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Giovanni Commare
MI ERO DIMENTICATO CHI ERO
Mi ero dimenticato chi ero: uno venuto dalla periferia del
mondo alla città, un ragazzo di campagna del secolo passato, della
famiglia il primo che aveva studiato; uno bravo, su questo non ci fu dubbio,
il più dotato, e pure la pupilla degli occhi del padre che vide
in quel talento la riscossa sul fato e sulla storia; non buono, certo,
anzi di tante cattiverie consumato, come ogni ragazzo vissuto nelle strade
e nei cortili tra il profumo del mosto e il tanfo dei covili.
Mi ero dimenticato chi ero: uno che correva, per gioia, ah
quanto correva, e per paura, sulle spiagge deserte e infuocate di
un paese che non si può nominare, di fronte a un mare che non si
sa più raccontare; correva e correva perché alto e leggero,
perché sul collo gli alitò una storia, e un destino, mentre
incendiavano i cieli le bombe della guerra fredda e la pelle bruciava come
scorza d’ulivo; così s’annunciò all’età moderna contemplando
dal dorso di un mulo e tra il latrare dei cani il volo radente dei caccia
americani.
Mi ero dimenticato chi ero: uno che non aveva radio né
televisione, uno che credeva ai film e ai libri che leggeva, e ci visse
nei viaggi di Ulisse e nelle pianure del West sospeso come Pinocchio nel
Paese dei balocchi; forse per questo il mondo delle cose e le cose del
mondo sempre gli strinsero il core e qualcosa sempre mancò alla
felicità (e gliel’avevano detto che i libri fanno male!); uno che
dopo “Rocco e i suoi fratelli”, e dopo un terremoto, in Cinquecento
portato sull’Autostrada del Sole tra le nebbie dell’Appennino e di Bologna
entrò nel secolo e nella civiltà moderna.
Mi ero dimenticato chi ero: uno che credette all’ordine del
mondo, uno piuttosto astratto (ma senza furore), uno che si lasciò
prendere dalle parole, che dissero innanzitutto la bellezza e l’armonia
e poi suonarono égalité e fraternité, mentre
giungevano le voci dell’Africa nera a dire in modo nuovo libertà
e zio Michele si ritirava dalle adunate e dai riti della società
raccontando di ebrei impiccati ai balconi di Danzica, della fine dell’innocenza
e della danza.
Mi ero dimenticato chi ero: uno che se ne andò
dal borgo di contadini e pecorai, non perché avesse la puzza al
naso, anzi sempre ci sguazzò nella terra e nel letame (prima che
si cantasse “nascono i fior”), ma perché teneva lontane dalle piazze
le ragazze, perché sapeva già il mondo grande e oscuro più
di quanto gli avessero insegnato e l’odore dei morti e la ferocia dei vivi,
per ogni morto ammazzato quante verità e nessuna pietà e
perché ormai con i suoi propri occhi si vedeva, non solo come ospite
o come figlio.
Mi ero dimenticato chi ero: uno che fu un campione della
volontà, esaltato dall’esantema dei giovani di quel tempo, la smania
di cambiare il mondo e gli uomini; uno contro il dominio delle merci, uno
che cercò e vide, con gli occhi dei molti, il migliore dei
mondi possibili.
Mi ero dimenticato chi ero: uno che avrebbe potuto
uccidere, per dovere di giustizia e per passione, perché la vita
è lotta e solo la forza conta; uno che non lo fece e poi non se
ne pentì, perché la morte lascia il segno sui vivi e il mezzo
impone la sua legge sul fine dell’azione, mentre il conflitto permane e
senza fine si riproduce; uno che conobbe il carnefice dentro di sé
e lo tenne a bada guardandolo negli occhi (erano occhi comuni, occhi di
ragazzini ignari del dolore) con in mente qualcosa di banale, di stupido
persino, che somiglia all’amore di figli e di ragazze.
Mi ero dimenticato chi ero: uno che tornò in quel
paese, insieme a pochi altri, abbracciato dal vecchio segretario di sezione,
a dire che “mio” non significa “ci faccio ciò che voglio”; uno a
cui fu risparmiato il tradimento del padre, mentre le rampe dei missili
risalivano la costa; uno che cercò il nome di quell’orrore e di
quel brutto, mentre esplodevano le nuove bombe della vecchia pace e i giusti
venivano derisi.
Mi ero dimenticato chi ero: uno che non dimenticò
che tanti avevano dimenticato le ragioni delle loro azioni e quasi intero
il loro passato; uno che salì dal mare alla montagna per insegnare
il poco che aveva imparato, insieme all’illusione del po’ di felicità
riconosciuta, perché la misura del mondo non era data, perché
l’intuizione di bellezza e la nostalgia di giustizia avrebbero fatto –
se ne convinse – qualcuno migliore, a cui fosse chiaro che uomini nuovi
non sono mai nati e che le cose più orribili si fanno per amore.
Mi ero di dimenticato chi ero: e ora non potevo più
sapere s’era tutto vero. Forse era tardi. Forse non era tardi, ora che
la figlia domandava chi ero. Mi ero dimenticato che forse ero uno che coltivò
la terra per ricavarne frutti, meravigliato che il seme germoglia pure
sotto un sole che brucia.
(Il Grandevetro, n. 158, 2001)
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