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Antologica: Odon von Horvath
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TROPICO DEL CANCRO di Henry Miller Quando abbasso gli occhi su questa fica fottuta di puttana
sento tutto il mondo sotto di me, un mondo che barcolla e precipita, un
mondo usato e levigato come il cranio di un lebbroso. Se ci fosse un uomo
che osasse dire tutto quello che ha pensato di questo mondo, non gli resterebbe
un piede quadrato di terreno su cui stare in piedi. Quando un uomo si fa
avanti, il mondo gli crolla addosso e gli rompe la schiena. Ma ne restano
in piedi sempre troppe, di colonne, troppa umanità purulenta perché
fiorisca l’uomo. La sovrastruttura è una menzogna e le fondamenta
sono una paura trepidante. Se a intervalli di secolo compare un uomo con
uno sguardo disperato, affamato, nell’occhio, un uomo capace di rovesciare
il mondo per creare una razza nuova, l’amore che egli porta al mondo si
muta in bile ed egli diviene un flagello. Se a volte incontriamo pagine
esplosive, pagine che feriscono e bruciano, che strappano gemiti e lacrime
e bestemmie, sappiate che son pagine di un uomo alle corde, un uomo a cui
non resta altra difesa che le parole e le parole sono sempre più
forti della menzogna, peso schiacciante del mondo, più forte di
tutte le ruote e i cavalletti che i vili inventano per infrangere il miracolo
della personalità. Se un uomo mai osasse tradurre tutto quel che
ha nel cuore, mettere giù quella che è la sua vera esperienza,
quel che è veramente verità, io credo allora che il mondo
andrebbe infranto, che si sfascerebbe in frantumi, e né dio, né
accidente, né volontà potrebbe mai radunare i pezzi, gli
atomi, gli elementi indistruttibili che componevano il mondo.
Cose, certe cose dei miei vecchi idoli mi fan salire le lacrime
agli occhi; le interruzioni, il disordine, la violenza soprattutto, l’odio
che hanno destato. Quando io penso alle loro deformità, allo stile
mostruoso che han scelto, alla flatulenza e alla noia delle loro opere,
a tutto il caos e alla confusione in cui han sguazzato, agli ostacoli che
si sono accumulati attorno, provo un’esaltazione. Tutti si son voltolati
nel loro sterco. Tutti quelli che troppo hanno elaborato. Tanto vero che
quasi vorrei dire: “Mostratemi un uomo che troppo elabori e io vi mostrerò
un grande uomo!” Quel che si dice la loro eccessiva elaborazione è
carne mia: è segno della lotta, è la lotta medesima con tutte
le fibre che vi si attaccano, l’aura, l’atmosfera stessa dello spirito
discorde. E quando mi mostrate un uomo che si esprime perfettamente io
non dirò che egli non è grande, ma dirò che non mi
attrae…Per me, gli manca l’eccesso, lo smodato. Quando penso che ciò
che l’artista implicitamente si propone è di rovesciare i valori
costituiti, far del caos che lo circonda un suo ordine, seminare lotta
e fermento, sì che per un rilancio emotivo quelli che son morti
rinascano alla vita, allora io corro con gioia ai grandi imperfetti, la
loro confusione mi nutre, il loro balbettamento è musica divina
ai miei orecchi. Nelle pagine ben gonfie che seguono le interruzioni io
vedo cancellata ogni meschina intrusione, ogni norma sporca, per così
dire, di vigliacchi, bugiardi, ladri, vandali, calunniatori. Vedo nei muscoli
gonfi delle loro liriche gole la fatica che occorre per volgere la ruota,
per riprendere il passo dove uno ha ceduto. Vedo che dietro i fastidi e
le intrusioni quotidiane, dietro la meschina scintillante cattiveria dei
deboli e degli inerti, c’è il simbolo del potere delusivo della
vita, e colui il quale crei l’ordine, colui il quale semini lotta e discordia,
giacché è pieno di volontà, quell’uomo sempre dovrà
andare alla gogna e al patibolo. Vedo che dietro la nobiltà dei
suoi gesti si nasconde lo spettro della ridicolezza totale – che egli non
è solamente sublime, ma assurdo.
Henry Miller, Tropico del Cancro, trad. di Luciano Bianciardi. Feltrinelli, Milano 1962. |