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POESIA DELLA CONTRADDIZIONE
di Giovanni Commare
Dal 1985 al 1989 Gianfranco Ciabatti ha pubblicato tre libri di poesia
che gli hanno meritato non solo la stima di affezionati lettori, ma anche,
nonostante la censura ideologica delle patrie lettere, l'attenzione di
alcuni critici qualificati, come Luperini e Fortini (quest'ultimo in un'intervista
a Panorama lo ha definito uno dei nostri migliori poeti). Di questi
critici, alcuni, che hanno conosciuto l'autore come politico marxista prima
che come poeta, incontrano qualche difficoltà a riconoscere gli
aspetti della sua opera non connessi più o meno direttamente alla
lotta politica e ideologica.
E' vero che per Ciabatti la poesia, come la vita, è luogo
della contraddizione, in primis della contraddizione tra parola
e prassi: la parola, anche quando è strumento di lotta, è
un pallido sostituto della prassi in cui confida per annullarsi del tutto
perché di molto ancora la parola deve far piazza pulita
per spianare alla prassi la strada di farla tacere.
Il suo destino è il silenzio, il suo limite la stessa necessità
che essa sia. Ma pure in questa apodittiça affermazione si avverte,
oltre il richiamo a una visione materialistica e dialettica, 1'eco di una
nostalgia, di un tempo in cui, l'essere è gesto, atto e non parola.
E' vero che per Ciabatti è necessario abolire lo stato di
cose presente - come impongono l'evidenza, la logica, la bellezza, la giustizia
e la sopravvivenza della specie - e che perciò, in quanto rivoluzionario,
come coglie le aporie e le contraddizioni della prassi, così egli
coglie e denuncia le mistificazioni della parola poetica e la falsa coscienza
dei poeti. Ma, se ciò è vero, non è tutto. Perché
la contraddizione prima da cui muove il discorso di Ciabatti è ontologica,
è la contraddizione essere/nulla, vita/morte, pensiero/non pensiero,
libertà/necessità. La vita è lotta; in essa il soggetto
afferma la propria esistenza in quanto pensiero e azione contro la necessità
e la morte; egli si manifesta essenzialmente come volontà e dover
essere che resiste alla minaccia paralizzante del nulla pur sapendo che
è destinato a soccombere. Perciò nella poesia di Ciabatti
il tono dominante è dato dalla severità dell'imperativo categorico
di essere, essere per non morire.
Per comprendere l'originalità e la forza di questo scrittore
bisogna, dunque, non fermarsi all’analisi della 'tensione politica' che
anima la sua opera, bisogna andare oltre e mettere a fuoco quella che,
a mio parere, si può definire la "tensione metafisica", la quale
in Ciabatti nasce prima dell'altra.
În Preavvisi al reo (1985), opera prima
organizzata secondo una traccia autobiografica, il soggetto conosce nell'immediatezza
dell'esperienza che vivere è il risultato di un impegno etico (anche
la mia storia è responsabile) oltre la legge degli uomini e
della natura, che contempla anche il rischio della disfatta (Lamenta
più disfatte solo chi può vantare/ più sortite/ dalle
pareti della coscienza), perché è necessario sortire
dalla coscienza che consola. Ma conosce anche la pienezza dell'essere,
la gioia del corpo vivo e libero in rapporto con l'aria, la terra, il mare,
senza mai cedere alle tentazioni dell'universale e del sentimentalismo.
La condizione di "reo" si rivela con l'esperienza del carcere (l'autore
all'inizio degli anni Sessanta fu condannato per obiezione di coscienza
al servizio militare): condanna irrevocabile e irrimediabile del reo è
la solitudine, innanzitutto del corpo nello spazio, ma essa è anche,
orgogliosamente, la sua unica speranza, perché mentre, dentro, la
pena si sconta nel corso del sangue, tutto il di fuori ride con la sua
tremenda innocenza d'infante. Comprendiamo che "reo" e "innocente" non
hanno solo il significato del linguaggio giuridico (il gelo organico del
diritto): reo è colui che conosce la realtà delle cose nella
loro evidenza, innocente è colui che per ignoranza o per profitto
vive nella falsa coscienza, crede che il mondo sia come egli se lo rappresenta
ed è connivente con il potere. L'uso dei termini giuridici, già
nello stesso titolo, in Preavvisi al reo presuppone un tribunale
e dei giudici: per chi giudica secondo il diritto, che è una forma
della falsa coscienza, colui che si ribella è colpevole. ma per
chi si pone oltre la falsa coscienza, nell'al di qua del reale evidente,
il giudizio è capovolto. Allora l'atto d'accusa coinvolge il lettore
che si crede innocente e lo obbliga a confrontarsi con un punto di vista
altro. Programmaticamente, per Ciabatti il diritto di capire è presunzione
per coloro che vogliono raggiungere illesi il senso: per comprendere dobbiamo
essere disposti a rischiare, a essere feriti, a cogliere la contraddizione
fuori e dentro di noi, a uscire dall'innocenza della menzogna per diventare
“rei".
