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GIANFRANCO CIABATTI
PER CHI NON VA NE’ RESTA
Postfazione a: Giovanni Commare, L’azione distratta, Cesati,
Firenze 1990.
L'azione distratta si dice la parte centrale di questo libro:
fra un incipit, Isola, e una clausola, L'isola ancòra.
Due confini limitano dunque l'azione (distratta). E i due confini
hanno uno stesso nome: l'isola.
Così che viene da chiedersi se L'azione distratta avesse
il diritto di uscire dai suoi confini per nominare l'intero volume.
Ma ecco che l'interrogativo riguardante l'architettura del libro
si converte, per così dire, nel suo reciproco riguardante il sentimento
che vi domina: se il nome del libro non sia lo stesso che quello di un
lamento e di un grido. E questo apre altre domande.
Voleva l'azione distrarsi dai suoi limiti, o al contrario resistere
alla violenza della distrazione? E ancora: nel primo caso, fu delusa o
andò a segno l'intenzione? nel secondo, subita o respinta la violenza?
E il movimento della scissa domanda, generatore in progressione
geometrica di possibili nuove scissioni, si risolve poi nell'ultima definitiva:
se l'azione abbia lasciato l'isola o sia rimasta. (Poiché infatti
tale è la mia lettura semantica della dis/trazione).
Il sintagma del titolo non ci conforta. La risposta non esiste.
L'assenza di risposta è la poesia di questo libro. Tutte le corrispondenze
divaricazioni lacerazioni si mantengono: poeta/uomo, architettura/natura,
intenzionalità/spontaneità, pensiero/istinto, movimento/stasi,
rifiuto/accettazione, e si potrebbe continuare... azione/isola.
Per quanto lo si dichiari, non si sa se l'azione sia stata
distratta dall'isola. Il poeta non sa se abbia lasciato l'isola. O se,
avendola lasciata, lo abbia voluto o invece vi sia stato costretto. Né
in quale di queste alternative possa riposare il desiderio. Rimane nel
conflitto (nonostante la conclusione «esposta» in fine di libro,
come vedremo), al di là della, acutissima, nostalgia. Rimane nell'azione
e nel movimento, al di là del continuamente insorgente desiderio
di immobilità e di pace.
Ma allora c'è veramente un luogo (l'azione) dove la contraddizione
si scioglie, confutando tutte le precedenti illazioni? Non è così,
poiché infine si comprende: l'azione, presumibilmente e nominalmente
distratta, non che essere uno dei due termini confligenti, è
il luogo della incomponibilità del conflitto, dell'impossibilità
di scelta. Singolare ambivalenza - in questo battesimo che Giovanni Commare
amministra ai suoi frammenti - del nome: scelta del nome del conflitto
fra scelte impossibili.
A questa vite senza fine di contraddizioni deve lo scrittore la
sua forma. che, quando così nasce, quando per questo nasce, ha già
conquistato una parte della sua necessità. Poiché, dando
nome a questa condizione individuale senza presumere di sanarla, la forma
adombra, nelle lacerazioni del desiderio implacabile, un possibile diverso
movimento del mondo.
La realtà a latere, quale è la forma di fronte
al mondo, non è altra dal mondo, inaccessibile, ma vuole
diventare il mondo.
È straziante questo appello. Noi vogliamo diventare! Che
la nostra necessità non sia prigione.
Qui si compie un viaggio, apparentemente di andata e ritorno.
Proviamo a seguirne le tappe e gli incidenti.
Isola è il luogo della «divina indifferenza»:
la classicità pagana nella quale si quieta il sangue di una primordiale
estate - ma anche, bisogna aggiungere, per Commare, la nostalgia del mito
e il mito della totalità. L'eros fanciullo del racconto d'ingresso
(verso il quale gravitano anche i motivi degli affetti familiari e dell'amicizia)
diventa nelle poesie che lo seguono compostezza formale, così forte
da trattenere in musica solare anche gli inviti inderogabili e gli eventi
terribili: «non volgergli le spalle, il tempo è ora»,
«s'agita in grembo un tristo felino», «fumi di guerra»,
«so cosa porti di nero», «riponete lo zaino della pietà».
