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Folklore calabrese
Quarant'anni di tradizioni popolari
Essendomi occupato fin da giovane delle tradizioni calabresi, ho avuto
l'occasione di scoprire i proverbi, autentiche espressioni popolari che
affondano le loro radici nella nostra civiltà contadina del passato. Quando,
quarantuno anni or sono, il prof. Antonino Basile di Palmi venne a sapere di
quest'interesse mi pregò di preparare una raccolta di detti per "Folklore della
Calabria", rivista della quale era direttore. Fu così che nel n. 14-15 (aprile -
sett. 1959) di essa sono apparsi per la prima volta circa 400 "Proverbi di San
Martino", raccolti dalla viva voce popolare. Ciò non mi risultò difficile
poiché, essendo mio padre il collocatore del paese, avevo la possibilità di
conversare con i lavoratori della terra. Sistemati per argomenti e tradotti in
lingua i nostri proverbi sono stati, in seguito, ripresi da numerosi studiosi.
Basta citare il famoso glottologo Gerhard Rohlfs che ha riportato i vocaboli più
caratteristici nel suo Nuovo Dizionario Dialettale della Calabria (Longo
Editore - Ravenna) con la sigla R 20; il docente universitario Cosimo Cucinotta
che ha selezionato molti aforismi nel suo pregevole volume Proverbi calabresi
commentati (Edikronos - Palermo); lo scrittore Francesco Grisi che ha copiato
integralmente nel suo libro Leggende e racconti popolari della Calabria (Newton
Compton editori - Roma 1987 - pp. 210-215) i "Proverbi in agricoltura". I
"Proverbi calabresi" del libro di C. Cosimo (Brancato Editore - CT), infine, che
ho trovato nelle bancarelle di piazza, sono in gran parte una ripetizione dei
nostri Proverbi di San Martino del 1959. Il consenso di amici ed esperti
m'incoraggiò a scrivere negli anni 1964 e 1965, su "Rassegna Calabrese" (mensile
di Corigliano Cal. - CS), i "Proverbi calabresi". Oltre al significato
letterale, questi modi di dire ne hanno un altro allegorico ed è ben vero che "L
'antichi ficiaru i fatti e dassaru i ditti".
Per ricostruire la vita e la storia della nostra Terra, al fine di comprendere
le sofferenze e le speranze degli antenati, occorre considerare la realtà
sociale dell'epoca - allorquando "cu' patri e cu' patruni s' avìa sempri tortu e
mai ragiuni".
I proverbi rappresentano ancora oggi il vero biglietto da visita di una Regione
che dal duro lavoro dei campi in ogni epoca ha tratto il suo sostentamento: "Lu
zzappaturi zzappa zzappa, dinari 'nta la pezza mai 'ndi 'ngruppa, la sira si
ricogghi trappa trappa: apri, mugghieri mia, su' fattu stuppa!". La traduzione
italiana non può mai rendere l'amarezza che traspare dalle parole del nostro
buon villico: "Il contadino zappa sempre senza mai arricchire; la sera mogio
mogio si ritira tardi a casa e dice alla moglie: apri, cara, non ne posso
proprio più!".
Per secoli la vita in campagna, sia nei rapporti interpersonali sia con
l'ambiente, è stata regolata dal fluire perenne dei giorni e delle stagioni.
Pertanto, il patrimonio culturale tramandatoci si presenta vasto e interessante.
Con l'anno nuovo, a Gennaio, il cui nome deriva dal latino Ianuarius (divenuto
per ragioni fonetiche Ienarius), si provvedeva alla potatura degli alberi ed in
particolare dei vigneti: "A jenaru puta paru".
E, per quanto riguardava le viti: "Se vo' linchìri lu cellaru (la cantina),
zzappa e puta 'nta jenaru".
Ma quello che più contava in questo periodo era il freddo intenso che
costringeva giovani e vecchi a rimanere seduti accanto al focolare: "Jenaru
scorcia i' vecchi o' focularu e i giuvanedi aundi 'i cchiappa".
Febbraio, che in origine chiudeva l'anno, era il mese delle "purificazioni":
Februarius (più tardi nella lingua parlata Febrarius).
