Seconda Beatitudine
Beati gli afflitti, perché saranno consolati.
Il pianto che sgorga nel riconoscere i propri peccati è il frutto del pentimento. Il dolore non spezza la fede, non inaridisce la preghiera, muta natura e da dolore diviene consolazione.
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Beati coloro che piangono, perché saranno consolati
Quando è lamento di chi si pente, il pianto è un atto consapevole e doloroso; ogni peccatore dovrebbe piangere. È vero che solitamente si piange chi è morto, ma in effetti l'iniquo non è più creatura vivente, bensì morta. Pianga se stesso, dunque, e tornerà in vita; pianga spinto da sincero pentimento e sarà consolato con amorevole perdono. In questa Beatitudine Gesù ci esorta a liberarci con sollecitudine dal peccato, che è sempre in agguato con le sue seduzioni; sicché, divenuti leggeri e agili sulla strada verso la vetta, ci possiamo avvicinare sempre più rapidamente, sospinti dal soffio dell'anima purificata, alla luce perfetta della verità.
Beato è il pianto che è conseguenza dell'ammissione dei peccati, quel pianto che è effetto e non causa degli errori e delle concupiscenze in cui si è caduti. Il dolore dell'anima non può essere considerato estraneo all'essenza stessa della Beatitudine, poiché l'anima deplora la vita passata nel vizio.
L'assenza di dolore è segno che il soffio di vita ricevuto dal Creatore è spento, morto e sepolto sotto il peso dei peccati; alcuni, dopo aver consegnato se stessi a una vita dissoluta senza dolersene, divenuti insensibili e inerti nei confronti della vita virtuosa, non si rendono per nulla conto di ciò che hanno fatto e continuano a fare. Anche Paolo fustiga con la parola chi ha violato il letto nuziale del padre, fino a quando non prende coscienza del suo peccato: «Questa è infatti volontà di Dio, la vostra santificazione: che vi asteniate dall'impurità, che ciascuno di voi sappia trattare il proprio corpo con santità e rispetto, senza lasciarsi dominare dalla passione, come i pagani che non conoscono Dio; che nessuno in questo campo offenda o inganni il proprio fratello, perché il Signore punisce tutte queste cose, come vi abbiamo già detto e ribadito. Dio non ci ha chiamati all'impurità, ma alla santificazione»
(1Ts 4,3-7).
Il pianto è una cupa disposizione dell'anima, è la reazione dolorosa per la perdita di quello che piace, per la privazione di ciò che è desiderato. Tale disposizione non trova spazio in chi trascorre una vita lieta.
Chi abbia potuto contemplare il vero bene e ha poi preso coscienza della povertà della natura umana, riterrà la sua anima completamente sventurata, perché oggi la vita degli uomini è condotta su strade che allontanano da quel bene. Gesù considera beato non il dolore, ma la conoscenza del bene. Il bene di cui siamo stati privati trascende le nostre facoltà; di conseguenza, diventa fondamentale ricercare quale sia mai quel bene da cui la tenebrosa caverna della natura umana, in questo vivere quotidiano, non può essere illuminata. Il nostro desiderio non volge forse lo sguardo verso ciò che è indeterminabile e incomprensibile? Quanto più crediamo che il bene sia, per sua natura, superiore alla nostra conoscenza, tanto più cresce in noi il pianto, la disperazione, perché il bene da cui per sorte siamo separati è di natura così immensamente elevata, che non possiamo contenere neppure la sua conoscenza.
Ciascuna delle passioni che si agitano in noi, qualora abbia preso il sopravvento, diventa padrona di chi ha reso schiavo. Impossessatasi dell'anima, la passione maltratta chi le è assoggettato, facendo uso dei suoi ragionamenti per ciò che le pare; così l'ira, la paura, l'ignavia, l'audacia, la passione del dolore e del piacere, l'odio, la vendetta, la mancanza di pietà, la rudezza, l'invidia, l'adulazione, l'indolenza e tutte le passioni asserviscono l'anima al proprio potere. Sembra una condanna senza speranza, ma non è così: l'anima volga lo sguardo verso il vero Bene e riemergerà dall'inganno della vita presente.
Gli uomini che non hanno alcuna conoscenza dei beni di cui la nostra natura è stata privata trascorrono la vita presente nel piacere; e vivere in tale totale dissolutezza porta a non ricercare le realtà migliori. Gesù chiama dunque beato il pianto, non perché lo consideri un momento di beatitudine in sé, ma per l'effetto che ne consegue sull'anima.
Dice il Signore: "Beati coloro che piangono", e non termina qui il discorso, ma aggiunge "Perché essi saranno consolati". Chi preconobbe questa verità fu Mosè nelle mistiche osservanze della Pasqua; egli prescrisse al suo popolo nei giorni festivi pane azzimo, ossia un pane senza sale, senza lievito e senza olio, cotto velocemente su piastre arroventate, per essere presto pronti a seguire il Signore: «Ecco in qual modo lo mangerete: con i fianchi cinti, i sandali ai piedi, il bastone in mano; lo mangerete in fretta» (Es 12,8-11); per il pasto, poi, come companatico, egli stabilì erbe amare, affinché il popolo imparasse, attraverso simili simbolismi, che non si può aver parte a quella mistica festa in altro modo se non accompagnando le amarezze del quotidiano con la semplicità della Vita vera. Anche Davide, pur vedendo il culmine della fortuna umana cui era giunto, aggiunse le "erbe amare" alla sua vita, languendo nel gemito e piangendo per il prolungamento del suo soggiorno nella carne.
