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LA DISTRAZIONE
(1998-1999)
ECLOGHE DEL CORSALE
IL CORSALE: GIORNO D'AFRICA
1
La bella precarietà che fa la terra leggera
del cielo sorprende la sera come un velo
che scende sul lavoro degli uomini, ed è quiete
per lo straniero che giunge alla collina;
nella pianura la città inerte si congiunge
alla radura di sterpi che fu fabbrica,
dove i gatti vanno a caccia di piccioni e serpi
sotto la scritta che stinge sul muro di cinta,
VIVA LA CLASSE OPERAIA; di dolmen e rovine
il passato è un miraggio, per chi siede nell'aia
a viaggio compiuto, senza scorie e rimpianti,
come il pane e formaggio che mangia con gusto,
contento di sé e dell'ora acerba d'incanti;
nell'assenza degli dei e degli eroi, il tempo
si compie, come vuoto ch'avanza, e la mente
s'adagia nella dissipazione della parola,
sola compagna del corpo presente.
2
Dell'universo inermi ai soli indifferenti,
con la verità del corpo e la parola
che s'aggiunge al circolo perverso del dire
e del fare, e fa che noi non siamo di noi,
non siamo solo io; e viene un tempo,
che il corpo si tende verso l'altro
e la mente annusa l'odore di un tu,
altro e uguale, in cui, diversi se stessi,
perdersi e ritrovarsi; oscuro essere al di qua
dell'ombra, al di là il confine dell'indistinto,
e, di là dell'accadere e della forza, la madre
dell'ombra nel cupo cerchio della totalità.
Non siamo di noi oltre la linea dell'occidente
padre dell'io e del sé coscienza e ragione
spaesati in quest'altrove oltre il confine
della specie e di se stessi immemori.
3
Gode il prato solatio ch'esibisce, osceno,
i crocus residui del tempo ameno, quando
fa pace e guerra marzo all'umida terra
e, alle prime tepidezze, ne disserra
margherite stellate e rossi papaveri,
ch'ora s'aprono al sole e al seme lieve;
gode d'un vago piacere, ed è godere proprio
di piante e fiori e ogni varia erba,
che solo, vago, possiamo immaginare
nel non luogo che la stagione ci riserva,
a primavera, o nell'estate che finisce,
maturando, ed è colore ed essenza e odore
che pure a noi giunge e ci stordisce;
la casa oggi non s'addice al nomade
che giunge alla collina, senza nome,
monade innominata di candore.
4
Nella stalla d'urina e sterco lo straniero
si muove ad agio, come guerriero in fuga
che cerca scampo in una selva ombrosa;
in granuli ascende la luce, polverosa,
alle bocche di lupo, e nella frescura
delle ragnatele e dei fiori di salnitro
un grigio secolare riposa l'occhio;
alla giovenca immobile, viva e bianca,
che biada rumina, alla mangiatoia, e crocchia,
il volo dell'angelo fa tendere l'orecchia;
l'uomo non è più solo, nell'innocenza
che contempla il mondo in cui si specchia,
altro da sé, ma l'altro, ora, è presenza
e luce, lui, nello sguardo chiaro di madonna,
domina e materna, che nasce a vita nova,
di seducente natura, e si rinnova
nell'angelo bestiale, alla frescura.
5
Fila dal tenue rosa lucente materia, un cosmo
d'umore, un fiore, una danza di pieghe carnose,
come rose che aprono, e chiudono, un mistero,
una pioggia di luce precipita, e domanda
il vero rischio di sapere questo, e amare,
come mare che cede alle dita e preme,
dolce, la carne, che molle s'apre e freme.
6
Dove arriva la luce, dove il sapere dell'uomo,
temerario, nel muggire fesso della carnalità
che s'impiaga, nel precario stare del sole;
dove l'anima cede a lucide astrazioni
e la pervinca cela scarti d'emozioni;
dove, madonna di rare parole, siedi,
nel bel compasso delle gambe e dei piedi;
dove s'erge, su un dolce monticello,
una sottile striscia di ombre strambe;
dove si bagna la piega delle labbra
e luccica, bava, come lumaca all'alba;
dove s'inchina l'uomo, casto, e prega
tutte le litanie delle antiche prefiche;
dove s'incunea bianca scia di mare,
come barca, tagliando le onde schiumose,
i petali scuri, e le fresche mimose,
dove s'attacca l' uomo di livore e amore.
7
L'anima, immobile nei meati del corpo,
non ode più la grida del mondo,
le mani di madonna, nel profondo, aprono
la carne del capro, trasparente, e docile
d'essere nato all'espiazione;
ed ecco l'orrore d'aprirsi alla vita,
che lucida rosseggia, nel meriggio,
e subito s'imbruna in una sera;
trasumanare è questo stranire, grigio e mesto,
con un walzer d'astri, da vecchia balera,
mentre la marea sale e, come corpo,
tra terra e cielo, inerme, lo introduce,
dal buio delle cose al giorno luce.