Si riteneva che il giorno della Candelora (2 febbraio) l'inverno fosse
terminato. Ma, a sottolineare l'errore, usciva l'orso dal suo covo per ricordare
che ancora bisognava sopportare per altri quaranta giorni il freddo: "D' 'a
Candilora 'u 'mbernu è fora; ma se nesci i l'urzu d' 'a tana dici: o voliti o
non voliti, n'atri coranta jorna di 'mbernu 'ndaviti!". Le qualità di febbraio
erano evidenti e mal si augurava a chi le avesse disconosciute: "Frevi mu 'ndavi
cu' frevi mi misi, ca sugnu lu hjuri di tutti li misi: fazzu l'erba crìsciari,
li donni abbellìsciari; li gatti vannu a paru, alla barva di Jenaru!".
Marzo, Martius mensis, dedicato a Marte, dio della guerra e protettore dei
Romani, occupava anticamente il primo posto nel calendario. Per la sua
instabilità era considerato pacciu (pazzo). Ma avrebbe provocato una cattiva
annata se così non avesse fatto: "Se marzu no' marzija, 'u massaru no' palija".
A marzo ogni cespuglio costituiva un comodo giaciglio e si avvertiva una gran
fame: "A marzu ogni stroffa è jazzu: 'i mani 'nta limba (grande scodella di
terracotta) e 'i pedi 'nto matarazzu".
Aprile, dal latino aperire (aprire), era consacrato a Venere Aprilia,
la dea che dava inizio al tempo dei fiori e dei frutti. Il 21 del mese si celebrava il
Natale di Roma. Anche se marzo aveva fatto fiorire le piante, il merito andava
(come in tante altre cose) ad aprile: "Marzu faci 'u hjuri e aprili 'ndavi l'
onuri".
Il lavoro dei terreni incolti risultava faticoso, specialmente ai margini dei
campi: " 'E primi d'aprili a li margi non 'nci jiri, se pe' sorta vai dintra e
di fora non ti mentiri mai".
Maggio, deriva dal latino Majus - un "dio grande" da identificarsi probabilmente
con Giove, o da Maia, madre di Mercurio - dea dell'abbondanza. Non si mutavano
ancora gli abiti: "A maju no' cambiari saju". Nei campi le piogge risultavano
provvidenziali, come dall'espressione: "E' comu n' acqua di maju!". Finalmente
anche gli asini potevano nutrirsi a sufficienza con l'erba tenera: "Campa
sumeri, finu chi maju veni!".
Giugno, Iunius (mensis), era dedicato dai Romani a Giunone, la maggiore dea
dell'Olimpo. Era tempo di raccolto: "Sìmina quandu voi, c' a giugnu meti",
oppure: "A giugnu 'u ranu 'n pugnu, a giugnettu (luglio) 'u ranu è nettu".
Luglio mutò il nome Quinctilis (il quinto di dieci mesi) in Julius
- per onorare Giulio Cesare. In questo periodo i temporali avrebbero potuto pregiudicare il
raccolto delle olive: "Se chiovi p' 'o suli leuni, dassa 'a 'liva a lu patruni!".
Agosto, che cambiò il nome Sextilis (sesto) in Augustus,
in onore all'imperatore Augusto - nipote di Cesare, era importante per l'agricoltura:
"Agustu ogghiu e mustu". (Ad agosto le olive mettevano olio e l'uva metteva mosto).
Ma la vigna doveva essere lavorata per un buon raccolto: "Se voi aviri bonu mustu, zzappa 'a
vigna jntra agustu". Era anche tempo di fichi, come ricordava il detto: "Quandu
canta la cicala, va e ddùnati a la ficara".
Settembre, così chiamato perché il settimo, "septem", in ordine di tempo
nell'antico calendario romano, col suo clima moderato faceva maturare la frutta:
"Settembri caddu e asciuttu, maturari faci 'u fruttu".
Ottobre, da "octo"- l'ottavo mese per i Romani, ancora conservava il calore
estivo: "Ottobri coci 1' ovu".
