PERCHE’
LA GUERRA?
Lasciato l’elastico con la
semplice apertura di pollice e indice chiusi gli occhi per un
istante. Sentii un crepitìo d’arbusti ed un disperato
pigolìo. Quando li aprii, qualche metro oltre i miei piedi,
giaceva un piccolo passero sfracellato. Il sasso scagliato a tutta
forza dalla piccola fionda aveva colpito in pieno petto quell’uccellino
che aveva trovato rifugio tra le foglie di un gelso e stava assaporando
il dolce gusto delle more. Mi ero allontanato dalla congrega degli
amici impegnati a cacciare lucertole sul muro esterno del cimitero.
I grossi gelsi offrivano un po’ d’ombra ai contadini
che lavoravano la terra, ed anche a noi ragazzini in attesa di
rientrare in casa per i compiti; gli ignari passeri non conoscevano
le nostre barbare abitudini e saltellavano di ramo in ramo, godendo
del refrigerio di quelle fronde.
Nel primo pomeriggio delle belle giornate il nostro divertimento
era proprio quello di dare la caccia alle lucertole, che se ne
stavano al sole sul muro bianco del cimitero, e cosa assai più
impegnativa, agli uccelli. Eravamo dotati di fionde autocostruite.
Un rametto di “sanguinella” veniva scelto accuratamente
fra le siepi che cingevano le varie proprietà di campagna.
Si essiccava, correggendone la foggia mediante un grosso elastico
ricavato dalla camera d’aria delle ruote di bicicletta e,
con la stessa gomma si ricavavano due lunghe strisce d’elastico
da agganciare alla forcella di legno indurita. Restava da recuperare
un pezzo di cuoio per la “tasca” della fionda detta
appunto “curamèa”. Tutto questo “armamento”
non era difficile da trovare. Bastava chiederlo ai meccanici di
biciclette e ai calzolai. In paese c’era buona scelta, ma
non tutti erano così bendisposti a fornirci il materiale
alla prima richiesta e ci dicevano di ritornare all’indomani.
Anche in questo atteggiamento si nascondeva un insegnamento. Si
doveva chiedere e richiedere e così si imparava a conoscere
il valore di ogni cosa, anche di quelle che non valevano nulla,
essendo destinate ai rifiuti.
Quando raccolsi il passero morto, il suo corpicino era caldo.
Non so dirvi che cosa provai, ma, ad un primo senso di fierezza
seguì un turbamento e quando il sangue mi imbrattò
le mani, lasciai cadere la piccola preda. Allora decisi che, da
grande, non avrei mai preso la licenza di caccia. Non esultai
con gli amici e nascosi a loro l’uccellino che non portai
nemmeno a casa.
Tutto questo per dimostrare come la violenza sia profondamente
innata nella natura umana. Qualcuno potrebbe obiettare che, provenendo
da una famiglia di cacciatori da generazioni, il mio comportamento
non poteva essere che il risultato di un indirizzo, se non vogliamo
parlare di una vera e propria educazione, ma gli altri ragazzini
non avevano il padre cacciatore eppure li trovavo “spietati”
in queste attività di soppressione di animali e uccelli.
Credo che oggi sia quasi imbarazzante parlare di questi comportamenti.
Nel volgere di cinquant’anni questi giochi fanciulleschi
sono profondamente mutati ed è molto tempo che non vedo
ragazzini con una fionda.
Ma la violenza non è scomparsa. I bambini di oggi giorno
non crescono spontaneamente a contatto con gli animali domestici
delle case coloniche di un tempo e non si avventurano nei campi
alla ricerca di uccelli come succedeva quand’ero bambino
io. Forse qualcuno vede i polli per la prima volta in macelleria,
ma l’aggressività affiora anche nei bimbi sorridenti
e pasciuti e quando sono cresciuti un po’, sembra che basti
un “niente” per scatenarla. Ad estreme conseguenze
ci conducono le cronache di tutti i giorni.
Dunque l’uomo arriva a sopprimere il proprio simile con
freddezza e determinazione, per motivi incomprensibili che nemmeno
la legge dell’evoluzione ci sa spiegare completamente. L’animale
uccide per una necessità biologica od economica, perché
deve eliminare il pericolo che il suo istinto di sopravvivenza
gli fa percepire. L’uomo uccide “per passione”
poiché oltre alla natura, in lui vi è il carattere
che risente dell’educazione e del contesto storico in cui
è cresciuto e la passione diventa spesso il tormento esistenziale.
Non voglio avventurarmi in discorsi di tipo filosofico ma alcune
considerazioni sugli eventi dei nostri giorni portano a pensare
che stiamo veramente imboccando la strada dell’odio, della
morte, della guerra e di cento altre aberrazioni. Lo sconforto
sta nel prendere coscienza che tutto ciò esiste da sempre
e che è destinato a durare nel tempo e, per quanto l’uomo
si sforzi nel perseguire una coesistenza pacifica, il momento
del confronto spesso diviene scontro. Non riesco ad immaginare
una società pacifica. Se dovesse arrivare quel momento
forse quello sarebbe l’ultimo istante dell’umanità.
D’altro canto c’è chi lavora per la vita: ogni
giorno nuove scoperte della scienza e della medicina, ogni giorno
corse disperate per salvare una vita, ogni giorno c’è
una donna che vuole diventare madre tra mille difficoltà,
ogni giorno qualcuno muore per un atto di estrema generosità.
Avrei voluto che quel sasso scagliato dalla fionda, fallito il
bersaglio, si fosse perso lontano. Avrei voluto meravigliarmi
di un uccello in volo… vorrei sorprendermi per un tramonto
infuocato non per fiamme di mille pozzi di petrolio.
E’ questa la guerra che dobbiamo vincere.
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Tiziano Biasi - giugno 2004