Tutto pullula di eventi, qualcosa di nero sempre incombe. Ma in ogni caso
«Dioniso dolce sorride al mattino».
L'equilibrio si rompe, gradualmente. Le prime poesie della seconda
parte (L'azione distratta) preannunciano la tempesta con un crescere
lento di risacca. Ma l'evento preparato, quando giunge, è sorprendente:
un sorridere irto di schiume nella poesia a Chiara. Lo stupore segna la
svolta. Questa bella emozionante lirica fa grazia alla drammaticità
del passaggio. Il nuovissimo inatteso irrompere dell'umano nel divino ruba
a questo la vita, come Prometeo agli dèi il fuoco, ma per farne
altro uso. Suono, odore, colore sono qui una cosa sola. E comincia il brulichio
botanico. Le piante, i fiori, i frutti sono in questo libro gli angeli:
crocus ciclamino aglio peperoncino; e frumento, oleandri, girasoli, limoni;
e querce, pino, lentischio, mimosa; e paglia; e lamponi, carrubo, diospero,
pomodoro; e ulivi, acacie, lecci, eucalipti, pioppo, salici; e gigli, cipolle
(come quelli in dignità d'odore), narcisi, maggiorana, nepitella;
e more. E non si finirebbe mai, per Linneo! Che annunciano il ricordo della
terra o il suo avvicinarsi, e accompagnano il viaggiatore.
Ma, subito dopo, un ottone aspro squarcia l'aria, acme della distrazione
(come io la intendo): «Lunghe sere d'inverno / se l'economia di mercato
/ lascia te sola me confinato... / la fantasia copre la distanza / del
vero e del giusto ... ». Qui il viaggiatore sembra abbandonare le
trombe d'oro della solarità e cominciare a prendere sopra di sé
tutti i carichi degli accidenti, nel suo andare «incontro alle vie
del mondo».
E invece, improvvisamente, odori, suoni, colori si interpongono
con rinnovata veemenza: gli acrostici e i giochi allitterativi e rimali
di Villaggio scagliano contro la sconfitta e il dolore una tumultuante
irriducibile pulsazione di vita. Ciò che di straordinario ha questa
sezione è l'effetto psicologico contrastante con i suoi materiali:
sonorità trionfante festosa di contro a ricorrente cupezza di situazioni:
«valle cupa aspra petrosa», «occhio che spaura»
(con consapevoli echi ... ), «estati di uragano», «il
suo cuore nero», «rancori di evasi», e, estremo, «se
smuovi il sasso ne vedi le ossa»; finché: «Tutti prendono
la parola / Tutto diventa possibile». Il contrasto è parallelo
a quello, riconosciuto nei versi di Isola, dove Dioniso sorride
contro gl'inferi: ma, in Villaggio, singolarissima è 1'unità
degli opposti, celebrata dal triplice grido finale «Agorà».
Felicissima sequenza, questa sezione, intermezzata dalla prima, e ardua,
affermazione esplicita, predicata, didattica: «Tendo le reti ...
/ Non edificate monumenti / o torri / io le smonterei per farne alloggi...»:
soprassalto dell'azione che, distratta, vuole esercitare la sua forza,
realizzare il suo desiderio. Ma, poco dopo, lo smacco: « ... oggi
sono una quercia senza radici». E’ necessario sottolineare sempre
questa ciclicità, che impedisce continuamente di posare sull'uno
e sull'altro termine della lizza.
Automobile è tutta nel ferrigno dominio dell'azione.
E tuttavia, di nuovo, se ne ritrae: attenti a «Di notte ancora quando
... », dove il mezzo meccanico e il «dorso di mulo» confligono
e congiurano ad un tempo perché 1'uomo corra verso la montagna.