8
Non c'è male, non c'è destino nell'indistinto
confine del mogano che lo sciamano ha inciso,
e in cui ristanno, indifferenti in viso,
la grande madre e il maschio, lucidi per l'uso,
ai riti lustrali, ai baci delle streghe
che lisciano venature, tastano le pieghe
nell'immobilità tiepida del legno, un segno
colgono del tempo che si annuncia, una rinuncia
alla foia dei maschi che l'irrorano di seme,
alla gioia della carne che fu fibra del bosco
e, adesso, geme per l'insana passione;
trasumanare nel regno del corsale,
dove tutto è sacro, tutto profano, anche
l'umano modello d'armonia, cui la specie
è restia, nella feroce astrazione che
della vita è il sale.
9
Vanno, lui e lei, quasi danzando
intorno al ceppo della madre, quando
s'incendia il giorno d'Africa,
e si fa l'aria aprica
sulla collina di crocus, e papaveri;
contro il vento africano
si tengono per mano,
signori veri del giorno
che agli ulivi fa guerra,
sugli ori dei clivi danzando
intorno al ceppo bruno, che sarà
il letto della casa austera,
tra pergola di fragola, e cimasa,
quando leggera risplenderà la terra,
sola, nella sua bella precarietà.
IL CORSALE: NOTTE D'AFRICA
1.
Nuovo mattino, dove tu canti e danzi
nel silenzio della mente e del cuore,
lasciandomi in pegno nostalgia;
perché tanto la vita è così,
una meta, un segno quale che sia;
perché tanto alla vita altro che noi
un senso lo diamo, anche solo nel sogno;
perché tanto ti amo, dici, nel sonno;
siamo stati felici, triste è il risveglio,
mentre le tamerici sbianca la brezza
che sale, e di meglio non si può fare
che ricordare, le ombre che vivono
nelle case di sabbia portate dal vento;
grate compagne della notte, restate
nel calore del corpo, nella terra,
nella parola, un'altra volta ancòra.
2.
Dunque l'altro figlio eri tu,
la figlia perduta, la paura di perderti
era gioventù, la tua, finché sciocco
nell'arco il tempo scoccò la possibilità,
l'età, dico, la tua, che mi espone
al ricatto della memoria, a farmi
lontano dalla storia figlia.
3.
Secca sulla scala la tua dalia
e la giunchiglia marcita nella sala,
torna, vuota, la mano che ti cerca,
al viso, segnato dal giallo dei gigli
di mare; umile, come un musulmano
prono verso l'oriente della Mecca
da questo deserto d'agavi t'imploro;
sei tu, madre, che torni a trovarmi,
perché ingrato non sono,
con le natiche flosce e piagate
che la vecchiaia impudica offrì in dono
al Cristo, che pregò dignità (il riscatto)
imprecando le povere carni;
sei tu che torni, col figlio ballando,
col figlio coglione, in un film
sulla miseria borghese, sulla rivoluzione;
meglio non esserci, meglio la nostalgia
che avere generato una nuova solitudine;
lo vedi, mi lascio incantare dal suono
delle parole, in cui canti e danzi,
ho persino imparato il verbo sprimacciare,
per alimentare il ricordo, con gli avanzi;
ma il nido spappola dei tritoni il suolo,
sente l'odore del latte nel catino
e non eviterà la trappola, del tuo bambino;
lo vedi, torna la vedova consolata,
la vita insopportabile, insopportata,
il meglio di sé nella vestaglia unta
che quanto c'è da vedere svela,
sulla vita maledetta dei figli,
poiché ha deluso, la sua colpa rigetta;
e si scopre porgendo un geranio
dal tuo balcone, dove nasce il sole.
4.
Lo conosco, questo odore di bruco,
quando passi all'altra il testimone
che contende curiosa alle ombre
il ricordo, movenze di voci evocando,
le croci della tua vita alla tramuta,
l'altra figlia perduta, sorella, che sa
niente da dimostrare, se non il segno,
per farmi dispetto, la meta, e ci gioca
con gli occhi ridenti, la danzatrice,
con l'ombelico dorato che bevo d'un fiato;
non mi hai deluso, dico, senza ritegno,
hai vinto giocando da sola, mostrando
un ginocchio su quella strana giostra,
intorno intorno girando sotto la pioggia
a Holden felice guardando.
5.
