisfare questa sua ansia di “cielo” che mantiene
acceso quel suo continuo sognare; perché struggimento e dolore accompagnano
la tensione creativa durante il travaglio che porta a dar forma poetica
all’utopia che gli ribolle dentro. Il poeta sembra essere stato partorito
dal ventre della madre Terra, e pur se reciso il cordone che ne faceva
un solo corpo con essa, conserva in sé l’impasto di tutti i suoi
elementi. Con la terra ha un rapporto che è quasi carnale, olfattivo,
umorale e vive fin nelle ossa i cicli di vita e di morte, generazione e
corruzione della natura. Si ha la sensazione che il poeta veda proprio
nell’interruzione di quel dialogo, nella frattura della originaria complicità,
la causa dello smarrimento dell’uomo contemporaneo. La linfa a cui può
attingere il Di Ciaula e che rende fecondo il suo linguaggio è la
vitalità istintiva, quella natura selvaggia, ispida che non si è
lasciata imbolsire dalla logica consumistica “ dell’avere averi” che ci
fa vivere in un mondo di merci e che inevitabilmente porta ad amministrare
anche la vita affettiva alla stregua di puri scambi economici.
Il vuoto emotivo diventa così la realtà nella quale
la nostra coscienza, sradicata, galleggia. Tommaso Di Ciaula col suo ultimo
lavoro dà uno schiaffo all’inconsistenza del mondo virtuale regalandoci
parole piene, corpose (quasi a poterle addentare per sentirne il sapore),
traboccanti di significati. Quelli del Di Ciaula sono versi diversi perché
privi di quell’intellettualismo dal quale si lasciano sedurre alcuni autori,
sono versi che dissotterrano i ricordi dall’oblio cui il tempo li aveva
condannati consegnandoli al lettore rivestiti di fantasia, sono versi che
suggeriscono di avvicinarci con umiltà, con l’ingenuità dei
sensi, alla terra perché accarezzandone “i suoi fianchi grassi”,
le sue zolle, ritroveremo il contatto con la nostra stessa pelle.
Il commento de La Repubblica riportato sulla quarta di copertina
guarda alla struttura formale del linguaggio poetico dell’autore, alle
sue “operazioni” di costruzione stilistica, ma credo che nel Di Ciaula,
e questa è la sua forza, non esistano fratture tra forma e contenuto,
perché il “naif” è la sua identità, la sua essenza,
e questa informa di sé tutto il lavoro artistico. Ne è prova
il fiuto che egli ha avuto nel riconoscere e valorizzare il talento modugnese
di Maria Trentadue, pittrice dall’anima “naive”. Alcune immagini dipinte
dall’autore sono molto belle, quasi elettrizzanti: “si dice che verrà
la notte sul dorso di una rana…”; “i pugnali dei briganti a sgozzar lune
sui prati”. Hanno un’energia misteriosa, evocativa, sembrano visioni oniriche;
momenti di magia che richiamano atmosfere felliniane. Il territorio dei
simboli è privilegio di chi mantiene un dialogo costante con il
proprio inconscio, sede degli archetipi che appartengono all’umanità
e compito dell’artista è comunicare questi frammenti di verità
capaci di spezzare le catene della dimensione reale di pietre e spine e
di traghettarci in una dimensione spirituale di libertà e assoluto.
Tommaso Di Ciaula, Il cielo, le spine, la pietra
(Poesie scelte: 1959-1995)
La vecchia
Ammiro la vecchia pazza,
la fanatica delle galline
che si barrica in casa,
e chiude e richiude finestre:
non vuole vedere la luna,
accende e riaccende candele,
dialetta con le ombre
e borbotta come una pentola rotta.
Ammiro la vecchia pazza
la fanatica della treccia
nel giardino accumula
immondizie e feccia,
la fanatica della scopa.
Topi e lenticchie
sbiadito è il drappo rosso
muore la vecchia nel fosso.
Ammiro la vecchia che annega nel fosso.
Dietro la porta
La mia ragazza
guarda la luna
mangia la mela.
Ieri notte non le potevo contare
i capelli nella lana,
la pallina rossa nella stanza
seminava sangue di gazzelle.
La mia ragazza
guarda la luna
mangia la mela.
Ieri notte ho contato
chilometri di rose sul suo corpo.
Dietro la porta
la canzone azzurra del vento,
dietro la porta
il fischio antico dello zappatore
e il canto tragico del gallo mattutino
arruffato di penne e di sogni.
La solitudine e l’estate
Il cardo solitudine.
Un calabrone urlando
Mi trafisse al palo della luce.
Attesi una manciata di brividi:
il calabrone
trafitto nella polvere,
il cane randagio
impiccato di nebbia,
i pugnali dei briganti
a sgozzar lune sui prati,
la calura del giorno
ad esplodere nel pozzo.
Il carro solitudine,
la lanterna arancia,
nel fienile
una falena
mi diventò fanciulla.
Datemi un varco
In questo mare di gente
ho perso la pista dei fiumi,
ho perso la pista dei boschi
ho perso la strada del sole
in questo mare di gente.
Gente!
Datemi un varco,
non pestatemi
non alitate suo mio volto
tutta la vostra rabbia,
fatemi trovare le strade
che ho sognato e che cerco:
datemi un varco.
Io sono l’uomo dei forni
Io sono il dio vulcano dell’officina:
quello che vi acceca
con zaffate di fumo,
che vi soffoca
con sulfuree nubi
e vi spaventa
coi fuochi coi lampi
Io sono l’uomo della tempera
dalle larghe cicatrici,
giorno per giorno
tra questi olii
tra questo fuoco rosso
la mia pelle si copre di piaghe
facendomi somigliare
ad un piccolo mostro.
Impazzisco di caldo
tra i forni l’estate,
meglio l’inverno
io sono l’uomo
di questo piccolo inferno
io sono l’uomo delle scottature
queste sono le mie avventure.
Dalla finestra rotta
Aspetto che la vigna
nella finestra cambi colore,
cambi direzione il vento.
S’impigliano cornacchie nel cielo.
Si dice che verrà al notte
sul dorso di una rana
e di una stella,
il vento suona un macabro flauto
dalla finestra rotta.
Mi canta sperduto
Imputridiscono stelle
sui viottoli polvere
tesse sui muri
senza pace fili di ragno lichene
premono i miei passi
su sassi umidi erba sterile
minacciosa all’erta
non ho più voglia di andare
anche se da anni
mi canta sperduto
un albero di mandarino aldilà del pozzo
assetato
aggredito da spine blu
torno indietro
un’artista nei sandali
m’ingoiano e mi stritolano
i fantasmi innumerevoli
della notte che s’avvicina
tossicchianti
nel carrubo
dietro il muro.
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