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Leconte, il contastorie 18 ottobre 2002
Intervista al regista francese in Italia per la presentazione del suo film "L'uomo del treno"
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«Tutti vorremmo aver vissuto la vita che non abbiamo avuto. Impossibile, certo, è sempre troppo tardi: solo nei film l'impossibile può almeno prendere forma». Così Patrice Leconte ha descritto sinteticamente il suo ultimo film, "L'uomo del treno", qualche mese fa. Ce lo ha confermato: tutti sognano almeno una volta nella vita un'altra chance. A vederlo da vicino non sembrerebbe la persona che qualche anno fa ha scatenato una polemica violentissima con la critica francese, accusata di essere troppo lontana dal pubblico. Lui non si sente affatto un regista intellettuale e ci tiene a ribadirlo: quel genere di film, semplicemente lo odia. Qualcuno sostiene che i suoi film sono intrisi di filosofia zen, vista la loro essenzialità. A lui la cosa non dispiace affatto, anche se tiene allo "spessore" dei suoi personaggi. L'abbiamo incontrato nella stupenda cornice dell'ambasciata francese a Roma, per la presentazione alla stampa de "L'uomo del treno", nelle sale italiane dal 22 novembre.

Quanta gente, secondo lei, vuol scambiare con altri la propria vita?
Arrivati a un certo stadio della propria esistenza, tutti abbiamo questo sogno. Io sono forse l'eccezione che conferma la regola: volevo fare il regista e ci sono riuscito. In fin dei conti però fare film è come avere un sacco di vite diverse.

I suoi personaggi sono fuori dal tempo e dalla storia.
Sospendere il tempo per tutta la durata di un film è uno degli obiettivi della pellicola, a mio avviso. Il film si gira all'incirca in due mesi, eppure dura soltanto un'ora e mezza: anche questa è una distorsione spazio-temporale che non può non ripercuotersi sul risultato finale.

L'idea di questo film è partita dall'incontro con gli attori. Le è successo altre volte?
Sì, mi è già capitato. In questo caso è stato Johnny Hallyday "l'istigatore" del progetto. Ci siamo incontrati nel 1998 alla cerimonia dei César dove mi ha confidato «Un giorno mi piacerebbe essere diretto da te». È passato un po' di tempo, poi è scattata la seconda idea: fare un film con Johnny Hallyday e Jean Rochefort: la storia è nata proprio dall'incontro di questi due personaggi.

Non crede che legare la regia agli attori possa trasformarsi in un limite?
No, non lo credo affatto. Per me è semplicemente uno stimolo, niente di più.

Nel suo film la colonna sonora gioca un ruolo fondamentale
In effetti ho partecipato attivamente alla scelta della musica come alla scelta dei colori delle scene nel tentativo di sottolineare due mondi diversi, contrapposti, apparentemente inconciliabili, che si incontravano per la prima volta: quello di Manesquier e quello di Milan.

Quali sono i registi che Le piacciono?
Quelli molto vecchi, degli Anni Quaranta, ma non mi considero un nostalgico. Sicuramente non amo il cinema intellettuale: prediligo più il cuore del cervello.

E quali sono invece i registi italiani più conosciuti in Francia?
Quelli più noti come Bellocchio, Moretti, Benigni. Putroppo da noi non arriva quasi nulla dei vostri registi emergenti.

Programmi futuri?
Nel 2003 girerò un film il cui titolo in italiano potrebbe essere più o meno "Confidenze troppo intime". Sarà una commedia psicologica in cui una giovane donna decide di andare dallo psicanalista, ma sbaglia porta. Le apre un consulente fiscale che per timidezza, perversione o forse curiosità non le dice la verità.

Se avesse un'altra chance, un'altra vita, che mestiere farebbe?
Forse il pittore, perché è libero di lavorare come e quando vuole. Ma non un pittore qualunque, un pittore di successo, naturalmente.

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