E guardo felice
come triste è il risveglio,
e in pegno mi tengo
la dolce nostalgia
che mi avete lasciato,
che in voi ho lasciato,
ombre belle, e carnali,
in cui mi riconosco,
ombre mie velate,
che a me, con amore,
sempre amate venite,
vane, mai quiete
nel vostro sonno, o sogno,
quello breve d'un attimo
che stanotte m'è dato,
o venute in cerca di senno,
d'un segno breve d'eternità,
del corpo desiderato
ombre.
IL CORSALE: LA GUERRA
Vieni, mio sposo, all'ombra del
vecchio carrubo,
concedi al tuo corpo riposo, e piacere alla mente,
prima che il giorno finisca sul mare viola e io
resti sola, per lunghe notti, in attesa d'aurora,
senza mano o voce che consola il tuffo del cuore;
perché sarai lontano, lo so, amore, in un paese
straniero che arido già ti fa per la tua terra;
ma qui non c'è più pace, e la giustizia
è oblio.
( Vieni, mio sposo, all'ombra del vecchio carrubo )
Più ancora, oggi, è arido il mio cuore,
per la guerra
che divora gli uomini, le opere, e la giustizia,
in questa terra che ho seminato con sudore,
ora terra di dolore, a me, a te, gioia della vita,
perché la speranza è finita in lutto,
per la parte
che tutto voleva cambiare con arte e misura;
ora si fa più dura la tracotante violenza,
di serpi una discendenza ogni famiglia alleverà.
( Più ancora oggi e arido il mio cuore per la
guerra )
Godi, mio sposo, ancora l'ombra del vecchio carrubo,
pure se qui, nel cavo tronco, s'annidano le serpi,
sui dolci ulivi, sulle viti umili il tuo sguardo correrà,
l'ultima volta, prima che il sole tramonti, ma
il lavoro ben fatto di te serberà memoria,
anche se gli avidi segugi del divoratore di doni
i grappoli coglieranno, gravidi di mosto, e le olive,
questo resterà il posto dove il tuo occhio vive.
( Godi, mio sposo, ancora l'ombra del vecchio carrubo
)
Gli occhi sono stanchi di sole, la mia mente confusa
per il sonno di morte, attendo la notte un presagio,
un paesaggio, nel sogno che trapassa questo giorno
rosseggiante di vendemmia, e, sulle opposte rive,
i contadini che covano vendetta tra i filari,
mentre nei tini il mosto fermenta, matura il tempo,
allegri bambini in trionfo, serrati nel grido,
assisi, come avvoltoi, sui corpi degli uccisi.
( Gli occhi sono stanchi di sole la mia mente confusa
)
Godi all'ombra del carrubo la sposa vicina,
riposa, e dalle cupe angosce libera la mente;
guarda all'orizzonte, fumano i bianchi casolari,
ciocchi d'ulivo e tralci nei focolari bruciano,
parca cena preparano le donne e ai lari della casa
un sacrificio; per la chiocciola che sulla brace
sfrigola ride un bambino; di te parleranno, finché
capaci di storia gli uomini saranno, e di memoria.
( Godi all'ombra del carrubo la sposa vicina )
Non dà pace a chi parte la memoria, la storia,
non come sacerdote ulula la vittima del sacro,
meglio dimenticato, pruno, cardo, sasso della terra,
non agnello che consacra i lupi vincitori; ecco,
cloccare senti i carri dei potenti usurpatori
che prendono possesso dei campi, assegnati dal re;
per il sentiero, solo a noi noto, alle case avviamoci,
ma prima amiamoci, al fresco del carrubo, ultimo dono.
( Non dà pace a chi parte la memoria la storia
)
Godi, mio sposo, il corpo della sposa, ultimo dono
del carrubo contorti rami che fu tempio e fortezza,
tua via al cielo sulle ali di gazza, nido spinoso,
che domina l'acropoli e l'azzurra distesa del mare;
andrai, dopo, nell'aria autunnale, alla terra più
arida,
come gelida ombra di dio, solo, con mente confusa;
memoria lontana, l'assenza resta, che dipana il tempo,
senza storia, sogno di primavera, un bimbo dispera.
( Godi, mio sposo, il corpo della sposa ultimo dono
)
Lungo la siepe dell'agavi l'ultima volta andremo,
sole, e luna, di settembre, che imbianca la campagna,
sete, e acqua di mentuccia che seduce la cicala,
assetata di rugiada; compagna è a noi la spada,
signora del nulla, e, qui, nulla più accade;
da oggi,
felice è chi ha perduto ogni speranza nella
culla;
a chi è saggio, ecco, il mio saluto, il buon
viaggio
a me, a te, che corri nella notte, in bicicletta.
( Lungo la siepe dell'agavi l'ultima volta andremo )
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