Ritorna, sempre, la dialettica azione/isola. Di quando in quando, emerge
il tentativo di trasgredire l'eternità di questa dialettica intima:
con l'invito, con il suggerimento, con la condanna, qui pronunciata contro
l'Europa «sopravvissuta al mio tempo»; mentre intanto è
affidato soprattutto al linguaggio il compito di balenare asprezze che
denuncino le asprezze del conato trasgressivo: «scatena ratta la
mitraglia / di melograno sul sole disfatto»: efficace forma nella
quale precipita tutto il potenziale delle contraddizioni di cui vive questo
libro - suono della storia (e dell'azione), da una parte; dall'altra, sentimento
lacerato fra l'inerzia divina del sole e la prassi.
Il bilancio Dare / Avere prepara la congettura del ritorno
(vedremo perché «congettura»). La «sconfitta»
(non solo, e indubbiamente, storica, ma soprattutto impossibilità
di riposare su uno dei termini in conflitto, o meglio, di riunirli nella
totalità) passa attraverso una discesa al padre biologico (che non
a caso il poeta prende sulle spalle, come Enea Anchise) e poi, quasi subito,
a un padre storico (non solo suo!), Romano Bilenchi: ambedue conferenti
alla sconfitta, ciascuno a suo modo, santità e orgoglio. A questo
punto si potrebbe dire «consummatum est», se un atto d'amore
proveniente dal regno del sole (che è quello, ricorrente, del pagano
dio della vita) non procedesse alla identificazione desiderata, in corporea
salute, del padre storico con il passero che, sull'albero del diospero,
«... salta sulla polpa più gialla / e il becco inzuppa felice
/ di esserci» (è inderogabile notare quell'«inzuppa»,
per chiunque faccia ricerca di poesia).
Il passero continua il ciclo della vita, ed è intercessore
del ritorno o, meglio, della congettura del ritorno. Un viaggio al Sud,
percorso lungo una conclusive prosa lirica di asciutta e densa scansione,
è in realtà la ricerca di «un posto per lasciar passare
la notte»: è, questa, la clausola del libro, che riprende
le parole di tre versetti prima, ugualmente significatrici di conclusione:
«Mi sento leggero e volo in un cielo che ha per pianeti pomodori.
Di essi io mi nutro e digerisco il mio destino». Questo è,
come dicevo all'inizio, altra cosa dal restare nell'isola, altra cosa dal
lasciarla. Non si va, non si rimane. Ci si accovaccia in una vita indistinta
e personale, orgogliosamente umile (in netto antagonismo con la pubblica
e corrente prostituzione del «privato»), che sembra prender
luogo di tutto: in attesa che passi la notte, perché «vivere
vale la pena». Ma è, quest'ultimo, uno sguardo di pietà,
un commovente conato d'amore rivolto a se stessi. L'ultimo movimento al
quale la volontà, che ha chiamato sé medesima, stoicamente,
“azione distratta”, resta stoicamente appigliata.
Miglior partito che seguire il viandante non ho saputo trarre: era
necessario, per esperire il tentativo di immaginare ciò che avesse
da dire lo scrittore, stante che lo scrittore sia uno che, come asseriva
Bilenchi, ha qualcosa da dire.
Resterebbe da parlare più da presso del linguaggio, ma veda
ognuno da sé questa «bella d'erbe famiglia e d'animali»,
nella quale l'assenza di sperimentalismi metrici e retorici non impedisce
l'invenzione. Giovanni Commare conquista una identità di linguaggio
non penalizzata da echi letterari, pur presenti (magnogreci, per esempio,
attraverso mediazioni, come a me pare, quasimodiane).
Solo continuando il viaggio; senza andata né ritorno, verso
il luogo di un'azione che non sia, per volontà sua o altrui violenza,
distratta, si potranno invenire sempre più stringenti ragioni di
necessità per la forma dell'azione.
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