NON
PIU’ FRONTIERE
Non è difficile ritrovarsi
in aperta campagna. Basta abbandonare la via principale per qualche
centinaio di metri e subito il paesaggio cambia.
La realtà di ogni nostro paese è questa, anche se
col passare degli anni alcuni di questi luoghi stanno tentando
la via della “metropoli”. Riconosco che il termine
è un po’ eccessivo dal momento che metropoli nel
suo significato letterale vorrebbe dire “città madre”,
il luogo principale quindi di una regione, di un distretto, ma
forse è proprio questo lo sbocco naturale di un territorio
che si espande a macchia d’olio e trova il maggior ostacolo
nella sua struttura originaria; il fatto di essere cresciuto a
ridosso di una strada di grande traffico.
Allora, lasciata la via principale, mi ritrovo a contemplare campi
verdi, campi appena arati, campi con i primi germogli. Siamo ai
primi di maggio e mi rendo perfettamente conto come la campagna
non sia più governata dal “comune senso del ciclo
delle stagioni”, quanto dalle speculazioni del momento.
La speculazione non è un assolutamente negativa: è
il saper cogliere l’opportunità del momento con un
po’ di rischio. “Ghe n’è pi dì
che luganega”, questo detto è sempre valido e ci
fornisce il senso del nostro operare.Trarre il massimo profitto
va bene, ma pensiamo anche a domani.
Chi ha seminato a novembre si ritrova col frumento alto. Il colore
verde indescrivibile dato dal primo apparire della spiga con le
sue sfumature biancastre lo fa sembrare una coltre di velluto.
Quando il vento cambia direzione la tonalità muta come
al passare della mano sul tessuto dal vello raso e morbido e vi
assicuro che è sempre una riscoperta, ogni volta che appare
allo sguardo.
Dall’altra parte un campo risulta seminato di recente, terra
bruna, bagnata, a tratti luccicante, avida di questa pioggia tenera
di maggio, alternata a sole caldo: in breve tempo lascerà
i suoi germogli e si scoprirà quale graminacea sia stata
seminata. Dall’altra parte si notano già le piantine
verdi allineate di un granturco precoce. Sarà “el
çinquantin”?. Una volta si seminava dopo il frumento
per un raccolto veloce (50 giorni appunto). Di là un campo
incolto, verde in ogni modo, poi una vigna, un frutteto già
sfiorito ma che promette bene. Lontano case, costruzioni, capannoni
in cemento, ma da qui all’orizzonte, la campagna che abbraccio
con un colpo d’occhio sembra mi appartenga. Beh, sarebbe
meglio dire che io sono figlio di questa terra. Non conosco i
confini delle proprietà, non ci sono barriere e neppure
la varietà delle coltivazioni, fra un appezzamento ed un
altro, porta a capire la suddivisione delle singole proprietà.
Penso a tutte le vicende che la storia “nasconde”
dietro questa visione incantevole.
Minuscole schegge di selce, modellate in fogge strane, all’occhio
dell’esperto, sono nientemeno che elementi di un falcetto,
altre visibilmente lavorate a freccia avranno rincorso un uccello
o qualche altro animale nel suo ultimo tentativo di fuga. La presenza
dell’uomo è testimoniata quindi fin dai tempi della
prima grande rivoluzione: la rivoluzione agricola, e mi riferisco
a circa 10.000 anni fa, quando l’uomo da cacciatore divenne
agricoltore.
Poi lotte, emigrazioni, tragiche carestie e guerre, trame e conflitti
ma soprattutto lavoro, sudore e… carte bollate.
E’ il 24 gennaio del 1807. Il Veneto era tornato provvisoriamente
nel Regno d’Italia sotto l’egemonia napoleonica. In
una carta bollata da 5 soldi, due trafficanti dell’epoca
stipulano un contratto per la cessione di un pezzo di terra al
prezzo stabilito di lire d’Italia 2.200 e 21 centesimi che,
in lire di Milano sono 2.866 e tredici soldi, corrispondenti a
lire veneziane 4.300. Potete immaginare la difficoltà di
fare la spesa nelle botteghe dell’epoca rispetto ai nostri
giorni in cui, di moneta ce n’è una sola, ahimè
l’Euro.
Vi renderete conto come da una bucolica contemplazione della campagna
mi sia ritrovato a parlare di soldi e di un’unica grande
Europa, allargata ora a 25 Paesi, sì una grande campagna
in cui non esistono più barriere, né muri, né
frontiere. Si tratta di una corsa in avanti, ma è proprio
vero che ci sentiamo tutti cittadini europei?
Nel lontano passato abbiamo avuto più di un esperimento
di questo tipo a partire da Roma e voglio fermarmi a Napoleone.
Ogni volta che fu raggiunta la massima espansione, abbiamo assistito
ad un declino, talvolta catastrofico. Certamente le unioni di
allora erano il risultato di campagne militari, di guerre, anche
preventive. Questa unione invece è il risultato di accordi,
di trattative, ma il linguaggio è lo stesso per tutti?
Gli interrogativi sono tanti e anche volendo leggere le statistiche
con grande cautela mi domando come si possa realizzare una convivenza
tranquilla fra cittadini della stessa Europa che, da un lato hanno
un reddito pro-capite di 58.000 Euro e dall’altro di 4.400.
La sfida è tutta economica! E’ solo l’economia
a governarci? Il presente è pieno d’interrogativi
e il futuro è un’incognita. Incertezze e difficoltà
del nostro tempo…di tutti i tempi.
Abbandonata di nuovo la campagna, ritorno sulla strada principale:
incontro gente del paese, gente di colore, marocchini, albanesi.
Accosto ad un bar per un buon caffè. Il mio sguardo si
incrocia con “due occhi a mandorla”. Sono veramente
in Europa?
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Tiziano Biasi - maggio 2004