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GIUSEPPE PANELLA
LA CONGETTURA D’ARMONIA
La poesia di Giovanni Commare da L’azione distratta
a La distrazione
Voglio evitare di cadere nel pregiudizio di certa critica
biografica, perché il giudizio di valore spinge in un’altra direzione.
Giovanni Commare va inquadrato almeno da un punto di vista istituzionale.
E’ autore a tutt’oggi di due testi poetici. Li definisco in questa forma
un po’ vaga per le loro specifiche caratteristiche. Essi si configurano
come raccolte poetiche, ma sono in realtà due flussi poematici,
nel senso che sia la prima opera, L’azione distratta del 1990, che
La
distrazione del 1998, non sono puri e semplici testi poetici, poesie
d’occasione, frammenti riorganizzati poi in una raccolta. Si tratta di
due testi fortemente strutturati con scansioni precise e legate a una pratica
– direbbe Genet - del paratesto, cioè hanno dei titoli, degli eserghi,
un corpo di rimandi interni che fanno pensare a un’operazione strutturata
e volutamente articolata come un blocco unico. Il fatto che i due testi
abbiano titoli molto simili farebbe pensare a una filiazione diretta, che
pure c’è ma non è così stretta, così stringente
come i titoli farebbero pensare. In realtà tra L’azione distratta
e La distrazione c’è un salto, c’è una crescita,
c’è un campo di differenza nel quale la poesia si disegna uno spazio
diverso, non solo per motivi formali, che pure sono influenti. L’azione
distratta era un testo che partiva in prosa, ovviamente lirica, autobiografica,
memoriale, e aveva un andamento deliberatamente prosastico e non solo in
senso tipografico. Il testo poi si trasformava, scivolando verso la poesia,
come se questa fosse il suo prolungamento naturale. Alla fine ritornava
prosa, scrittura senza a capo. La distrazione invece non solo
è un testo interamente poetico, ma esibisce con forza questa sua
natura. E’ volutamente una raccolta di liriche, il cui meccanismo di rimandi
interni individua temi forti e denotati sulla falsariga di quello
che si suole definire in termini critici l’ “io lirico”. Se nell’Azione
distratta c’era il passaggio da un io esistenziale, che parlava
in prosa e raccontava le proprie vicende d’infanzia e di giovinezza, a
un io lirico, nella Distrazione lo spazio è tutto aperto
al discorso dell’io lirico. In questo spazio vengono fatti
precipitare i temi che nella prima raccolta erano demandati anche alla
prosa; la poesia insomma riconquista lo spazio che prima era stato demandato
alla prosa, forse perché sentiva il bisogno di appoggiarsi a una
narrazione, a un percorso diegetico. Di un racconto non si sente più
il bisogno.
Nella Distrazione l’oggetto specifico del discorso
è la ricerca dell’identità. Nella prima opera l’azione è
distratta ma è azione, spesso nella forma dell’elegia come nell’ottimo
Gli
ottant’anni di Bilenchi. La Distrazione, in cui l’azione
è inglobata nel termine che la designa, non ha più bisogno
dell’azione, non ha più bisogno di raccontare. Il passaggio in termini
denotativi è dal racconto alla descrizione. L'azione distratta
è il racconto di una storia di formazione, di un soggetto che alla
fine approda all’erranza: mettere una zattera in mare, viaggiare come un
novello Ulisse, che è poi il modello di tutti gli isolani i quali
per conoscere il mondo non possono che partire, varcare il mare (all’isola
si intitolano due sezioni del libro). Andando via dall’isola l’approdo
è la poesia. La poesia è il continente, la terra nella quale
si vivono delle avventure, che sono essenzialmente di carattere formale
o comunque sono leggibili come processi di appaesamento, di addomesticamento
di una materia che potrebbe risultare ostica. Infatti il ritmo impresso
ai testi della prima raccolta è tutto riflesso a livello di significante.