Il disvelamento del reale agisce con la forza della ragione nel
campo della necessità, che è proprio della lotta di classe
solo in quanto essa è parte della guerra dell'esistere, della
riluttanza alla morte, della guerra contro la non esistenza della quiete
simulata:
[... 1 e la risposta
in bianco della logica
ci coglie già infiammati, non ha presa sopra un accoramento
che preesisteva e ci lanciò sul vuoto
senza bisogno di altri motivi,
perché al fondo di noi arde annidato chi non vuole morire.
Nella riluttanza di chi non vuole morire c’è il nucleo del
soggetto, la definizione primaria e radicale (nel senso che attinge le
radici dell’essere) dell'uomo solo opposto alla natura delle cose:
per essere quello che sono, le cose
non chiedono il nostro permesso.
Per Ciabatti la natura non è né benigna né matrigna,
essa è indifferente sino ad apparire all'uomo cosa inerte, gelo,
nulla in quanto negazione del corpo-pensiero, immagine di morte che tutto
piega al suo dominio insensato:
Si tratta, per noi, di dar vita alla morte, di accendere il gelo.
Mutare la nascita in creazione: questo il compito dell'uomo,
che esiste come corpo-pensiero in uno spazio inanimato di gelo e di morte,
questo è il compito della poesia come l'intende Ciabatti.
Risponde quindi a un'intrinseca necessità l'attenzione dell'autore
verso i problemi della forma. Nel primo libro la sezione «Breviario
d'estetica» contiene alcuni dei più espliciti preavvisi al
reo. In essa la forza del lucido raziocinare si dispiega al meglio delle
sue potenzialità perché agisce in più coerente armonia
con la forza della passione, l'ondata d'amore (non dimentichiamo che in
Ciabatti rivoluzione rima con passione), che pone come referente
del dire, come sua necessità, le ragioni e il punto di vista dei
nati per essere al mondo. Da questa scelta di campo deriva per il
poeta l'obbligo di opporre al clamore scienza e prassi, di non eludere
la fatica del farsi capire, di avere chiaro l'ordine di necessità:
prima i fatti, le cose, poi le parole.
Non si può ridurre l'opera di questo autore, fin dal suo
primo libro, al fortino dell’ideologia politica, ma ci si deve anche sottrarre
alla tentazione di considerla il risultato di un volontarismo parossistico
e autocelebrantesi, perché la coscienza del limite in Ciabatti è
lacerante; essa si manifesta non solo come ironia e sarcasmo, ma anche,
e soprattutto, come disperazione e amore.
Persona è la mente che squarcia il limite, affermazione dell'io
che vede nascere il mondo per sé, ma anche, nello stesso tempo,
solitudine in compagnia del terrore, corpo unico bene certo,
limite varcato dall'amore che si rivela limite a sua volta.
La qualifica di fortino ideologico potrebbe adattarsi, e solo in
parte, a Prima persona plurale (1988), sottotitolato Non-poesie
civili o refutabili, in cui la rinunzia all’io per il noi (esplicitamente
noi proletari) è del tutto coerente al tema. In questo secondo libro
di Ciabatti la contraddizione è quella del sistema capitalistico,
è contraddizione di classe; gli interlocutori sono, da un lato,
i salariati, dall'altro, coloro che pensano di essere quello che pensano
e non sanno/ di pensare ciò che sono. La rinunzia all'io è
un risultato dell'educazione politica, della scienza imperfetta
(che non ti viene in aiuto
se non da chi precipita con te
per spingerti all'abisso necessario).
Eppure, anche qui, il soggetto singolare non si annulla mai del tutto
nella prima persona plurale.
1
Del 1989 è Niente di personale, il libro più
unitario di Ciabatti. Il titolo è tratto da un breve epigramma:
Grazie per la dedica
della bella poesia,
mi dissero.
Prego, non c'è di che,
niente di personale,
risposi.
La bella poesia è, per testimonianza dell'autore, Tempi,
che chiude la penultima sezione di Preavvisi al reo. Vi si dice
che ci sono tempi ai quali nemmeno agli amanti/ è dato sottrarsi.
