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GIORGIO LUTI
LA VOLONTA' DI PERSEGUIRE L'UTOPIA
La poesia di Giovanni Commare da L'azione distratta
a La distrazione
Conoscevo L’azione distratta, che avevo esaminato
con molto interesse, ora di fronte al nuovo testo, La distrazione,
mi si è ripresentata nel cuore, nell’anima e nella mente tutta una
serie di riflessioni che mi sento in dovere di esternare. L’azione distratta
e
La distrazione sono testi che corrispondono alla personalità
e alla natura di Giovanni Commare, che io conosco da 30 anni e in questo
periodo la stima e l’affetto non sono mutati. Questi due libri potrei dire
che me l’aspettavo. L’ho conosciuto come studioso serio di letteratura,
come giovane impegnato nella battaglia politica di quegli anni, che non
erano certo facili né per loro giovani né per noi che insegnavamo;
ma sono stati anni che ci hanno cementato, come generazioni diverse, alcuni
insegnanti e alcuni dei nostri allievi che si sono avviati per una strada
giusta che noi sentivamo di sostenere, quella di misurarsi con ciò
che stava loro davanti. Commare era uno di questi. La tesi che egli discusse
con me, Vittorini e "Il Politecnico, ci riportava sì agli
anni dell’immediato dopoguerra ma affrontava anche il problema della funzione
dell’intellettuale, il rapporto tra l’intellettuale e la realtà
che lo circonda; una visione della realtà e della cultura di quegli
anni che credo Commare abbia condiviso.
Proviamo a entrare nella dimensione, nel meccanismo di quest’ultimo
libro. Anche L’azione distratta mi era piaciuto molto per quella
costruzione architettonica – lo dice molto bene Gianfranco Ciabatti nella
Postfazione – che chiude tra due parti prosastiche la dimensione poetica.
Il primo mi aveva affascinato per il suo ritmo mitico, ma il secondo
mi ha messo più alla frusta, per così dire; mi ha costretto
a misurarmi di più con quello che l'autore dice e soprattutto con
il linguaggio poetico che egli ha scoperto.
Un punto mi riporta all’inizio degli anni ’70 quando Commare
ha discusso la sua tesi: la volontà di perseguire l’utopia, di far
sì che la propria funzione di uomo e di poeta si realizzasse in
una dimensione utopica, che esiste e deve esistere aldilà dello
scontro, della violenza, dell’odio, aldilà degli atti tristi o infami
o disperati che la nostra vita, nonostante la distrazione, ci pone di fronte.
Sono venuto a testimoniare a Giovanni Commare la mia ammirazione
non solo per essere maestro, insegnante e poeta, ma per quello che la sua
voce poetica ha saputo esprimere. In questi ultimi anni raramente ho incontrato
un’esperienza come quella che Commare ci ha presentato che mi ha messo
così alla frusta: mi ha obbligato a rimisurarmi con tante di quelle
che erano le mie aspirazioni, con la mia volontà di sopravvivenza
e di lotta, nonostante tutto quello che mi avveniva intorno. La sua poesia,
soprattutto La distrazione, obbliga a misurarsi con se stessi. Distrazione
è la forza che la poesia esercita sul vivere, sull’azione, però
è anche qualche altra cosa: questo termine, considerato nell’ottica
della poesia di Commare – come aveva già visto Ciabatti nella precedente
opera – può essere visto in due sensi: come liberazione, da un lato,
ma anche, dall’altro, come abbandono di fronte alla violenza: liberazione
e abbandono allo stesso tempo.
C’è un filo rosso che lega L’azione distratta
a La distrazione, ma in quest’ultimo Commare ha toccato un registro
espressivo che, in poesia, è abbastanza raro incontrare oggi.
Non è il ripiegamento sull’io, non è nemmeno la volontà
di colloquio tra io e tu, è qualcosa di più profondo e di
più nascosto, che viene emergendo. Lo diceva Ciabatti per L’azione
distratta, ma ora andrebbe riaffermato con più forza: non c’è
bisogno di inventare un linguaggio che esprima qualcosa di particolare,
di personale, che avvolga nella stessa spirale mito e violenza, amore e
odio, appassionamento e abbandono, non c’è bisogno di sperimentalismo,
perché nasce da dentro la sperimentazione. Nel primo libro c’era
una certa oscillazione tra mito e ribellione, in La distrazione invece
tutto si amalgama in qualcosa che parla con una lingua sua, una lingua
che non ha punti di confronto. Ciabatti parlava, per L’azione distratta,
di suggestioni quasimodiane, e può essere vero, suggestioni che
in quest’ultimo libro non ci sono più. E se ci sono, sono state
digerite, sottomesse a una volontà di conquista interiore, personale,
a una volontà di realizzare la propria funzione nella società,
nel tempo, con il respiro che la poesia concede, tanto da diventare
voce autentica del poeta.
Già ne L’azione distratta c’erano poesie di
straordinaria incidenza, come Per gli ottantanni di Bilenchi, ch’era
un omaggio straordinario reso a ciò che Bilenchi ha significato
per lui (ma anche per me e per altre generazioni), o l’invettiva all’Europa.
Ma in quest’ultima raccolta il discorso si è allargato e la voce
di Commare si è dilatata in uno spazio, in una dimensione più
ampia, si è universalizzata. C’è, per fare un esempio,
la conclusione della poesia che si intitola Non è il mare
in cui il discorso va aldilà di ogni di definizione di parte, c’è
qualcosa che fa in modo che l’utopia diventi significato di vita, che l’utopia
s’inveri:
" perché il mondo e me, io mi domando,
ha fatto dio, se soli poi li lascia
morire, mentre lui, per sé,
malvagio,
eterno, esiste senza alcuna ambascia?
"
ascolto, e mi riconosco a mio bell’agio
nelle figlie che s’aprono alla vita,
tremenda, come la tempesta che le invita.
Ecco io ho difficoltà a trovare nei poeti della
sua generazione versi che si avvicinino a questi.
Ho voluto testimoniare a Giovanni Commare che non l’ho
dimenticato, come non dimentico i miei allievi a cui ho voluto bene e che
mi sono stati vicini, ma che soprattutto come poeta mi ha prodotto una
sorpresa che è però una verifica. E questo non mi dispiace
affatto.
Pistoia, 29 settembre 1999
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