Intervista
al regista francese in Italia per la presentazione del suo film
"L'uomo del treno"
«Tutti vorremmo aver vissuto
la vita che non abbiamo avuto. Impossibile, certo, è sempre troppo
tardi: solo nei film l'impossibile può almeno prendere forma». Così
Patrice Leconte ha descritto sinteticamente
il suo ultimo film, "L'uomo del treno",
qualche mese fa. Ce lo ha confermato: tutti sognano almeno una volta
nella vita un'altra chance. A vederlo da vicino non sembrerebbe la
persona che qualche anno fa ha scatenato una polemica
violentissima con la critica francese, accusata di essere troppo
lontana dal pubblico. Lui non si sente affatto un regista intellettuale
e ci tiene a ribadirlo: quel genere di film, semplicemente lo odia. Qualcuno
sostiene che i suoi film sono intrisi di filosofia
zen, vista la loro essenzialità. A lui la cosa non dispiace
affatto, anche se tiene allo "spessore" dei suoi personaggi. L'abbiamo
incontrato nella stupenda cornice dell'ambasciata francese a Roma,
per la presentazione alla stampa de "L'uomo del treno", nelle sale
italiane dal 22 novembre.
Quanta gente, secondo lei, vuol scambiare con altri
la propria vita?
Arrivati a un certo stadio della propria esistenza, tutti abbiamo
questo sogno. Io sono forse l'eccezione che conferma la regola: volevo
fare il regista e ci sono riuscito. In fin dei conti però fare film
è come avere un sacco di vite diverse.
I suoi personaggi sono fuori dal tempo e dalla
storia.
Sospendere il tempo per tutta la durata di un film è uno degli obiettivi
della pellicola, a mio avviso. Il film si gira all'incirca in due
mesi, eppure dura soltanto un'ora e mezza: anche questa è una distorsione
spazio-temporale che non può non ripercuotersi sul risultato finale.
L'idea di questo film è partita dall'incontro con
gli attori. Le è successo altre volte?
Sì, mi è già capitato. In questo caso è stato Johnny Hallyday "l'istigatore"
del progetto. Ci siamo incontrati nel 1998 alla cerimonia dei César
dove mi ha confidato «Un giorno mi piacerebbe essere diretto da te».
È passato un po' di tempo, poi è scattata la seconda idea: fare un
film con Johnny Hallyday e Jean Rochefort: la storia è nata proprio
dall'incontro di questi due personaggi.
Non crede che legare la regia agli attori possa
trasformarsi in un limite?
No, non lo credo affatto. Per me è semplicemente uno stimolo, niente
di più.
Nel suo film la colonna sonora gioca un ruolo fondamentale
In effetti ho partecipato attivamente alla scelta della musica come
alla scelta dei colori delle scene nel tentativo di sottolineare due
mondi diversi, contrapposti, apparentemente inconciliabili, che si
incontravano per la prima volta: quello di Manesquier e quello di
Milan.
Quali sono i registi che Le piacciono?
Quelli molto vecchi, degli Anni Quaranta, ma non mi considero un nostalgico.
Sicuramente non amo il cinema intellettuale: prediligo più il cuore
del cervello.
E quali sono invece i registi italiani più conosciuti
in Francia?
Quelli più noti come Bellocchio, Moretti, Benigni. Putroppo da noi
non arriva quasi nulla dei vostri registi emergenti.
Programmi futuri?
Nel 2003 girerò un film il cui titolo in italiano potrebbe essere
più o meno "Confidenze troppo intime". Sarà una commedia psicologica
in cui una giovane donna decide di andare dallo psicanalista, ma sbaglia
porta. Le apre un consulente fiscale che per timidezza, perversione
o forse curiosità non le dice la verità.
Se avesse un'altra chance, un'altra vita, che mestiere farebbe? Forse il pittore, perché è libero di lavorare come e quando
vuole. Ma non un pittore qualunque, un pittore di successo, naturalmente.
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