La ricerca appare quindi concentrata più sulle possibilità
espressive della parola, del significante, del modo in cui la parola viene
detta, che al livello di significato, cioè di quello che si vuole
comunicare. La distrazione, che nella descrizione dell’azione individua
un percorso più astratto, più concettuale, abbandona l’insistenza
sul significante per condurre l’indagine al livello di significato. Nell’Azione
distratta tutta una serie di processi, di passaggi, acquista tono di
canzone popolare, di ballata, c’è una pressione ritmica molto intensa
soprattutto nei punti in cui la parola non è solo espressiva ma
vuole farsi mitopoietica. Un ritmo da rullio di tamburi, una cadenza da
tam tam:
Porta dell’est
Porta al sole
Porta del colore
Porta il dolore
Porta dell’amore
Porta acqua e frumento
Porta del sole
Porta dell’est.
Una scansione ritmica molto forte in cui il livello del significato
è in secondo piano rispetto a quello del significante che assorbe
tutto il campo espressivo. Il significato trova il suo spazio nella dimensione
prosastica del testo che chiude l’opera, L’isola ancòra: Sud,
in cui l’erranza, il road moovie vincono la supremazia del significante.
E con questo rientro nella prosa il cerchio dell’opera si chiude. Come
se la poesia fosse una distrazione dal corpo principale rappresentato dal
racconto delle vicende, delle necessità, dell’io esperenziale.
L’aspirazione alla miticità, a una mitizzazione,
è indicativa del percorso sia del primo libro che del secondo. La
distrazione è un testo in cui abbiamo il trionfo del significato:
vuole essere pensiero che si articola in versi, in modo da essere più
espressivo, più esemplificativo, più essenziale. Vale il
principio enunciato senza scrupoli fin dall’esergo leopardiano: Tutto
quello che noi facciamo lo facciamo in forza di una distrazione (dal nulla
verissimo e certissimo delle cose) e di una dimenticanza, la quale è
contraria direttamente alla ragione. Dalla condizione d’infelicità,
secondo Leopardi, ci si può distrarre, si può fuoruscire
– non liberarsi - per mezzo della poesia. La poesia è un procedimento
mediante il quale il corpo, con tutte le sue affezioni, con tutte le sue
inesauribili aspirazioni, si contrappone direttamente alla ragione. Con
capacità illusoria riusciamo a produrre una forma di mente che non
è ragione come esercizio rigoroso e diretto della razionalità,
una forma di ragione che sta quindi in profondità nel corpo, nella
volontà, nel desiderio. Non è irrazionalità, così
come non è ragione come principio ordinatore, ma è sintesi
tra ragione, desiderio e passione.
Questa enfasi sulla passione, sul desiderio, sul corpo contraddistingue
la seconda stagione della poesia di Giovanni Commare , nell’ottica di un
ragionare per versi, che non vuole essere raziocinativo e si abbandona
al flusso di coscienza, al ricordo, ma anche all’invettiva. La vittoria
dell’Occidente porta come esergo una frase di F. Braudel: Le civiltà
non sono mortali. Distrutte o danneggiate, rispuntano come la gramigna.
L’Occidente, pur con le sue contraddizioni, nella sua “gabbia d’acciaio,
non si può sconfiggere e rispunta comunque come la gramigna; è
qualcosa che lo slancio di una generazione, alla quale lo stesso autore
appartiene, non è stato in grado di sconfiggere
e neppure di scalfire. Così in Maledetti i poeti l’invettiva
è contro una pratica poetica che sia lamento, voluptas dolendi,
abbandono al rimpianto o al pianto sulla propria vigliaccheria o sulla
propria incapacità; è insomma il rifiuto a essere poeta nei
termini tradizionali per cui l’io lirico non è tanto un progetto
fondativo di una soggettività più forte, arricchita dalla
capacità di assimilare passioni, sentimenti e desideri, che mi sembra
essere il progetto teorico che sta dietro questa poesia, quanto lamento
e compassione di sé.
