QUANDO
IL NATALE ERA BIANCO
Un vento pungente di tramontana
spazzolava piazze e strade rimuovendo da terra le ultime foglie
che avevano opposto una tenace resistenza ai venti autunnali e
alla scopa di Ernesto. L’inverno era arrivato puntuale ma
Ernesto, lo stradino comunale, non aveva completato il lavoro
quella vigilia di Natale. La febbre lo aveva costretto a letto
e, nel forzato riposo, poteva gustare il suo piatto caldo preferito,
"la sòpa coe tripe e el butiro", così
come andava cantarellando tutti i giorni, mentre saliva e scendeva
il tratto di strada a lui assegnato, muovendo con maestrìa
la fedele saggina. All'epoca, il Natale era la festa per antonomasia,
la festa della famiglia, del calore del focolare. C’era
in grandi e piccoli l’attesa di un evento straordinario;
era la gioia di stare assieme a creare quella magica atmosfera,
pur se già nel corso degli anni ’50 la gente cominciava
a dedicarsi ai regali sulla spinta dell’immagine pubblicitaria
che ci era stata riproposta di Babbo Natale.
In realtà già gli Antichi Romani, ormai cristianizzati,
avevano iniziato questa consuetudine quando, per ricordare il
“dies natalis” dell’Impero e di Gesù,
cominciarono a scambiarsi cesti di frutta come augurio di prosperità
per l’anno che incominciava. Anche il sommo Dante in un
canto del Purgatorio che ben non ricordo, dopo essersi scagliato
in un’invettiva contro la lupa, simbolo dell’avarizia,
faceva parlare un’anima in pena per celebrare esempi famosi
di magnanimità: e qui spuntava la storia di San Nicola
che, intenerito dalle preghiere di un pover’uomo che non
poteva fornire la giusta dote alle figlie, decise di risolvere
la questione. Arrampicatosi sul tetto della casa, fece scivolare
dal camino, dove erano appese le calze delle fanciulle, un sacco
di monete d’oro. Il padre salvò l’onore e le
figlie poterono trovare marito, evitando così la strada
della prostituzione. La vicenda subì nel tempo qualche
modifica e il nostro personaggio sarebbe diventato l’uomo
benefico che calava dal camino il cibo alla gente bisognosa e
i regali ai più piccoli. Insomma il vecchio divenne S.
Nicolò ed il nome olandese del santo, Sinter Klass, importato
in America dagli immigrati come Santa Claus divenne presto tradotto
in italiano come Babbo Natale; con la sua barba bianca e vestito
di rosso inteneriva i cuori, e la gente si scrollava dall’avarizia
per un giorno, ricorrendo al negozio più vicino per comperare
i regali...
I bambini di quel freddo inverno aspettavano l’arrivo di
Babbo Natale, scorrazzando per le vie, imbacuccati in vecchi cappotti
e passamontagna, ai piedi le galosce, quella specie di scarpe
con la suola di legno. I loro giochi misti a schiamazzi erano
una specie di danza per invocare la neve. Quando i primi fiocchi
volteggiavano nell’aria era un’esplosione di felicità.
Un breve istante di esitazione per rendersi conto che era vera
neve e...via di nuovo. Solo allora ci si poteva accorgere del
colore paonazzo dei volti. Alcuni, non riuscendo ad eludere la
sorveglianza familiare, erano costretti ad osservare quello spettacolo
dalle finestre di casa. Le loro facce melanconiche si notavano
attraverso i vetri appannati delle abitazioni, dove qualche dito
disegnava figure che svanivano presto nelle gocce del vapore.
L’arrivo della neve metteva fretta ai “grandi”
e, mentre raggiungevano casa con le ultime provviste si salutavano
scambiandosi vicendevolmente “...la tàca…la
tàca…la vien dal Furlàn…se va avanti
cussì, doman matina ghe né meso metro…”
Nonostante i disagi, la neve era il giusto complemento del Natale
e quando la notte si faceva più buia il riverbero del manto
bianco e l’assoluta mancanza di rumori davano al paesaggio
un profondo senso di tranquillità.
