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Folklore calabrese
La donna calabrese: ieri e oggi
Per i nostri antenati la donna era considerata in condizioni di passiva
subalternità nei confronti dell'uomo. La Storia Sacra, addirittura, riporta fin
dal suo inizio un episodio non proprio edificante. Verso il 1850 a.C. il Signore
disse ad Abramo: "Parti dalla tua terra e vieni nel paese che ti mostrerò. Poi
farò di te una grande nazione, ti benedirò e farò grande il tuo nome". A tale
invito il semita lasciò la Mesopotamia per trasferirsi in Canaan. Era con lui,
unitamente agli altri, la moglie. E stando per entrare in Egitto, Abramo disse a
Sara: "So che tu sei una bella donna e che gli Egiziani, appena ti avranno
veduto, diranno: - E' sua moglie - e uccideranno me, e lasceranno a te la vita.
Di' dunque che sei mia sorella" (Gen.,XII).
Convinse allora la consorte di concedersi al Faraone. In cambio riceverà greggi,
armenti, asini, schiavi e cammelli. L'avvenenza femminile, come appare, viene
messa a frutto fin dalla Bibbia. Anche nella tradizione popolare calabrese
c'imbattiamo spesso in facezie, metafore eufemistiche e domande maliziose:
"Piscinara, chi ti dassàu Patri Gustinu?" (Pescivendola, che cosa t'ha lasciato
Padre Agostino?), chiede con ironia l'audace giovane, e la donna di rimando:
"Chidu chi 'nci dassàu l'arcipreviti a to' soru!" (Ciò che l'arciprete ha
lasciato a tua sorella!).
La forza erotica della donna, è risaputo, non trova paragone con l'uomo:
"Tira cchiù 'nu pilu di fìmmana a la 'nchianata, ca 'nu paricchiu di voi a la
calata" (Trascina più un pelo di femmina in salita che un paio di buoi in
discesa).
Ma non è questo l'intento del nostro discorso!
Un fantoccio qualsiasi è da preferirsi ad una donna, sostiene un aforisma di San
Martino di Taurianova (Reggio Calabria): "Mu jesti omu e puru mu jè di pàgghia". La donna,
infatti, ha capelli lunghi e cervello corto: "'A fìmmana 'ndavi i capidi longhi
e 'a menti curta". E' ben misera la casa in cui manca un uomo, buono o tristo
che sia: "Bonu tizzuni e malu tizzuni, amara chida casa chi no' ndi chiudi!".
Un marito dappoco era superiore a qualsiasi amante imperatore: "Mègghiu maritu
nipiteda e no' garzu 'mperaturi".
La nascita di una bambina costituiva motivo di preoccupazione per numerosi
genitori, in quanto occorreva predisporre il corredo nuziale: "'A fìgghia 'nda
fàscia e 'a doti 'nda càscia". (La figlia in fasce e la dote nel baule).
Venivano privilegiati i maschietti che - oltretutto - garantivano la continuità
del casato: "Aundi 'nc'è omu 'nc'è nomu". (Dove c'è uomo c'è nome).
La virilità era una prerogativa indispensabile per gli uomini: "Diu mu ti lìbara
di l'òmani spani e d''i fìmmani barvuti!". (Dio ti scansi dagli uomini imberbi e
dalle donne barbute!).
Gli incarichi di responsabilità venivano affidati al sesso maschile, alle donne
non era permesso accedere a tante cariche pubbliche. All'uomo si confaceva il
fucile come al gentil sesso la calza: "All'omu 'a scupetta, a' fìmmana 'a
cazetta".
Si diceva ancora a S. Martino, come in altre località
calabresi:
"Se voi vidìri 'a bella massara, guàrdala quandu smìccia la lumera".(La vera
massaia si rivela intenta ai lavori domestici da mane a sera, fino al lume di
candela). La passività imposta rendeva vulnerabile e bisognosa di protezione
ogni donna: "'A fìmmana senza statu è comu 'u pani senza lavatu". (La nubile è
come il pane senza lievito). Di conseguenza, il matrimonio si celebrava molto
presto: "A quindici anni 'a mariti o 'a scanni". (A quindici anni la donna dovrà
accasarsi).
Le virtù delle figlie si misuravano dal luogo di provenienza: "La fìmmana com'è
faci li cosi, lu focu di chi jè faci li brasi". (Dalle opere si giudica la
stirpe, come dalla brace la legna). Ma se il matrimonio procurava dignità, era
pur vero che la fortuna della famiglia dipendeva dalla donna: "'A fìmmana faci e
'a fìmmana spaci 'a casa". Non c'era da fidarsi delle donne che perdevano tempo
fuori casa: "'A fìmmana chi va' fora no' tila e no' lenzola". (Chi va in giro
non disbriga alcun corredo). Era, pertanto, da punire severamente colei che si
allontanava senza motivo dalle mura domestiche: "A' fìmmana chi anda, rruppinci
la gamba!").
Gli occhi rappresentano ancora la finestra dell'anima: "'A fìmmana vana si
canusci all'occhi, l'omu mortu di fami a li stendicchi". (La vanità femminile
traspare dagli occhi, l'uomo affamato dagli stiracchiamenti).
La natura può privilegiare una donna facendola nascere graziosa: "Cu' nasci
bella nasci maritata". (Non ci sono difficoltà per una bella a trovare marito).
In passato si consigliava di preferire l'avvenenza femminile al danaro: "Se ti
mariti pìgghiati 'na bella e no' 'na brutta cu' 'rrobba e dinari: la 'rrobba si
'ndi va' all'acqua e allu ventu, la bella resta e ti la poi prejari". (Le
ricchezze andranno dissipate, ma una bella consorte si può ammirare ed amare per
sempre).
Una mogliettina carina, inoltre, era motivo di orgoglio: "Cu' havi dinari pocu
sempri cunta, cu' 'ndavi 'a muggheri bella sempri canta".
Così i nostri avi più fortunati che lavoravano fuori, lontani da casa,
rientravano volentieri a fine settimana per abbracciare la loro amata: "Lu
sabatu si chiama allegra cori pe' li muggheri di li foritani: a cu' l'avi bella
'nci allegra lu cori, cu l'avi brutta chi nci torna a fari?".
Ed infine, non c'è rimedio per le megere: "La brutta quand'è brutta di natura,
hai vògghia pemmu fai lu strica e lava; la bella quand'è bella di natura, cchiù
sciamparata (disordinata) va' e cchiù bella pari!".
"No comment" in quanto le donne calabresi sono meravigliose!
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