Parimenti Gesù non perde occasione di mettere in guardia i suoi discepoli sugli effetti e le conseguenze future di una vita terrena vissuta solo tra godimenti e ricchezze: «C'era un uomo ricco, che vestiva di porpora e di bisso e tutti i giorni banchettava lautamente. Un mendicante, di nome Lazzaro, giaceva alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi di quello che cadeva dalla mensa del ricco. Perfino i cani venivano a leccare le sue piaghe. Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli nel seno di Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando nell'inferno tra i tormenti, levò gli occhi e vide di lontano Abramo e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell'acqua la punta del dito e bagnarmi la lingua, perché questa fiamma mi tortura. Ma Abramo rispose: Figlio, ricordati che hai ricevuto i tuoi beni durante la vita e Lazzaro parimenti i suoi mali; ora invece lui è consolato e tu sei in mezzo ai tormenti»
(Lc 16,19-25).
E ciò è giusto, poiché l'assenza di volontà o, piuttosto, il cattivo impegno ci allontana dal disegno buono che Dio ha stabilito per noi sue creature predilette di tutto il Creato. Infatti, Dio aveva prescritto che il nostro godimento del bene fosse esente dal male e aveva proibito che si mescolasse al bene l'esperienza di ciò che è male (Gn 2,16-17); ma noi, per la nostra voracità e sciocca superbia, ci riempimmo volontariamente del contrario. Per questo la natura umana deve fare esperienza di entrambi, sia partecipare al pianto sia esultare nella gioia. Poiché ci sono due dimensioni dell'esistenza, e la nostra vita è misurata secondo la condotta di entrambe, vi sono anche due tipi di gioia: una effimera in questa stessa esistenza, l'altra eterna legata alla prospettiva e alla speranza della Vita futura.
Non è difficile, ora, comprendere il senso di quelle parole: "Beati coloro che piangono"; essi, infatti, saranno consolati per i secoli infiniti; la consolazione avviene mediante la partecipazione del Consolatore. Il dono della consolazione è azione propria dello Spirito di cui anche noi possiamo essere resi degni, per grazia del Signore nostro Gesù Cristo.
Gesù dice: "Beati gli afflitti". L'afflizione non è condizione esclusiva delle persone che hanno delle necessità, dei bisogni, perché sono poveri, perché hanno fame. Per il Signore, gli afflitti sono coloro che sperimentano la difficoltà di vivere secondo le Leggi di Dio proprio su questa terra, in mezzo agli uomini e a tutte le loro erronee strategie di conquista del potere e del piacere.
Gesù stesso prova afflizione sulla Croce quando esclama «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,33), ma non dice: "Dio mi ha lasciato". Con questa esclamazione sembra voler sottolineare quanto sia stato difficile quel momento, perché le ultime fasi della Sua storia umana gli stavano oscurando il volto del Padre, stavano cercando di strapparlo dalla sintonia di intenti con il "Padre mio che è nei Cieli". L'ostacolo al raggiungimento della Beatitudine è proprio questo: il constatare che questo mondo fa di tutto per strapparci, per allontanarci dalla certezza di Dio. L'afflizione è la fatica del credente nella lotta quotidiana contro questa difficile battaglia. La Beatitudine si raggiunge sconfiggendo l'afflizione, nonostante la fatica nel cercare di restare fedeli nel servire il Signore.
Gesù ci dice quindi che se vogliamo continuare a seguirlo, se desideriamo udire la Sua voce e vivere la Sua parola, dobbiamo fare tutti l'esperienza di quest'afflizione, pur nella consapevolezza che dagli uomini attorno a noi non riceveremo mai aiuto per restare fedeli alla Sua parola. Quando Gesù circondato dalla folla dice: «venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi, Io vi ristorerò» (Mt 11,28), vuole intendere che l'afflizione non ci deve scoraggiare, perché Lui è venuto proprio per sostenerci in questa battaglia: «avrete tribolazione nel mondo, ma abbiate fiducia; io ho vinto il mondo!» (Gv 16,33). Ecco la vittoria sull'afflizione!
Non occorre cadere nel buonismo con cui di solito s'interpretano queste Beatitudini: l'afflizione è in relazione alla fede e non è legata alle condizioni umane, terrene, economiche, sociali. Come tale occorre amarla e desiderarla, perché la sua vittoria è un altro passo sul sentiero della "Montagna" che ci porta alla conquista della vetta del Regno dei Cieli.
Solo coloro che piangono o che hanno pianto sanno amare e capire, perché hanno compreso che il dolore si placa se il pianto è sul cuore di Dio, perché hanno compreso che il pianto non spezza la fede, non inaridisce la preghiera, ma muta natura e, da dolore, diviene beata consolazione.