Novembre, da "novem" - perché il nono del calendario romano, portava la festa di
S. Martino, durante la quale si usava spillare il primo vino: "Pe' San Martinu
ogni mustu è vinu". Ma, rammenta un aforisma di Palermo: "Quandu 'nci su' sordi
'ntro cilicchinu è sempri Natali, Pasca e San Martinu". Alla fine del mese ci
preparavamo per la più grande festa dell'anno, il Natale, come dal detto: "Sant'
Andria (30 nov.) portau la nova ch' allu sei (6 dic.) è di Nicola, all' ottu è
di Maria, allu tridici di Lucia, allu vinticincu (25 dic.) lu veru Missìa".
Dicembre, dal numerale "decem", perché decimo nel calendario romano, era famoso
per i Saturnali che si celebravano con giochi e banchetti orgiastici. Mentre i
contadini piantavano gli ortaggi invernali, i pastori cominciavano la produzione
di formaggi: "Di Santu Nicola ogni mandra faci 'a prova". Finalmente, dopo il
Natale la natura si rinnovava e i giorni cominciavano ad allungarsi: "A Natali
'nu passu di cani, di Natali 'n poi 'nu passu di voi (bue)".
Dopo questa breve divagazione sul tempo e le stagioni, ci piace concludere con
un significativo decalogo tratto dai nostri proverbi.
Il mondo, purtroppo, è regolato dall'interesse. Nel n.9-10 (agosto-sett. 1964)
riportavo su "Rassegna calabrese" la prima parte di un noto canto popolare di
valore proverbiale. In esso si affermava: "Finché ho avuto ed ho potuto sono
stato stimato ed ho elargito i miei beni solo per onore e fama; adesso, che vivo
in miseria e son disperato, vengo sfuggito persino dai congiunti". "Fina chi
eppi e potti fu' stimatu,/ dezzi la rrobba mia pe' onuri e fama;/ ora non haju
e sugnu disperatu,/ la stessa carni mia chi non mi ama".
Nei rapporti con gli altri occorre prodigarsi negli elogi, complimentarsi ma non
obbligarsi: "Non ti 'ntricari, non ti 'mpacciari, non fari beni ca ricivi mali".
Una forte personalità, frutto del nostro impegno, conduce sempre al successo.
Chi non è costante nelle sue cose non approda a nulla: il fiume porta via la
pietra senza limaccio: " 'A petra chi no' fa lippi veni 'u hiumi e s''a leva".
Ciò l'aveva sperimentato anche il topo nel forare la noce: " 'Nci dissi lu
sùrici a la nuci: dammi tempu ca ti pèrciu!". E' proprio vero, se vuoi essere
rispettato devi guardare gli altri dall'alto in basso: "Statti gatu, se vo'
'siri amatu!".
In ogni settore della vita sociale è preferibile essere testa di lucertola e non
coda di leone: "Megghiu testa di gefrata e no' cuda di leuni".
"Poderoso caballero1 es Don Dinero"; spesso si deve bussare
con i piedi perché
le mani sono occupate: "Senza dinari non si canta Missa e mancu morti si lèvanu
a la fossa". (Perfino nelle funzioni sacre e nel seppellimento dei cadaveri
bisogna porre mano al portafogli). Le burrasche della vita si devono affrontare
con molta pazienza, poiché il miele attira sempre a sé le mosche: "Pacenzia 'nci
voli a li burraschi, ca 'u meli non si mangia senza muschi".
Se è vero che "repetita iuvant", "sed stufant" (come aggiungevamo da studenti),
per stare tranquilli è ancora valida la regola: "Mali no' fari e paura non
aviri".
E, "dulcis in fundo", se tutto va male ci sarà sempre una bella moglie per
consolarci, in quanto: "La brutta quand'è brutta di natura hai vogghia pemmu fai
lu strica e lava; la bella quand' è bella di natura cchiù sciamparata
(disordinata) va' e cchiù bella pari!". Non sono, forse, carine le nostre
compagne? Se qualcuno noterà contraddizioni tra una massima e l'altra, sappia
che così è la vita. Da parte mia posso assicurare che osservando scrupolosamente
il presente decalogo non c'è da pentirsene: sarò - comunque - disposto a far
valere la moderna formula "soddisfatti o rimborsati".
1 Oppure: "caballerus est don Denarius" -
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