"Niente di personale" non è tanto una locuzione di cortesia per
dire agli interlocutori che ringraziano “scusatemi, non ce l'ho con voi",
quanto l'affermazione che la poesia, come la verità, non è
niente di personale: loro non ne hanno né merito né colpa.
Come spesso avviene, il titolo non riassume tutta la materia del
libro, che è ampia e varia e che in qualche punto persino lo contraddice.
Dobbiamo leggere il titolo come una sorta di autolimitazione del soggetto
poetico e come una dichiarazione di poetica.
In Niente di personale i temi e le forme delle opere
precedenti hanno una netta evoluzione sia sul piano della tensione storica
e politica sia su quello della tensione che ho definito metafisica. E'
un fatto che le speranze di cambiare lo stato di cose presente, proprie
della parte che Ciabatti si è scelto, sono state sconfitte e, nella
seconda metà degli anni Ottanta, a nessuno dotato di ragione era
più consentito farsi illusioni. Cogliere un nesso diretto tra questo
dato storico e il radicalizzarsi del pessimismo ciabattiano è possibile,
anche se a me pare che gli annunci di questo sbocco fossero già
presenti in Preavvisi al reo e che su di essi solo parzialmente
abbia inciso la sconfitta di classe: le radici del pessimismo sono in Ciabatti
ontologiche prime che storiche. E' sua l'affermazione che non esiste metafisico
più coerente di un materialista dialettico.
Il libro si apre con una invettiva contro l'improntitudine e la
deformità spirituale, cui segue la sezione «La morte degli
umani» che è appunto una riflessione sulla morte.
La sezione «Catalogo della danza» è dedicata
all'estetica, «danza» è infatti metafora di «forma».
Si parte dalla pregnante affermazione autobiografica scelsi la poesia
per amore di precisione e si arriva a una definizione esplicita.
La scelta della precisione concorre a definire lo statuto della poesia
come strumento che per mezzo della
bellezza deve agire nella nostra vita; nella dimensione formale è
supposta l'ipotesi del bene del vivere, in essa si crea il mondo della
possibilità che è altro rispetto al mondo della necessità.
A scanso di equivoci, anche in questa opera si ricorda ai poeti la dialettica
del vero, l'esistenza di dominati e di dominatori, e dell’arte si denunciano
le ideologie che la vogliono valore universale e assoluto, mentre con la
menzogna ne celano la connivenza con il potere, specie quando negano di
essere, esse medesime, ideologie.
La poesia che dà il titolo alla sezione traccia il percorso
del poeta attraverso il catalogo delle forme e si configura come autobiografia
intellettuale. L'artista che vede l'inessenza dell’arte impara che può
compierla come paradosso e contraddizione svelandola nella sua realtà
storica e facendone mezzo di svelamento. Qui si trova un'affermazione fondamentale
per comprendere il percorso poetico di Ciabatti: Siamo giunti alla lotta
attraverso la danza, cioè attraverso la forma, la poesia. E’
giunto alla lotta cercando la bellezza, l'armonia. Perciò non si
comprende appieno questo autore se ci si limita a considerarlo «un
compagno che scrive poesie». Bisogna rovesciare l'assunto: Ciabatti
è un poeta che lotta per cambiare lo stato delle cose. Ed è
un combattente irriducibile.
Pur quando la prassi è impedita, il pensiero prosegue la
sua azione, che per Ciabatti non à solo conoscenza, ma la vita stessa
dell’uomo, e scandaglia il limite che separa essere e nulla, il proprio
stesso limite.
Da tale opera di scandaglio nasce la poesia Il corpo al suo pensiero
(come fosse cosa distinta), poesia di grande potenza. Il corpo
introduce il dubbio che l'abiezione sua e del pensiero non sia più
riconducibile alla storia e che essa trionfi ignara del proprio trionfo.
Il pensiero indugia nella risposta intento a schivare i colpi ciechi dei
quali è meritatamente fatto segno. Allora il corpo si rivolta nell'ultima
invettiva:
[... 1 e tu persisti
nell'odio verso ciò che, essendo eterno, eternamente
sarebbe ozioso odiare. E ti nutri di me
che mi rivolto e grido.
Il pensiero persiste nell'odio impotente verso ciò che è
eterno e intanto si nutre del suo corpo urlante, mentre il nulla immobile
riposa occhiuto/ nella sua totalità.
Di fronte al gorgo minaccioso del nulla, per colui che sa la grande
menzogna, la relazione con l'altro assume un significato nuovo, una
pregnanza di vita, per cui in Ciabatti, che pure conosce bene i limiti
del proprio io ed altri ne pone egli stesso, quasi - secondo qualche critico
- per mortificarlo, si ritrovano gli accenti di un Capitini:
devi trovare fuori
l' io che farai con l'altro
da te.