Le poche lampade dell’illuminazione pubblica lasciavano
intravedere una lunga fila di alberi spogli i cui rami caricandosi
di neve, creavano effetti meravigliosi, e poi i fili della luce
venivano intrecciati di coltre bianca e il bagliore che li sfiorava
dava origine al moderno concetto di “luminarie”. Quelle
sarebbero arrivate dopo il boom degli anni sessanta, agli albori
del consumismo.
Nel 1954 la neve era caduta particolarmente abbondante. Nella
notte di Natale avevamo avuto la visita del Bambin Gesù.
L’idea del più “laico” Babbo Natale stentava
a prendere piede in una famiglia religiosa come la nostra, tutt’al
più avremmo potuto accettare che Babbo Natale accompagnasse
Gesù Bambino.
I doni erano comunque arrivati puntualmente, uno per ognuno di
noi tre fratelli. Al più grande era toccato il gioco del
meccano, al mezzano un libro di una grande fiaba “il Re
del fiume d’oro”, al terzo più piccolo una
giostrina metallica con la carica a molla. Quando i genitori tornarono
da “Messa prima” ci trovarono già svegli, indaffarati
con i regali e non curanti se ai vetri della finestra della stanza
da letto c’erano i ghiaccioli. Fuori un manto bianco copriva
case, strade e viottoli e la neve continuava a turbinare nell’aria,
mossa da un vento che non voleva cessare. Anche noi fratelli,
fatta eccezione per il più piccolo, che non aveva ancora
l’uso di ragione, saremmo presto partiti per raggiungere
la chiesa. Con quel tempaccio sarebbe stata una vera impresa recarsi
alla Messa. Ben infagottati scendemmo in strada, ma non v’era
traccia della carreggiata. Tutto era bianco. Cercavamo di mettere
i piedi sulle orme di chi era passato prima ma anche queste erano
quasi ricolme dalla neve che continuava a scendere ed il freddo
era sempre più pungente. Con grande fatica raggiungemmo
la chiesa. Entrati ci accorgemmo che c’erano più
pastori nel presepe che gente in carne ed ossa, ma le funzioni
cominciarono regolarmente. Me ne stavo rannicchiato, seduto su
di una piccola panca cercando in tutti i modi di riscaldarmi ma
non ce la facevo e cominciavo ad avvertire un gran dolore ai piedi.
Non potevo più resistere anche se il mio sguardo era volto
alla fredda capanna dove il Bambin Gesù, incurante della
temperatura, seminudo ed a braccia aperte ascoltava le nostre
balbettanti parole. Fu allora che Maria, la nostra sorvegliante,
sempre severa e pronta a richiamarci alla minima distrazione,
vedendomi piangere dal dolore, si avvicinò ed esclamò:
“oh! poro fantulìn, quanto freddo no atu!”
Subito mi slacciò le scarpe, me le tolse e rimosse pure
i calzini. Prese fra le sue mani i miei piedi gelidi e, alitandovi
sopra, cominciò a riscaldarmeli proprio come avrebbe fatto
la Madonna del presepe duemila anni prima. Vinto il momentaneo
imbarazzo dovuto al luogo sacro e alla strana operazione, sentii
che il sangue riprendeva a circolare. Quando mi prese in braccio
e fui avvolto dal suo calore, allora compresi il bene che la Maria
“Gaìna” voleva a tutti noi. Sono passati cinquant’anni
da allora: Ernesto se n’è andato la Maria”Gaina”
anche, e tante persone non sono più tra noi, ma, ad ogni
Natale sono preso dai ricordi di un’infanzia felice nonostante
tutte le difficoltà.
E’ per questo che a Natale tutti si sentono più buoni?
Succede anche a voi?
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Tiziano Biasi - Natale 2003