Il testo si divide, volendo schematizzare, in una pars
destruens e in una pars construens. La prima è quella appunto contro
una concezione tradizionale della poesia, ma anche quella dell’invettiva
contro la situazione del tempo presente, contro la chiusura del cerchio
per cui l’Occidente ha trionfato sulle aspirazioni al cambiamento. La poesia
Gli
ottant’anni di Bilenchi alludeva proprio a questo, al silenzio dei
vincitori e alla presa di parola da parte dei vinti contro i vincitori
ai quali non si vuole appartenere. Anche la scelta di essere Dalla parte
di Ettore, di uno che ha legato la propria vita al mito, il simbolo
della virtù guerriera e del coraggio, che però è stato
sconfitto,
indica una scelta di campo ben precisa, che, seppure può essere
considerata ideologica, va ad irrorare la scrittura di Commare
e ne fa una sorta di controcanto che permette di preparare una linea forte
di resistenza. La pars construens è rappresentata dalla sezione
Immagini
(per un processo d’identificazione), che è un dialogo tra io
e tu e va nella direzione opposta a quella dell’io lirico tradizionale,
vittima semmai in questo secolo di un processo di disintegrazione, di disidentificazione.
Qui c’è invece un tentativo di costruzione dell’identità
che nasce attraverso il dialogo con un tu, che può essere letto
in chiave intersoggettiva, ma io tenderei a interpretarlo come un dialogo
tra "il piccolo me e il grande me", per dirla con Pirandello, cioè
tra due parti diverse che vogliono fondersi o comunque trarre linfa uno
dall’altro. Volutamente immagini, quindi non rappresentazioni poetiche,
ma flash, luccicare improvviso di frammenti che vanno a comporre uno specchio,
un mosaico, ognuno rappresentando una sfaccettatura diversa del soggetto.
C’è dunque l’aspirazione a ricomporre gli elementi del puzzle in
una figura unica o in una forma definita. In questo processo l’io ritrovandosi
si rafforza. Questo è possibile perché la poesia è
distrazione. Sembrerebbe un paradosso. In realtà la distrazione
dà parola a quelle pulsioni forti della poesia che permettono di
ricostruire un io superiore o comunque diverso e più forte di quello
proposto dalla logica della razionalità. Il quadro si ricompone
infatti, dopo le ultime epifanie dell’io, a conclusione del testo nel ricongiungimento
con l’altro. Ricongiungimento già annunciato nella poesia La
porta ed esplicitato in L’altro e oltre, il testo conclusivo.
L’accettazione di
chi è io chi è altro
tiriamolo a sorte,
sai che in fondo io è
un gran conservatore
si riconosce in ciò che esiste,
nella continuità,
altro è l’impostore,
la cosa nuova che cova
ciò che nega l’impotente
pretesa di unità;
ma non è niente, è uno
che gioca a rimpiattino
con quella bieca voglia
di dissoluzione,
un capriccioso che di rado
ride … un sapientino
che chiama in lizza
te, vecchio ragazzo,
in questa grande generale
genetica precarietà;
questo riconoscere i diritti dell’altro, questa volontà d’accettarlo
rende possibile interagire con esso in modo da ricostituire un’unità,
seppure precaria, in cui io è altro, in cui io e altro giocano a
rimpiattino rincorrendosi. Si pone insomma una congettura d’armonia in
cui i diversi aspetti, le pulsioni, l’amore, il sesso, si ricongiungono
e si risolvono in una sorta di progetto sinfonico.
La distrazione è tutta costruita al presente, vive
nella dimensione del presente; in certa misura azzera la prospettiva: non
c’è più il rimpianto, non c’è più la nostalgia
della stagione isolana, della solitudine, di un io che non si è
abbracciato a un tu. Direi quindi che apre una nuova prospettiva, uno slancio
successivo che sia mitopoietico e nello stesso tempo permetta di misurarsi
con i problemi e le situazioni del presente; una sorta di metodo mitico,
per dirla con Eliot, che mi sembra essere uno dei punti di riferimento
di Commare già in L’azione distratta, che consenta di costruire
la miticità all’interno del percorso poetico non più come
richiamo al passato, al legato classico, alla tradizione omerica, ma come
mitologia del presente. Una mitologia saldamente radicata in un io forte
che parla di sé non tanto in termini teorici quanto in termini concreti,
esistenziali, concrezione di desideri e aspirazioni. Una prospettiva che
ci auguriamo essere non solo di questo poeta, ma anche della futura
poesia.
Pistoia, 29 settembre 1999
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