E in questo libro si leggono poesie d'amore che sono una liberazione
del sentimento e della parola; sembra che a tratti l'amore si liberi dalla
severità della ragione negatrice e riavvicini alla vita con immediatezza.
L'amore è ciò che resta dopo che il pensiero indagatore ha
frugato nello splendore terribile del cuore delle cose e ha trovato le
fauci divoratrici del nulla.
Ciabatti impara per sé e ci insegna 1'uso dialettico del
pensiero negatore, il gusto del gelo sagace della conoscenza che si oppone
al gelo del nulla, nella consapevolezza che il dire è impotente
se non è preceduto e seguito da una prassi; ci insegna l'arte della
precisione e dell'attesa in cui si manifesta l'istante disponibile e la
parola che lo nomina; la critica del sentimento, ma anche la gratuità
necessaria del dare la proprietà del nostro nulla a chi si ama.
Egli è maestro della contraddizione (è in gran parte vero
quanto afferma Fortini: che Ciabatti è patrilineare) e come tutti
i maestri, per chi non vuol sentire la lezione, fastidioso nei suoi
toni didattici e nell'insistenza ripetitiva. Ma c'è 1'urgenza della
verità, la rabbia per l'insidia del nulla che sembra incarnarsi
in chi, presumendosi innocente, non vuol vedere l'evidenza, in chi rende
più oscuro il presente e senza speranza il futuro, in chi negando
la bellezza accresce il male del vivere ai nati per essere ai mondo.
Il rigore morale riscatta anche i punti di caduta, che pure vi sono,
per esempio in certi accumuli di metafore, in un eccesso di astrazione
che, se eleva il registro linguistico, produce una perdita di senso. Le
sue prove migliori sono quelle in cui il lucido ragionamento si articola
in un preciso lessico referenziale e in una sintassi serrata, coincidente
con il ritmo stesso del verso, che perciò assume l'icasticità
del classico. E per la forza e l'originalità della sua poesia Ciabatti
è un classico del nostro tempo.
Egli ha assimilato e rielaborato sui piano stilistico le lezioni
non solo di Brecht e di Jahier, spesso citati a proposito di questo autore,
ma anche quelle di Leopardi e di Montale. Riguardo al primo si considerino
non tanto i riferimenti diretti (Il materialismo incompiuto di G. Leopardi)
o certe citazioni più o meno criptiche a proposito di natura, guerra
ed eterno, quanto il modello della canzone filosofica d'immagini e concetti
e della struttura ritmica che asseconda la sintassi del ragionamento.
Pure Montale, Montale classico, gli ha lasciato la sua eredità
d'immagini e di ritmo. Si confronti, ad esempio, questo incipit
di Ciabatti
E un giorno rividi gli uomini, d’improvviso
incrociati a un canto di strada
con quello montaliano
Forse un mattino andando in un'aria di vetro,
arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo
1...1
ma sarà troppo tardi; ed io me ne andrò zitto
tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.
Dove l'impronta non è solo tematica, ma anche ritmica.
Ciabatti non disdegna la rima, specie al mezzo, se rafforza l'immagine
e il discorso o se, per contrasto, crea ironia. Usa ampiamente, come artificio
retorico cui si deve in gran parte la «cadenza sacerdotale" (Fortini),
la cesura sospensiva, che sovente scompone l'endecasillabo; e non gli dispiace
nemmeno la bella variazione allitterante:
snidando scie di schiuma.
Si concede persino una poesia tutta costruita su chiasmi petrarcheschi
(Malgré toi). Insomma, un eclettismo mimetico che enfatizza
il ricorso alla tradizione a fini espressivi.
Fortini ha descritto in forma sintetica e precisa quella che chiama
la «macchinazione linguistica» di Ciabatti, sottolineando come
egli recuperi l'eredità alta e regia della lingua «per
parlare alle (o delle) vittime del re» e come, per correggere la
«cadenza sacerdotale”, faccia «cozzare il nobile e l'ignobile»,
due livelli di linguaggio parimenti alti, «quello, che Brecht chiama
"ignobile”, dell'economia politica e dei saperi tecnici e quello 'nobile'
e dunque schernevole degli arcaismi e dei latinismi».
L'elemento caratterizzante e unificante della sua opera resta la
lucidità del ragionamento che rivela l'evidenza della realtà
e ne coglie la contraddizione nell'atto stesso di nominarla.
(in Allegoria, n.14, 1993)
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