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L'Università degli Studi di Napoli fu fondata dall'imperatore del Sacro Romano Impero e re di Napoli e Sicilia Federico II di Svevia il 5 giugno 1224 tramite un editto (la generalis lictera) spedito da Siracusa. Poiché l'ateneo fu creato per volere stesso dello "Stupor Mundi" (così venne definito Federico per via della sua passione per il sapere), l'Università di Napoli è considerata in assoluto la prima Università di tipo statale (non fondata, cioè, da corporazioni o associazioni di intellettuali, ma bensì da un sovrano). Due furono i motivi principali che spinsero l'imperatore all'edificazione dello studium generale (l'Università principale del Regno di Sicilia): in primo luogo la formazione esclusiva del personale amministrativo e burocratico della curia regis e quindi la preparazione dei giuristi che avrebbero aiutato il sovrano nella definizione dell'ordinamento statale e nell'esecuzione delle leggi; in secondo luogo agevolare i propri sudditi nella formazione culturale, evitando loro inutili e costosi viaggi all'estero. La scelta della sede cadde su Napoli per motivi non solo culturali (la città aveva avuto una lunga tradizione in merito, specie in epoca virgiliana) ma anche geografici ed economici (i traffici via mare, il clima mite e la posizione strategica all'interno del regno furono, in un certo modo, determinanti).

Inizialmente gli studi furono indirizzati verso il diritto (fondamentale per la formazione dei giuristi), le arti liberali, la medicina e la teologia: quest'ultima, rispetto alle altre materie, venne insegnata presso sedi religiose, in particolare nel convento di San Domenico Maggiore, dove insegnò dal 1271 al 1274 Tommaso d'Aquino. Inoltre, durante il periodo angioino, l'Università di Napoli, a differenza delle altre, restò indipendente dal potere papale. Le prime difficoltà arrivarono con l'avvento del dominio aragonese nel 1443, che di fatto costrinsero l'ateneo ad una prima chiusura. L'Università fu riaperta nel 1465, a seguito di un intesa tra re Ferdinando il Cattolico e papa Paolo II, salvo poi essere nuovamente chiusa nel 1490. Si dovette aspettare il 1507 affinché lo studium partenopeo riaprisse i battenti, ricominciando dal convento di San Domenico Maggiore, che ne fu la sede per tutto il Cinquecento. In seguito, nel 1616, fu realizzata la costruzione, ad opera dell'architetto Giulio Cesare Fontana e per ordine di Don Pedro Fernando de Castro, conte di Lemos e viceré di Napoli, del Palazzo degli Studi (ora sede del Museo Archeologico Nazionale di Napoli), edificato appositamente per ospitare l'Università.

Durante il Seicento l'Università visse, al pari degli altri atenei europei, un lungo periodo di decadenza, cosicché a Napoli cominciarono a sorgere scuole private e collegi ecclesiastici, che a poco a poco si affiancarono ad essa togliendole spazio. Solo a partire dal Settecento, prima con gli Asburgo e poi con i Borboni, l'ateneo fridericiano ricevette una grande spinta in senso positivo da parte delle autorità; è in questo periodo che il filosofo Giovanbattista Vico insegnò nell'Università partenopea.

Nel 1777 la sede fu trasferita al Convento del Salvatore, dove prima risiedeva il Collegio dei Gesuiti, in seguito alla dissoluzione e all'espulsione dell'ordine religioso per volere di re Carlo III di Borbone. Per tutta la seconda metà del 18° secolo, l'ateneo divenne il fulcro della cultura del regno borbonico, anche perché vi furono molti docenti (tra cui Antonio Genovesi) che vissero appieno nell'ambiente illuministico. Da lì partì quel movimento di intellettuali che diede vita ai moti del 1799 ed alla (breve) esistenza della Repubblica Partenopea. Nonostante ciò, le scuole private ritornarono in auge, divenendo la struttura portante dell'istruzione nell'Italia meridionale dalla Restaurazione sino all'Unità d'Italia. Per tale motivo, l'Università di Napoli ebbe delle gravi conseguenze nel momento in cui, dopo la nascita del Regno d'Italia, dovette uniformarsi alla legge Casati, rivelando forti disparità rispetto alle altre sedi italiane, proprio a causa della numerosità di istituti privati concorrenti. Per merito di leggi specifiche, volte a standardizzare le Università italiane, come il Decreto Legge del 30 maggio 1875 (emanato da Ruggiero Bonghi) e il Regolamento del 1876 (emanato da Michele Coppino), l'ateneo partenopeo riuscì ad abbattere tali diversità, già evidenziate nel 1860 dal direttore generale della Pubblica Istruzione Francesco De Sanctis, che contribuì energicamente al suo ammodernamento. Nel 1884, dopo una violenta epidemia di colera e rendendosi conto che la struttura del Convento del Salvatore era ormai inadeguata, l'Università fu spostata, grazie ad iniziative di rinnovamento urbano, nella nuova sede di Corso Umberto I, dove tuttora risiede.Sede centrale in Corso Umberto I

A cavallo tra Ottocento e Novecento il prestigio dell'Università di Napoli aumentò, in particolare in ambito scientifico, mentre in quello giuridico ebbe dei grossi limiti, poi superati grazie alla legge Gentile, che modificò alla radice l'intera struttura scolastica italiana. Nuove difficoltà di carattere edilizio ed organizzativo afflissero l'ateneo sia durante il ventennio fascista sia durante la II guerra mondiale, in cui l'Università fu colpita violentemente da un incendio appiccato dalle truppe tedesche il 12 settembre 1943. Nel dopoguerra, in seguito all'evoluzione moderna del modello universitario in generale, l'Università degli Studi di Napoli divenne l'ateneo più importante d'Italia per numero di iscritti, secondo solo a quello di Roma. Nel 1987 assunse l'attuale denominazione, con l'aggiunta del nome del fondatore, dal momento che 2 anni più tardi, nel 1989, da una parte di essa venne fondata la Seconda Università di Napoli.

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